Si conclude l'itinerario di analisi della politica lanciata negli anni '70 dal carismatico segretario del PCI per scongiurare le strategie golpiste delle forze reazionarie nazionali e internazionali. La sostituzione delle componenti sociali con la loro espressioni organizzata in partiti e sindacati è alla radice del suo fallimento storico e della rottura con le masse giovanili.
di Alberto Pantaloni
Terza parte: il fallimento del compromesso storico
Nel suo libro sulla storia del PCI torinese, Lorenzo Giannotti (che della federazione torinese fu il segretario nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso) racconta che l'assemblea regionale piemontese della FLM che si svolse il 16 ottobre 1979 a seguito dei 61 licenziamenti politici comminati dalla direzione Fiat nello stabilimento di Mirafiori, «si svolse in un clima carico di eccitazione. Quando Luciano Lama pronunciò le parole: “Non abbiamo fatto il necessario per capire i capi. Le nostre piattaforme non sono uno specchio giusto. Anche i capi sono lavoratori sfruttati, partirono bordate di fischi» [1]. Quello citato è solo un piccolo esempio, ma il fatto che sia avvenuto nell'assise unitaria dell'allora sindacato unico dei metalmeccanici, nel quale l'egemonia comunista era indiscussa, la dice lunga sul disorientamento e sulle reazioni certamente non benevole che le nuove strategie di austerity e di moderazione rivendicativa (di cui si è parlato nel precedente articolo) avevano creato.
La “austerità di sinistra” di Berlinguer si inseriva, tuttavia, in un progetto politico più generale, conosciuto come quello del “compromesso storico”. Giuseppe Chiarante, altro storico dirigente del PCI, ricorda come, sebbene questo progetto politico prese forma in una serie di articoli scritti da Berlinguer sul settimanale “Rinascita” fra il settembre e l'ottobre '73 a seguito dei tragici avvenimenti cileni [2], la sua origine va retrodatata a una relazione che il dirigente sardo espose durante il XIII congresso del partito (13 marzo 1972 a Milano). È innegabile che il colpo di Stato guidato da Pinochet, così come le pulsioni autoritarie, golpiste e stragiste che imperversarono un po' in tutto il sud dell'Europa (ma anche in Francia, basti pensare alle minacce di De Gaulle durante il maggio francese), ebbero un ruolo non secondario nell'elaborazione berlingueriana. Il grande storico marxista Eric Hobsbawm, in un suo articolo sul rapporto fra movimento operaio e colpo di Stato, prende a riferimento proprio la proposta dei comunisti italiani come possibile strategia da attuare nei Paesi dove non c'erano condizioni politiche favorevoli:
"abbassare il ritmo del cambiamento sociale a ciò che è accettabile per i potenziali alleati o per i potenzialmente neutrali tra i ceti medi. Il movimento operaio, il nucleo di un governo laburista e progressivo, deve essere visto come il rappresentante e il leader della nazione contro i principali nemici del progresso che devono essere isolati, per quanto possibile. Questo non è necessariamente una scelta di "riformismo" ai danni della "rivoluzione" [3].
Hobsbawm vede nel “compromesso storico” una riedizione dei “fronti popolari” che qualche decennio prima avevano guidato i movimenti nella resistenza, nelle uniche principali lotte armate popolari che ebbero luogo nei paesi industrialmente sviluppati, e che più si avvicinarono alle trasformazioni rivoluzionarie rispetto a qualsiasi altra strategia della sinistra in Europa occidentale. Una certa lettura in termini di strategia egemonica, senza soluzioni di continuità rispetto all'elaborazione togliattiana, è anche quella proposta da Chiarante. In effetti, Berlinguer espose chiaramente l'obiettivo del cambiamento dei rapporti di forza politici nel Paese, in modo da scoraggiare le pulsioni a risolvere manu militari la crescente conflittualità sociale nel quinquennio '68-'72 che si trascinarono almeno fino al 1974, con le stragi di Piazza della Loggia e dell'Italicus. Per far questo e uscire dall'isolamento politico in cui il PCI si trovava, secondo il suo segretario, era necessario l'incontro fra le tre componenti maggioritarie che occupavano lo scenario politico-culturale italiano all'epoca: quella cattolica, quella comunista e quella socialista. Insomma, il partito comunista doveva stemperare toni e rivendicazioni, cercando dei compromessi che facessero risaltare agli occhi il carattere “nazional-popolare” - direbbe Gramsci – della sua azione. La profondità della crisi economica, il drastico calo di autorevolezza della DC (colpita da innumerevoli scandali già all'epoca, vent'anni prima di “Mani Pulite”), l'immagine di buongoverno che il PCI dava in molte amministrazioni locali e in generale la spinta di un movimento di massa per nulla intimorito dallo stragismo, contribuì fra il '73 e il '76 a un'eccezionale escalation elettorale. Mentre dalle piazze e anche da alcuni settori della sinistra extraparlamentare (segnatamente Lotta Continua, che nel 1975 diede esplicita indicazione di votare PCI alle amministrative del giugno), Berlinguer e tutto il gruppo dirigente del partito rafforzarono la determinazione a perseguire la strada del compromesso storico, che sembrò prendere vita con il cosiddetto “governo delle astensioni” (un monocolore democristiano che però godeva dell'astensione benevola di PCI, PSI, PSDI e PRI) e che poi si consolidò con i governi di “unità nazionale” fra il 1977 e il 1979.
Che bilancio si può trarre di questa esperienza di PCI “di lotta e di governo”? Su questo, pur se con accenti diversi, moltissimi storici, ma anche diversi protagonisti di quegli eventi (fra i quali lo stesso Chiarante) convergono su un giudizio non positivo. Sotto accusa è, innanzitutto, l'appiattimento del compromesso storico tra “famiglie” politiche alle loro espressioni puramente organizzate (partiti e sindacati). Secondo Guido Crainz, ad esempio, mettere il “sistema dei partiti” al centro del processo di uscita dalla crisi economica e di rafforzamento della democrazia in senso progressivo fu un suicidio politico, perché proprio quel sistema non solo era già in fase di involuzione profonda, ma fagocitò lo stesso PCI dentro i suoi meccanismi lottizzatori, clientelari e spartitori (come si è già evidenziato nel precedente articolo prendendo ad esempio la RAI, le banche o la Sanità) [4]. Inoltre, per esempio secondo Ginsborg, il PCI non aveva un programma serio di riforma dello Stato ed era incapace di incidere sui programmi dei fallimentari governi di solidarietà nazionale che si susseguirono fra il '76 e il '79 (quasi sempre generici, se non apertamente anti-popolari, come nel caso della “stangata” del governo Andreotti nel 1976). Ciò lo portò alla fine a essere usato dalla classe imprenditoriale nostrana come “pompiere” del conflitto sociale, così come già erano stati utilizzati laburisti e socialdemocratici in Gran Bretagna e in Germania [5].
Pian piano il PCI divenne ostaggio di una visione che aveva sostituito la forma (la partecipazione del PCI al governo) al contenuto (per quali obiettivi?). La classe operaia non riuscì a esercitare alcuna egemonia (obiettivo che peraltro non fu mai visibile neanche con un binocolo), ma agli occhi delle masse il PCI sarebbe cominciato ad apparire sempre più coinvolto in una “partitocrazia onnivora” che chiedeva sacrifici alla classe operaia e abbandonava le nuove generazioni di giovani disoccupati/e e precari/e al loro destino, perché incapace spesso anche solo di capirle e di conoscerle.
Come nella migliore tradizione del “fine giustifica i mezzi” spacciato per “visione generale”, il PCI si sarebbe ficcato nell'imbuto che lo avrebbe portato al “'77”. L'incapacità di comprendere (nonostante i tentativi di Asor Rosa dalle colonne dell'Unità) quel movimento se non in termini di “difesa delle istituzioni”, lo portò a un antagonismo feroce, esploso in quella che, se non una “provocazione”, fu sicuramente una “forzatura” autoritaria, ovvero il comizio di Luciano Lama nell'università di Roma occupata il 17 febbraio 1977. E francamente non si possono condividere considerazioni, come per esempio quella di Chiarante, che avocano al PCI il risultato positivo (l'unico, secondo il dirigente comunista) della “sconfitta del terrorismo”, e ciò per vari motivi, fra i quali se ne possono citare due: il primo è che il fenomeno della lotta armata a sinistra si sconfisse praticamente da solo, prima attraverso una lettura distorta del contesto politico italiano (che sottostimava le capacità egemoniche delle classi dominanti, anche e proprio attraverso l'incorporamento del PCI) e poi attraverso il fenomeno del pentitismo che ruppe la compattezza ideologica e politico-militare che almeno fino al 1980 era sembrata inattaccabile; il secondo è che nella psicosi di vedere nemici dappertutto, il PCI schiacciò sul fenomeno armato tutto il movimento che si muoveva alla sua sinistra.
La conseguenza principale del compromesso storico fu quindi il disorientamento prima e la distruzione sostanziale poi, fra 1976 e 1979, del plurale movimento di lotta che negli anni precedenti lo aveva spinto elettoralmente. La cartina di tornasole elettorale fu chiarissima: nelle politiche del 1979 il PCI perse il 4% rispetto al 1976 (dal 34,4 al 30,4), con perdite secche intorno al 10% in fabbriche simbolo come Mirafiori e a livello giovanile. Berlinguer riconobbe il fallimento della solidarietà nazionale, d'altronde il PCI ritornò all'opposizione già nel gennaio dello stesso anno, ma ormai la frittata era fatta, la situazione era irrecuperabile: 10 anni dopo il PCI cessava di esistere e nasceva il PDS…
Note
[1] L. Giannotti, Da Gramsci a Berlinguer. Il Novecento comunista sotto la Mole, Graphot Editrice, Torino, 2011, p. 144.
[2] G. Chiarante, La politica di Berlinguer fra egemonia e rivoluzione passiva, in “Quaderno di Storia Contemporanea”, 42/2007, Falsopiano, Alessandria, p. 143.
[3] E. J. Hobsbawm, The Labour Movement and military coups, in “Marxism Today”, ottobre 1974.
[4] G. Crainz, Il Paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma, 2005.
[5] P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 2006, p. 523.