Due film documentario, uno cileno, l’altro statunitense, diversi dal punto di vista formale e contenutistico ma che permettono una seria riflessione sul nostro passato e sul nostro presente. Nostalgia della luce di Patricio Guzmán e Where To Invade Next di Michael Moore sono sicuramente due pellicole da non perdere per il loro taglio critico e di denuncia.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Nostalgia della luce di Patricio Guzmán, Cile, 2010, uscita nelle sale: maggio 2016, valutazione: 7
Sebbene sia stato realizzato cinque anni fa, il film è distribuito in Italia solo a seguito de La memoria dell’acqua di cui costituisce l’antecedente. Anche in questo caso, si tratta di un documentario molto ben realizzato che offre splendide immagini di paesaggi naturali veramente sui generis, lì la Patagonia, qui lo sconfinato deserto di Atacama, il luogo più secco del pianeta. Al regista Patricio Guzmán del resto interessano, oltre a riflessioni poetico-filosofiche su fenomeni naturali estremamente interessanti - nel deserto in particolare si ha la visione più chiara e nitida del firmamento - , le tracce dell’antropizzazione di regioni anche così estreme. Si tratta di tracce non solo notevolmente significative dal punto di vista archeologico e antropologico-culturale, ma dal punto di vista storico, in quanto consentono di scoprire delle pagine particolarmente tragiche della storia cilena, su cui il blocco sociale al potere e di conseguenza l’ideologia dominante ha steso un velo di oblio.
L’attuale società ultraliberista, dove tutto è stato privatizzato a partire dai trasporti e dall’istruzione, in cui gli spazi di democrazia formale borghese sono ridotti veramente al lumicino, è il prodotto di tali tragici eventi del passato, che occorre mantenere nel dimenticatoio per naturalizzare l’assetto sociale esistente. Quest’ultimo che tende ad ampliare all’estremo le differenze sociali è il prodotto in primo luogo del genocidio delle civiltà native portato a compimento alla fine del diciannovesimo secolo, in secondo luogo della violentissima repressione del grande tentativo dei subalterni di rialzare la testa dopo secoli di massacri e di terribile sfruttamento, culminato nel governo di Unidad Popular, presieduto nel 1970 da Salvador Allende.
Quest’ultimo fu un’eccezionale evento che ruppe un corso storico da sempre caratterizzato, dopo il genocidio dei nativi, dal terribile sfruttamento di una forza lavoro in gran parte costituita da neo-immigrati privi di qualsiasi diritto. Tale rottura rivoluzionaria – sebbene limitata essendo il prodotto di una tornata elettorale e di un governo di coalizione presto rovesciato da un golpe militare – ha avuto una portata eccezionale, tanto che nella narrazione del regista il suo Paese, fino a quel momento posto ai margini della storia, si era ritrovato al centro della politica internazionale.
Così anche in questo paesaggio estremo troviamo traccia non solo delle antiche civiltà precolombiane, spazzate via dal colonialismo cristiano, ma anche delle condizioni spaventose di sfruttamento della manodopera immigrata, in particolare dei minatori, le cui fatiscenti abitazioni consentiranno in seguito di impiantare nel deserto il più vasto campo di concentramento della dittatura di Pinochet, sponsorizzata e mantenuta al potere dalle liberal-democrazie in nome della lotta all’impero del male, ossia al comunismo.
Abbiamo così un enorme peso sul presente di un passato fatto di sfruttamento e violenza sui più deboli che non passa, proprio perché la sua presa di coscienza da parte del popolo, che in teoria dovrebbe essere sovrano, è impedita in ogni modo da una società civile che fa da scudo a un potere oligarchico e accusa chi scava nel passato, anche solo alla ricerca dei propri cari scomparsi, come dei residui nostalgici di un’epoca oscura di lotte civili che si pretende ormai del tutto passata. Per cui mentre gli astronomi che studiano nel deserto un passato estremamente remoto, di un mondo preumano, sono tollerati, ostracizzate sono invece le familiari degli scomparsi che ne cercano disperatamente da decenni i resti.
Si tratta di un’intera generazione di intellettuali organici alle masse dei subalterni, di avanguardie, ossia della componente che aveva sviluppato una coscienza di classe indispensabile a dar voce alle rivendicazioni e ai bisogni insoddisfatti delle masse dei subalterni, da sempre privi di voce in capitolo, che è stata quasi completamente spazzata via. Alle migliaia di rivoluzionari torturati, uccisi e fatti scomparire, disperdendo i loro resti nelle zone più inospitali del paese, per cancellarne la stessa memoria, vi sono le migliaia che sono stati costretti alla diaspora, ovvero ad anni di vita in difficili condizioni in esilio. Vi sono, poi, le centinaia di migliaia di sostenitori, di simpatizzanti che hanno vissuto l’esperienza del carcere e della tortura sistematicamente esercitata da un regime affermatosi grazie al sostegno del premio nobel per la pace Kissinger, con la complice copertura delle gerarchie ecclesiastiche, che già avevano ampiamente coperto il genocidio dei nativi. Vi sono, infine, le migliaia di parenti sopravvissuti, dai figli spesso alla disperata ricerca della propria identità, ai familiari ancora sulle tracce dei parenti scomparsi, che peraltro sono costretti a convivere con gli autori di tali spaventati crimini, i quali continuano a tacere sulla sorte delle loro vittime, e continuano a operare nella più totale impunità in nome di una fittizia riconciliazione nazionale.
Per quanto riguarda i limiti di tale meritorio documentario occorre sottolineare il suo carattere troppo elitario e cosmopolitico. Il regista con il suo formalismo, con il suo cinema estremamente lento e riflessivo, pieno di riflessioni poetiche e metafisiche piuttosto astratte, sembra rivolgersi al colto pubblico cinefilo del ceto medio principalmente europeo, più che ai suoi più naturali referenti, ossia i subalterni cileni e, più in generale, sud americani. Certo, ciò è evidentemente reso in parte necessario dall’ostracismo dell’industria culturale imperante nel Cile, territorio dei più estremi esperimenti neoliberisti grazie al terrore imposto dai militari, e dalla necessità di ottenere sostegno e diffusione a livello internazionale.
Al contempo però vi sono tutti i limiti propri dell’intellettuale tradizionale che, per quanto animato da sincero spirito democratico, si sente in realtà del tutto avulso alla cultura nazional-popolare necessaria per rivolgersi ai subalterni del proprio Paese e più in generale del proprio continente. Il suo sguardo è pieno di umana pietà e compassione verso una realtà, quella dei subalterni, che gli resta sostanzialmente estranea. Tanto che la sua visione del mondo resta idealista, volta al primato della contemplazione, estremamente distante sia dal materialismo storico, che dalla filosofia della prassi. Manca così tanto un’analisi strutturale, socio-economica degli aventi storici che si passano in rassegna, quanto quello spirito dell’utopia, quel principio speranza, che guarda al passato in funzione dei rivolgimenti futuri. Abbiamo qui un presente del tutto prigioniero del passato, di un passato che resta tutto sommato oscuro, perché non se ne comprendono le dinamiche strutturali e, quindi, si ha difficoltà anche a individuare una qualche prospettiva di superamento.
Where To Invade Next di Michael Moore, Usa, 2015, uscita nelle sale: maggio 2016, valutazione: 7
Film decisamente interessante che lascia molto da pensare e rielaborare allo spettatore non solo statunitense, al quale è in primo luogo, ma non esclusivamente, diretto. Il film è tutto costruito su un efficacissimo effetto di straniamento, in un’ottica rovesciata rispetto alla sua classica espressione delle Lettere persiane di Montesquieu. Nel film di Moore è un esponente del paese guida, che esercita l’egemonia sul piano sovrastrutturale a livello globale che si assume il ruolo straniante di testimone di aspetti civili che sono considerati naturali nei paesi visitati, mentre appaiono una meravigliosa utopia per lo spettatore statunitense. Il film rovescia così in modo ironico e autoironico la pretesa degli statunitensi di avere una missione divina di esportare i propri valori superiori in tutto il mondo, anche con la forza militare nel caso in cui non fossero ben accetti da quei paesi che ne sarebbero colpevolmente privi.
Moore, dopo aver preso atto di tutti i fallimenti nei tentativi di esportare con la violenza i propri valori all’estero, cerca nel film di importare negli Stati Uniti dei valori dati in un certo modo per scontati in paesi sconosciuti o considerati subalterni dallo statunitense medio, consentendo così un efficacissimo rovesciamento del sogno americano. Il regista statunitense, sempre in chiave ironica e autosatirica, dimostra come il modello statunitense sia decisamente più barbaro e arretrato rispetto a quello di altri paesi a torto generalmente snobbati o guardati dall’alto in basso dagli statunitensi, in conseguenza di ciò anche gli stranieri vedono infranto il loro sogno americano.
Abbiamo così, in primo luogo, la costatazione che gli statunitensi hanno soltanto da imparare per quanto riguarda i diritti dei lavoratori da paesi come ad esempio l’Italia dove le forze comuniste hanno avuto in passato un peso decisamente maggiore, che ha consentito la conquista di condizioni di lavoro decisamente impensabili per un lavoratore statunitense medio. Discorso analogo vale per lo stato sociale e la qualità della vita di un Paese dove le forze di sinistra hanno avuto un peso decisamente più ampio degli Stati Uniti come la Francia. In tal modo si consente di smentire luoghi comuni tipici del pensiero unico neoliberista particolarmente imperante negli Stati Uniti secondo il quale le privatizzazioni permetterebbero un risparmio e dei servizi migliori. In realtà quasi sempre, come vediamo nel film, è vero esattamente il contrario, infatti i servizi pubblici non solo sono di qualità decisamente superiore, non essendo sottoposti alla necessità di essere dequalificati al massimo per massimizzare i profitti privati, ma costano alla comunità decisamente di meno, visto che non sono direttamente funzionali all’interesse di privati.
Allo stesso modo si rovescia l’ottica neoliberista per cui la tassazione diretta sui patrimoni sarebbe un atto totalitario del governo che lederebbe gli interessi dei cittadini. Infatti, quest’ultima è non solo decisamente più giusta e democratica della tassazione indiretta, che favorisce al contrario i più ricchi, ma consente di avere servizi migliori. Allo stesso modo emerge come la campagna tutta incentrata sul taglio delle tasse dirette, non solo comporta una perdita dei servizi sociali, accessibili solo ai più ricchi, ma anche a far passare in secondo piano l’esigenza di rendere piuttosto trasparente l’uso che fa di queste risorse lo Stato. In effetti la logica dello Stato minimo, propria della tradizione liberale, dello Stato guardiano notturno propria della concezione liberista, comporta un costante aumento delle spese per gli apparati repressivi dello Stato, inversamente proporzionale al taglio ai servizi sociali. Del resto più una società è poco solidale e diseguale, più i privilegi vanno difesi con la violenza dinanzi a bisogni sempre meno soddisfatti di una percentuale crescente della popolazione.
Le cose non vanno certo meglio in termini di diritti civili per il modello liberale di cui vanno così fieri gli statunitensi, in primo luogo dinanzi alle conquiste che appaiono quasi utopiste conseguite nelle tanto criticate società socialdemocratiche europee.
In questi ultimi paesi sono decisamente maggiormente rispettati non solo i diritti dei lavoratori, ma delle donne, dei bambini, degli immigrati, dei poveri e degli stessi prigionieri. Su quest’ultimo punto, così importante per la civiltà illuminista, di cui gli statunitensi tendono a credersi a torto eredi, la distanza è abissale. Anche perché con l’affermazione del modello neoliberale si è affermata una logica che porta alla carcerazione di massa della plebe moderna, selezionata spesso su basi razziali, sottoposta al lavoro coatto per imprese private secondo un modello solo quantitativamente differente da quello spietatamente messo in atto nella Germania nazista.
I limiti del film sono individuabili nella ripetitività, per cui questa efficace logica straniante è stata già abbondantemente utilizzata da Moore in Bowling a Colombine e Socialism: a love story, oltre all’interno di quest’ultimo film, dove tutto finisce per divenire un po’ troppo prevedibile e ripetitivo. Infine, dal punto di vista di Paesi con condizioni sociali migliori, solo in minima parte dal film si apprende che tali conquiste sono il frutto di lotte e non devono essere date per scontate, ma rischiano di apparire come dei privilegi sempre meno difendibili in tempi di crisi e di aumento del debito pubblico.