Gramsci: Partito, sindacato, consigli e rivoluzione

Occorre vivificare la disciplina e l’organizzazione con lo spirito rivoluzionario, dei Consigli, se non si vuole che Partito e Sindacato restino strumenti dell’egemonia borghese sulla società civile.


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Segue da Gramsci, il sindacato e i Consigli

Gramsci mette in luce come ogni tentativo di subordinare le strutture consiliari “al Sindacato determinerebbe prima o poi” necessariamente uno scontro fra le due istituzioni, dal momento che “il Consiglio è una necessità storica della classe operaia”, in quanto sorge in funzione della posizione “che la classe operaia è venuta acquisendo nel campo della produzione industriale” [1]. Così mentre “la forza del consiglio consiste nel fatto che esso aderisce alla coscienza della massa operaia, è la stessa coscienza della massa operaia che vuole emanciparsi autonomamente, che vuole affermare la sua volontà di iniziativa nella storia”, al contrario “alla vita del Sindacato partecipa un numero ristrettissimo di organizzati” (Ivi: 81-2). Questo è il punto di forza e al contempo di debolezza del sindacato.

Se, al contrario, il Sindacato “poggiasse direttamente sui Consigli […] si rifletterebbe nel Sindacato la tendenza propria dei Consigli a uscire in ogni istante dalla legalità industriale, a scatenare in qualsiasi momento l’azione risolutiva della guerra di classe. Il Sindacato perderebbe la sua capacità a contrarre impegni, perderebbe il suo carattere di forza disciplinatrice e regolatrice delle forze impulsive della classe operaia” (Ivi: 82). Si tratterebbe, dunque, di una posizione altrettanto unilaterale, anche se in modo specularmente opposto, della precedente.

Il problema fondamentale è però che, allora come oggi, “nella realtà italiana, il funzionario sindacale concepisce la legalità industriale come una perpetuità”, in altri termini tende a naturalizzarla. Così il burocrate sindacale “troppo spesso la difende da un punto di vista che è lo stesso punto di vista del proprietario”. Tanto che finisce con il riconoscersi più nel modo di vedere le cose del borghese che del proprietario. Ciò dipende dal fatto che la burocrazia sindacale tende a vedere “solo caos e arbitrio in tutto quanto succede fra la massa operaia”. In tal modo non è in grado di universalizzare l’atto di ribellione dell’operaio alla disciplina capitalistica come ribellione, ma come materialità dell’atto che può essere in sé e per sé triviale“ (Ivi: 82-3).

Così dal momento che – “per l’azione che riesce a svolgere, per gli uomini che lo compongono, per la propaganda che sviluppa” – l’ufficio del sindacato è tutt’altro che “un organismo di preparazione rivoluzionaria”, il suo “carattere concentrato e assoluto” non sarà percepito dalle masse come una condizione necessaria per condurre con successo la lotta fino alla vittoria finale. Perciò la disciplina sindacale non diverrà mai “la forma naturale dell’azione svolta dal Consiglio”, in quanto quest’ultimo non potrà accettarla e farla propria in quanto non si tratta certo di una disciplina che possa apparire “alla massa come una necessità per il trionfo della Rivoluzione operaia e non come una servitù verso il capitale” (Ivi: 82).

Dunque, in tali nefaste “condizioni la disciplina sindacale” non potrà che essere “un servizio reso al capitale”. Quindi, in questa deplorevole situazione, “ogni tentativo di subordinare il Consiglio al Sindacato non può che essere giudicato reazionario”. Tale deplorevole condizione non è però un prodotto della natura, del caso, o di un oscuro destino, ma dipende in primo luogo dal fatto che i comunisti oggi sono ridotti ai minimi termini sia dal punto di vista quantitativo, che qualitativo. Tanto che non svolgono il loro essenziale e insostituibile ruolo di costituirsi “in gruppi organizzati permanentemente nei Sindacati e nelle fabbriche”, non riportano nei luoghi di lavoro e nei sindacati le concezioni e la tattica rivoluzionaria di una Internazionale, da tempo estinta, e nemmeno di un partito nazionale rivoluzionario, da anni dileguato. Privi di un’efficace organizzazione fuori e dentro i posti di lavoro, i comunisti residui non sono in grado, se non in modo per lo più sporadico e molecolare, di “influenzare la disciplina sindacale e determinarne i fini” (ivi: 83).

Ciò, ovviamente, non deve portare a fare di necessità virtù, tanto da considerare, come fa l’infantile opportunismo di sinistra, i sindacati in quanto tali un ostacolo al libero esplicarsi dello spontaneismo rivoluzionario della classe. Per i comunisti è essenziale che la decisiva scelta “del momento di scatenare l’offensiva operaia rimanga alla parte più cosciente e responsabile della classe operaia, a quella parte che è organizzata nel Partito (…) e che più attivamente partecipa alla vita dell’organizzazione. Perciò i comunisti non possono volere che il Sindacato perda della sua energia disciplinatrice e della sua concentrazione sistematica” (ibidem), nonostante sia oggi generalmente sotto una direzione riformista e revisionista.

I comunisti residui, generalmente più di nome che di fatto, non solo non riescono ad agire in modo efficace sui sindacati, ma non sono neppure in grado – generalmente non ne hanno nemmeno non solo l’ambizione ma neanche la nozione – di “influenzare le deliberazioni dei Consigli” – sempre che abbiano dato, o almeno avuto l’intenzione di dare, un decisivo contributo a mantenerli in vita – né, tantomeno, sono capaci o per lo meno determinati a “far diventare coscienza e creazione rivoluzionaria gli impulsi alla ribellione che scaturiscono dalla situazione che il capitalismo crea alla classe operaia” (Ivi: 83).

Al di là delle miserie attuali, che fanno apparire talvolta marziane le riflessioni di Gramsci, sarebbe quanto meno necessario riacquisire la consapevolezza – in mancanza della quale non sarà nemmeno possibile uscire dalla nostra deplorevole condizione – che “i comunisti del Partito hanno il maggiore interesse, perché su di essi pesa la maggiore responsabilità storica, a suscitare, con la loro azione incessante, tra i diversi istituti della classe operaia, rapporti di compenetrazione e di naturale interdipendenza che vivifichino la disciplina e l’organizzazione con lo spirito rivoluzionario” (ibidem). Se ne deduce, come lezione per l’oggi, che i comunisti necessitano in primo luogo di un Partito, in secondo luogo di essere parte attiva e organizzata dei diversi istituti – in primis della classe operaia e, più in generale del proletariato – ossia il Sindacato e i Consigli, mirando a trovare la giusta dialettica fra lo spontaneismo anticapitalista e la necessità di una sua direzione consapevole verso la transizione al socialismo.

Proprio perciò Gramsci sostiene che “il processo reale della Rivoluzione proletaria non può essere identificato con lo sviluppo e l’azione delle organizzazioni rivoluzionarie di tipo volontario e contrattualista quali sono il Partito politico e i Sindacati professionali; organizzazioni nate nel campo della democrazia borghese, nate nel campo della libertà politica, come affermazione e sviluppo della libertà politica” [2]. In effetti, proprio nel fatidico biennio rosso non solo le dirigenze sindacali si dimostrano contrarie a dare uno sbocco rivoluzionario all’occupazione delle fabbriche, ma lo stesso Partito socialista non si assume la responsabilità storica di darvi una direzione consapevole, assumendo la guida del processo rivoluzionario spontaneamente innescatosi. In altri termini, proprio nel momento decisivo – nel quale o sei in grado di assumere il potere o rischi di subire la pesantissima reazione del successivo biennio nero, anticamera del Ventennio fascista – il partito sedicente rivoluzionario, il Partito Socialista – tolta la componente che faceva riferimento a Gramsci e che cerca di dare una direzione consapevole al movimento dei Consigli – non è in grado di dirigere verso obiettivi rivoluzionari la mobilitazione spontanea dei lavoratori, proprio a causa della sua direzione massimalista. Quest’ultima appare l’opposto identico dell’ala riformista che controlla il sindacato. Mentre quest’ultima è dotata solo di un programma minimo, di riforme che, per quanto significative, non necessitano per la loro realizzazione il superamento della società capitalista, i massimalisti commettono l’errore specularmente opposto di assolutizzare il programma massimo, senza essere in grado di declinarlo dialetticamente nella situazione rivoluzionaria non prevedibile a priori che si è venuta determinando. Perciò restano rivoluzionari a parole, ma non sono in grado di tradurle in una prassi effettivamente rivoluzionaria, mirando a unire al movimento operaio del nord il più arretrato e contraddittorio movimento contadino del centro-sud. Così la classe potenzialmente rivoluzionaria, il proletariato urbano, ovvero la classe operaia, si trova isolata perché viene a mancare quella organizzazione in grado di collegare, nel momento decisivo, alle lotte dei lavoratori delle città le lotte dei lavoratori delle campagne. Il movimento potenzialmente rivoluzionario del nord non si estende nel resto del paese per la posizione attendista della dirigenza del Partito socialista e viene, infine, sconfitto.

Al contrario, in questa fase di crisi, in cui il vecchio pare destinato a una certa morte, ma il nuovo non è ancora in grado di affermarsi, le classi dirigenti, sapientemente guidate da Giolitti, dimostrano di sapersi riorganizzare più rapidamente delle classi subalterne. Giolitti riesce saggiamente a resistere dinanzi alla spinta della maggioranza delle classi dominanti e delle forze reazionarie che vorrebbero una repressione militare dell’occupazione delle fabbriche. Puntando solo sulla violenza il governo non avrebbe che suscitato ulteriore violenza, con il rischio di precipitare il paese in una guerra civile dagli esiti catastrofici e incerti. Al contrario Giolitti dosa sapientemente il monopolio della violenza legale con la capacità d’egemonia e, dopo aver preparato la situazione nel caso quest’ultima fosse venuta meno, gioca le sue carte puntando sull’avversione dei dirigenti sindacali dinanzi al venir meno della legalità industriale. Riesce così a spuntare un accordo grazie al quale i sindacati avrebbero disoccupato le aziende e avrebbero avuto in cambio una legalizzazione delle strutture consiliari, secondo la formula utilizzata con successo dai sindacati e dalla Socialdemocrazia tedesca della cogestione delle aziende, con cui era stata sconfitta l’opzione rivoluzionaria in Germania.

Tuttavia, al di là delle cause specifiche del fallimento della rivoluzione in Italia, ci sono cause di carattere più universale che Gramsci individua nella struttura stessa del sindacato e del partito, che non a caso Gramsci considera – al pari dei mezzi di comunicazione, della chiesa, della scuola e dell’università – come gli strumenti dell’egemonia della classe dominante sulla società civile. I partiti e i sindacati tradizionali sono in effetti il prodotto dello sviluppo storico del sistema liberal-democratico quale forma più adeguata individuata dall’alta borghesia per mantenere, in forme mascherate, la propria dittatura di classe, con il consenso o, quantomeno, la passività dei subalterni.


Note

[1] Antonio Gramsci, Sindacato e consigli, in “l’Ordine Nuovo” del 15 giugno 1920, ora anche in Bordiga-Gramsci, Dibattito sui consigli di fabbrica, Samonà e Savelli, Roma 1971, p. 81.

[2] Id., Il Consiglio di fabbrica, in “l’Ordine nuovo” del 5 giugno 1920, in Bordiga-Gramsci, cit., p. 71.

02/06/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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