La critica all’intelletto, sia da parte di Hegel che di György Lukács, non è indirizzata alla sua capacità analitica, che in quanto tale è anzi necessaria, ma alla fissazione assoluta di ciò che viene diviso. È quanto accade, per Lukács, nella società borghese, che tende a impietrire le parti nella loro separatezza, lasciandole nell’irrealtà dei loro nessi accidentali. La coscienza borghese non va oltre quest’apparenza; la penetrazione del suo fondamento, l’accesso alla totalità vengono compiuti dal proletariato nel passaggio da classe in sé a classe per sé, ovvero, non già nella figura di capitale variabile, perché in questa immediatezza comparirebbe come mera appendice del capitale irretita all’interno dei rapporti reificati, ma come soggetto consapevole di essere totalità divenuta e che richiede l’abbattimento pratico delle contraddizioni oggettive del capitalismo.
La coscienza di classe – il punto di vista del proletariato, che è parte della società, ma contemporaneamente è totalità riproducente l’interezza dei rapporti sociali – è l’avvenuta risoluzione della sostanza in soggetto: “quando il soggetto (la coscienza, il pensiero) è ad un tempo produttore e prodotto del processo dialettico; quando di conseguenza esso si muove in un mondo che si autocrea e di cui esso è figura cosciente – un mondo che tuttavia gli si impone nella sua piena oggettività; solo allora si può considerare risolto il problema della dialettica e soppressa la contrapposizione tra soggetto ed oggetto, pensiero e essere, libertà e necessità, ecc.” [1].
Il completo assorbimento dell’oggetto nel soggetto, della necessità nella libertà, questo esito ultra-hegeliano deriva, come abbiamo visto, dalla negazione dell’autonomia della natura, che appare nella costruzione teorica lukacciana interamente dissolta all’interno della sfera soggettiva-sociale. Dare giusto rilievo a tutto ciò non significa che Lukács abbia, in questo modo, stravolto l’autentico pensiero di Marx, perché incantato dalle sirene spiritualistiche.
E’ quanto ne ricava, invece, Lucio Colletti, il quale lancia a Lukács l’accusa di spiritualismo alla Bergson per aver egli denunciato la natura quantitativa e fisicalistica del tempo, su cui viene schiacciata l’attività dell’operaio nella fabbrica. È questo un tema tipicamente marxiano, che giustamente Lukács ha premura di richiamare, riferendosi a un celebre passo della Miseria della filosofia [2].
Ecco il commento di Colletti su questo punto: “lo spiritualismo bergsoniano – come si vede – serra il nostro marxista da presso. E, poiché ogni posizione ha la sua logica, Lukács, che sta entrando in fabbrica non con Il Capitale ma con l’Essai sur le données immédiates de la conscience, venuto al cospetto della catena di montaggio, trova che il supremo affronto che vi si faccia all’uomo è che qui non c’è più la ... durée” [3].
Dal punto di vista di Colletti e di Giuseppe Bedeschi gli strali di Lukács, più che al capitalismo, sono indirizzati contro l’intelletto e la scienza; e ciò deriva dall’adozione della dialettica, che intrinsecamente è idealistica. L’antimaterialismo, la negazione dell’autonomia dell’oggetto, l’identificazione di oggettivazione e alienazione, tutti i vizi ed errori idealistici e soggettivistici presenti in Storia e coscienza di classe discendono, a loro parere, dal fatto che la dialettica è stata eletta da Lukács a metodo del materialismo storico.
Ma Lukács non ha mai rinunciato al punto di vista della totalità, cioè alla dialettica. Anche nell’ultima opera Per l’ontologia dell’essere sociale – dove egli rivendica fortemente la priorità dell’ontologico sul logico, dell’essere sul pensiero, e dove il lavoro, la sfera della produzione, viene recuperato come fondamento ontologico e momento soverchiante della totalità storico-sociale – non è meno duro nei confronti del neo-positivismo, il quale, assolutizzando l’approccio empiristico alla conoscenza, funziona da strumento ideologico molto raffinato per la manipolazione delle coscienze nel capitalismo avanzato.
La critica alle forme attuali dell’ideologia borghese ricalca i modi della polemica contro il metodo intellettualistico portata avanti in Storia e coscienza di classe. Ciò ha consentito all’ultimo Lukács di mantenere la validità della teoria della reificazione e di tenere aperta la possibilità del suo superamento. Non così molti suoi critici, i quali, considerando idealistica la dialettica in quanto tale, hanno conseguentemente ritenuto ideologica e non scientifica la teoria della reificazione, che senza il fondamento di quella non può sussistere.
Il riconoscimento dell’insopprimibilità della passività dell’uomo e della sfera della necessità ricongiunge invece Lukács alla formulazione originaria di Marx sul nesso dialettico tra necessità e libertà, tra tempo costrittivo e tempo liberato dalla necessità, e che si trova proprio nel capitolo sulla “formula trinitaria”: “di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i modi possibili di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa, il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa” [4].
Dopo la breve stagione della Repubblica dei Consigli in Ungheria (1919), inizia l’esilio viennese di Lukács, in una situazione storica nella quale progressivamente si consumano le speranze di una immediata rivoluzione in Europa. Se Storia e coscienza di classe fu concepita in un momento di attesa escatologica, il dibattito su di essa (1923-24) si svolge invece in un periodo di riflusso del movimento operaio e di riorganizzazione del potere borghese a livello internazionale.
Il V Congresso del Komintern (1924) prende atto del mutamento dei rapporti di classe e, rinunciando a ogni progetto rivoluzionario, adotta una politica più attendista con la condanna delle posizioni di sinistra all’interno dei partiti comunisti, che coinvolge, sul piano teorico, il “revisionismo” di Lukács.
Isolato politicamente e consapevole dell’impossibilità di un imminente sollevamento rivoluzionario, Lukács si appresta a reimpostare la propria proposta teorica in modo da sottrarsi alle accuse di idealismo e di soggettivismo, senza però rinnegare l’elaborazione dialettica del marxismo. Il ripensamento delle posizioni precedenti è mosso dall’esigenza di una maggiore adesione alle istanze provenienti dal reale, che gli appare adesso ben più complesso, articolato e più ricco di mediazioni rispetto al suo marxismo iniziale.
La direzione impressa alla ricerca acquista il profilo di una considerazione sempre più attenta dei condizionamenti storici e, in generale, dei fattori oggettivi, che, nel suo compimento, metterà in discussione la funzione decisiva, assegnata nel libro del ’23, al principio della coscienza di classe. Tale revisione teorica – che non impedisce a Lukács di proseguire la sua battaglia contro le tendenze positivistiche e la feticizzazione della tecnica canonizzate dall’ortodossia comunista [5] – passa nuovamente attraverso una riscoperta di Hegel.
Note:
[1] Lukács, György, Geschichte und Klassenbewusstein [1923], tr. it. Storia e coscienza, traduz. di G. Piana, introduz. di M. Spinella, Milano, SugarCo Edizioni 1967, prefazione di Lukács p. 188.
[2] Per Marx la quantità di lavoro, a prescindere dalla sua qualità, determina la misura del valore e ciò “comporta che tutti i lavori sono divenuti eguali a seguito della subordinazione dell’uomo alla macchina o della divisione estrema del lavoro; che gli uomini vengono cancellati davanti al lavoro e che il bilanciere della pendola è divenuto lo strumento dell’esatta misura dell’attività relativa di due operai, come lo è della velocità di due locomotive. Non si deve dire, allora, che un’ora di un uomo vale un’ora di un altro uomo, ma piuttosto che un uomo di un’ora vale un altro uomo di un’ora. Il tempo è tutto, l’uomo non è più nulla; tutt’al più egli è la carcassa del tempo. Non esistono più problemi di qualità. Solo la quantità decide tutto: ora per ora, giornata per giornata” Marx, Karl, Misère de la philosophie. Réponse à la “Philosophie de la misère” de M. Proudhon [1847], traduz. di E. Agozzino, Miseria della filosofia. Risposta alla “filosofia della miseria” del signor Proudhon, introduz. di P. Salvucci, Roma, Newton Compton 1976, p. 40.
[3] Colletti, Lucio, Il marxismo e Hegel, Laterza, Bari 1969, p. 342.
[4] Marx, Il Capitale, a cura di D. Cantimori, R. Panzieri, M.L. Boggeri, Roma, Editori Riuniti 1970, vol. III, pp. 231-232 (corsivi nostri).
[5] Esemplare, in questo senso, è la critica mossa al Manuale di Bucharin, nella quale Lukács attacca l’identificazione, teorizzata da quest’ultimo, di sviluppo tecnologico e di forze produttive: cfr. Lukács, Frühschriften II [1968 ], traduz. di P. Manganaro e N. Merker, Id., Scritti politici giovanili, introduz. di P. Manganaro, Bari, Laterza 1972, pp. 187-202.