Gramsci, come Lenin, ha ben chiara la differenza fra la rivoluzione e un putsch, un colpo di Stato. Non solo perché considera essenziali le condizioni oggettive, che rendono possibile l’affermazione di una rivoluzione – al di là della determinazione e dell’organizzazione soggettive – ma perché non considera la rottura rivoluzionaria come un evento, un’improvvisa e imprevedibile rottura dell’ordine costituito, come fanno oggi diversi pensatori che, pur definendosi marxisti, hanno una concezione sostanzialmente anarchica della rivoluzione.
Al contrario di questi ultimi, Gramsci sottolinea come “la rivoluzione proletaria non è l’atto arbitrario di una organizzazione che si afferma rivoluzionaria o di un sistema di organizzazioni che si affermano rivoluzionarie” [1]. Dunque la posizione di Gramsci è anche in questo caso radicalmente segnata dalla sua visione del mondo hegelo-marxista, che lo porta a criticare radicalmente le concezioni azioniste e volontaristiche della rivoluzione, fondate sul soggettivismo del dover essere ed essenzialmente irrazionali, in quanto pretendono che il corso del mondo possa essere stravolto da una soggettività rivoluzionaria.
Quindi, di contro a ogni concezione evenemenziale o attualistica della rivoluzione, Gramsci la riconsidera alla luce della prospettiva storicista, di lunga durata, propria della sua Weltanschauung hegelo-marxista, in cui non solo il reale è razionale, ma è sempre il prodotto di un processo storico. Perciò Gramsci, sulla base della concezione materialistica della storia, pone l’accento sul fatto che “la rivoluzione proletaria è un lunghissimo processo storico che si verifica” sulla base di una determinata struttura economico-sociale, nello specifico: “nel sorgere e nello svilupparsi di determinate forze produttive – quando entrano in contraddizione con un determinato modo di produzione basato su certi rapporti di produzione e di proprietà – (che noi riassumiamo nell’espressione ‘proletariato’) in un determinato ambiente storico (che noi riassumiamo nelle espressioni ‘modo di proprietà individuale, modo di produzione capitalistico, sistema di fabbrica, modo di organizzazione della Società nello Stato democratico-parlamentare’)” (ibidem).
È quindi evidente che – per quanto la concezione di Gramsci non sia improntata a un marxismo dogmatico, dottrinario, tanto che intuisce subito la portata creativa e innovativa della Rivoluzione d’ottobre, nel celebre articolo “La Rivoluzione contro il Capitale” – ciò non toglie che la sua concezione del mondo sia saldamente radicata su un fondamento marxista, al di là di tutte le interpretazioni revisioniste che hanno insistito sull’influenza addirittura dominante – in particolare proprio nel giovane Gramsci di cui stiamo trattando – dell’attualismo gentiliano, di Bergson, Sorel o addirittura di Mussolini. Al contrario di tutte queste concezioni soggettiviste che tendono a contrapporre il dover essere al reale – che non intendono nella sua struttura di fondo razionale – Gramsci insiste su una concezione “realista” e immanentista, che coglie la necessità del processo storico di lunga durata che caratterizza la rivoluzione. Infatti, unicamente “in una determina fase di questo processo”, ovvero nel momento in cui necessariamente “le forze produttive nuove non possono più svilupparsi e sistemarsi in modo autonomo negli schemi ufficiali in cui si svolge la convivenza umana; in questa determinata fase avviene l’atto rivoluzionario”.
Non si tratta, dunque, di una forzatura soggettivistica del corso storico, ma di una contraddizione oggettiva, reale, che si viene a produrre, necessariamente, in un determinato momento del processo storico, in riferimento, in primis alla base materiale, ovvero allo sviluppo di un determinato modo di produzione. Perciò Gramsci inserisce la rottura rivoluzionaria come culmine di un processo in cui lo sviluppo delle forze produttive “non possono” – al contrario della concezione soggettivista per cui non intendono, non vogliono o non debbono – “più svilupparsi” all’interno di un determinato modo di produzione caratterizzato da altrettanto determinati rapporti di proprietà.
Solo in questo determinato momento del processo storico diviene razionale e, quindi, capace di realizzarsi nella realtà, il momento soggettivo della prassi, ovvero “l’atto rivoluzionario che consiste”, sottolinea Gramsci, “in uno sforzo diretto a spezzare violentemente” – la rivoluzione non è certo un pranzo di gala – “tutto l’apparecchio di potere economico e politico in cui le forze produttive rivoluzionarie erano contenute oppressivamente”, – al contrario delle illusioni dei revisionisti sulla riformabilità dall’interno di un sistema, come quello capitalistico, fondato sullo sfruttamento. D’altra parte, nella rottura rivoluzionaria dell’ordine costituito, non c’è nulla di utopistico, di arbitrario né, tantomeno, si ritiene plausibile un atto rivoluzionario che non consista “in uno sforzo diretto a infrangere la macchina dello Stato borghese” (ibidem), sulla base di una interpretazione di Marx ed Engels chiaramente orientata in senso leninista, in aperta polemica con le concezioni che si erano affermate nella Seconda Internazionale, sotto l’influenza del “rinnegato” Kautsky.
Per quanto la rivoluzione non possa partire che dalla distruzione dello Stato precedente – in quanto sovrastruttura sorta sulla base di una struttura economico-sociale entrata in contraddizione oggettiva con l’ulteriore sviluppo delle forze produttive – essa deve mirare alla realizzazione di un ordine nuovo, in grado di superare le contraddizioni strutturali del precedente, ossia deve puntare “a costituire un tipo di Stato nei cui schemi le forze produttive liberate” – dagli aspetti ormai irrazionali e, quindi, improduttivi del precedente Stato in senso lato, ricomprendente al suo interno la struttura economico-sociale della società civile – “trovino la forma adeguata per il loro ulteriore sviluppo, per la loro ulteriore espansione”.
Dunque, il primo obiettivo della rivoluzione è la costituzione di uno Stato che consenta, innanzitutto, uno sviluppo dal punto di vista materialistico, ovvero sociale ed economico, delle forze produttive che non ha nulla a che vedere né con la socializzazione della misera, sulla base di politiche meramente redistributive, né tantomeno con le reazionarie concezioni, oggi in voga anche nella “asinistra”, della decrescita felice. Inoltre, contro le concezioni anch’esse elaborate dal “rinnegato” Kautsky, secondo cui sarebbe possibile una democratica transizione al socialismo – come se la democrazia in uno Stato non sia valida solo all’interno della classe dominante – Gramsci aggiunge subito che l’organizzazione del nuovo Stato sarà funzionale, oltre allo sviluppo socio-economico, come “presidio” in cui il proletariato individuerà “le armi necessarie e sufficienti” per sopprimere i propri “avversari” (ivi: p. 71). Quindi il nuovo Stato dovrà essere necessariamente una forma di dittatura del proletariato, anche perché, come appare evidente, gli avversari di classe non saranno affatto soppressi con il solo atto rivoluzionario, ma sarà necessario sviluppare un nuovo Stato per raggiungere l’obiettivo di togliere di mezzo la classe degli sfruttatori.
A tale scopo sarà necessario conquistare il Partito politico e il sindacato dei lavoratori che, pur sorti “nel campo della democrazia borghese”, potranno così incarnare “una dottrina che interpreta il processo rivoluzionario e ne prevede (entro certi limiti di probabilità storica) lo sviluppo”. L’atto rivoluzionario non sarà, dunque, come credono socialisti rivoluzionari e anarchici, il prodotto di un processo spontaneo di sviluppo all’interno del proletariato, ma, al contrario, anche qui in piena sintonia con Lenin, il prodotto di una organizzazione capace di una direzione consapevole, ovvero, come abbiamo visto di “una dottrina” capace di interpretare, nella determinata condizione storica, “il processo rivoluzionario”.
A tale scopo, però, il partito e il sindacato non possono essere delle sette, in quanto per svolgere la loro funzione rivoluzionaria debbono essere “riconosciute dalle grandi masse come un riflesso e un loro embrionale apparecchio di governo”. Solo divenendo avanguardie riconosciute e capaci di dirigere le masse, “diventeranno gli agenti diretti e responsabili dei successivi atti di liberazione che l’intera classe lavoratrice tenterà nel corso del processo rivoluzionario” (ibidem). A dimostrazione ulteriore che quest’ultimo non può essere il prodotto di un colpo di mano di una manipolo di rivoluzionari, ma richiede al contrario, per dare risultati durevolmente proficui, una partecipazione attiva, o quanto meno passiva, di masse proletarie.
Ciò nonostante Gramsci torna a insistere, in polemica sia con i sindacalisti rivoluzionari che con i bordighisti, che il partito e il sindacato anche in questo caso non potranno incarnare il processo rivoluzionario, in quanto “non superano lo Stato borghese, (…) non abbracciano e non possono abbracciare tutto il molteplice pullulare di forze rivoluzionarie che il capitalismo scatena nel suo procedere implacabile di macchina da sfruttamento e da oppressione”. Tali forze rivoluzionarie possono essere intercettate e inquadrate esclusivamente da strutture consiliari e, perciò, il partito nuovo, il principe moderno – secondo la concezione che Gramsci riuscirà ad affermare nel congresso di Lione – al contrario del partito bordighista e, più in generale socialista, fondato sulle sezioni territoriali, sarà organizzato in cellule attive nei luoghi di lavoro e pronte a divenire la direzione consapevole dei soviet che contribuiranno a organizzare.
Il processo rivoluzionario è descritto da Gramsci in termini dialettici, come un lento mutamento quantitativo, che passa generalmente – come la vecchia talpa di Marx – sotto traccia, ma che prepara il mutamento qualitativo, ovvero la rottura rivoluzionaria. Ecco, allora, che “nel periodo di predominio economico e politico della classe borghese lo svolgimento reale del processo rivoluzionario avviene sotterraneamente, nell’oscurità della fabbrica”, quindi non negli spazi aperti, pubblici, dello scambio di equivalenti, ma nel luogo privato della produzione, in cui è vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori, e dove ha luogo lo sfruttamento, ma si produce anche la contraddizione fondamentale fra capitale e forza-lavoro. Perciò sarà decisivo che il partito si articoli proprio “sotterraneamente, nell’oscurità” dei luoghi dello sfruttamento, se vuole intercettare e provare a dirigere il processo rivoluzionario che ivi, lentamente, si viene sviluppando “nell’oscurità della coscienza delle moltitudini sterminate che il capitalismo assoggetta alle sue leggi”. In tale mancanza di coscienza di classe dei ceti subalterni, la possibilità della rivoluzione è presente solo in potenza, per divenire atto si dovrà sviluppare nel senso della coscienza di classe, grazie all’intervento del partito rivoluzionario quale intellettuale collettivo.
D’altra parte, proprio perché la talpa è cieca e scava in profondità, la rottura rivoluzionaria può apparire a diversi intellettuali tradizionali come un evento imprevedibile e imperscrutabile, in quanto finché resta sotto traccia il processo rivoluzionario “non è controllabile e documentabile, lo sarà in avvenire quando gli elementi che lo costituiscono” – si badi bene non tutti, né prevalentemente, elementi razionali – “(i sentimenti, le nozioni, le velleità, le abitudini, i germi di iniziativa e di costume) si saranno sviluppati e purificati con lo sviluppo della società”. Ancora, dunque, un momento di necessità oggettiva, che ha la propria struttura portante nell’oscurità delle dinamiche socio-economiche e diviene cosciente a livello delle sovrastrutture, beninteso “con lo svilupparsi della situazione che la classe operaia viene ad occupare nel campo della produzione” (ibidem).
Note
[1] Antonio Gramsci, Sindacato e consigli, in “l’Ordine Nuovo” del 15 giugno 1920, ora anche in Bordiga-Gramsci, Dibattito sui consigli di fabbrica, Samonà e Savelli, Roma 1971, p. 70.