Emiliano Valente, attore autodidatta, con una carriera da solista. Un percorso iniziato nel 2001 con la compagnia “Teatro internato” di Stefano Te’. Autore e interprete della performance “La banda del Gobbo”, la storia del famoso personaggio del Quarticciolo nel contesto della Resistenza romana. Nei suoi spettacoli: satira, impegno politico, riflessioni su tematiche sociali, aspetti lirici e onirici come evasione dalla realtà. Ultima opera teatrale, “Namolletta”, come metafora del complottismo e presa di coscienza di un’umanità alla deriva.
di Alba Vastano
Sentir recitare Emiliano Valente nel suo esilarante monologo alla “Casa delle Culture” (Trastevere) è stata una folgorazione. Una folgorazione piacevolissima la performance “Belle bandiere”, di Lorenzo Misuraca, declamata da Emiliano. Quella sera il dibattito politico precedente era davvero impegnativo da seguire. Importante, ma impegnativo e davvero non mi attendevo di uscire dalla “Casa” con il sorriso fra le labbra e un insolito buonumore. Non è che poi molti riescano a darmi il buonumore. Il cerchio si restringe alle persone intelligenti sicuramente, ma di quell’intelligenza ironica, un po’ sferzante, un po’ sopra le righe, che rompe gli schemi. Emiliano Valente l’ho trovato un “grande”. Un attore capace di tenere la scena con i suoi monologhi, senza mai un attimo di incertezze, senza pause, incalzante e sempre più progressivamente e felicemente disinibito. Non potevo “mollarlo”, curiosa come sono delle menti originali, coraggiose e un po’ sfrontate. E al teatro Quarticciolo, l’otto maggio, ero lì, presente e interessata a capire il senso di quella sua annunciata performance “Namolletta”. Altro genere. Ho riso poco e ascoltato molto, per capire. Ho ascoltato anche i commenti del pubblico, non tutti allineati. Alcuni entusiasti, altri meno. Non più satira politica, ma teatro vero, con tanto di musiche ed effetti di luci. Recitazione impegnata con allegorie e metafore. Ripetuti i ringraziamenti finali dell’artista a chi l’ha sostenuto e gli inchini di rito al pubblico. E forse per questo ha sorpreso. Chi si aspettava solo il comico alla “Zelig” si è trovato spiazzato. Un attore davvero poliedrico, capace di lanciarsi ovunque vi sia la possibilità di indagare sulle tematiche sociali e politiche. A questo punto di lui, della sua storia di artista e dei suoi progetti ho voluto saperne di più
Emiliano, dimmi di te, della tua arte, delle origini di questa tua passione per il teatro
Ho iniziato nel 2001 in una compagnia dal nome Teatro Internato, diretta da Stefano Tè. La mia è stata una formazione da autodidatta. Un percorso di duro lavoro e ricerca. Dal 2004 ho iniziato la mia carriera solista, col mio primo spettacolo “La Banda del Gobbo”, sulla storia del gobbo del Quarticciolo e delle Resistenza romana. Da allora, a parte alcune collaborazioni con altre compagnie, ho preferito il percorso solitario. Namolletta è il mio quarto spettacolo.
Quali sono le tematiche che generalmente tratti nelle tue performances e quali quelle che senti più tue e nelle quali esprimi maggiormente e con più passione te stesso?
Parlando di tematiche quello che più mi sta a cuore è la storia, passata e contemporanea. Il mio linguaggio e il mio modo di interessarmene si è modificato nel tempo, pur mantenendo la voglia di indagare sulle dinamiche sociali e politiche.
Meglio satira o teatro impegnato?
Non riesco in nessun modo a definire gli stili. Non amo l'idea di dover per forza etichettare in un modo o in un altro un percorso di creazione. Nei mie spettacoli c'è satira, c'è il tentativo di donare spunti di riflessione su problematiche contemporanee, c'è forse quello che viene definito impegno politico, ma ci sono anche momenti lirici e di evasione dalla realtà. Credo che per provare davvero ad affrontare alcune problematiche ci sia bisogno di riflessioni universali e non particolari.
Nel testo di satira politica (sentito alla Casa delle culture), quali i messaggi? Dove volevi affondare la lama?
“Belle bandiere” è uno spettacolo in cui faccio principalmente l'attore, l'idea e la scrittura sono di Lorenzo Misuraca, giornalista e scrittore. In quel testo appare evidente la volontà di mettere in mostra i tanti clichè della sinistra italiana, e la sua incapacità di uscire dalla gabbia in cui si è chiusa negli anni. Il tutto visto con lo sguardo di chi vive quel quotidiano senso di smarrimento e di vuoto rappresentativo dall'interno. Lo spettacolo è fatto con un taglio ironico e satirico per provare attraverso l'ironia a dipingere meglio le difficoltà dell'essere militanti
"Namolletta" è un testo diverso. Mi è sembrato abbastanza impegnativo, molto allegorico. Vuole essere un monito? Una critica spietata alla globalizzazione? O un invito a migliorare il tempo della vita? Viene presentato come la storia incivile dell'uomo e un po' anche del suo conflitto tra l'avere il distruggere. Non ho ben compreso il senso che vuoi dare alla protagonista “molletta” come metafora del complottismo. Ovvero?
Namolletta, l'ultima fatica scritta con Antonella Bovino, è di certo un testo differente, parte da basi sicuramente surreali. Ognuno credo possa trovarci moniti, critiche o suggerimenti. Di sicuro c'è l'idea di descrivere una stagnazione del concetto di denuncia. Per tanto tempo tutti noi, me per primo, abbiamo creduto che potesse bastare impostare la denuncia limitandosi a raccontare i fatti per quello che sono, senza aggiungere punti di vista differenti, ribaltamenti, propositi. Ci si è seduti pensando che la sola denuncia potesse servire. La denuncia ha poi provocato, estremizzando e sintetizzando i concetti, la nascita di fenomeni di giustizialismo da salotto di casa. E' come se qualsiasi problema riguardasse sempre qualcuno lontano da te e mai te. Su qualsiasi argomento c'è sempre voglia di esprimersi, di dire la propria, di sforzarsi di sembrare esperti, ma si riduce il tutto nel sintetizzare con il sono tutti corrotti, tutti ladri ecc ecc. ma non ci si interroga troppo su come poi realmente ognuno di noi sia in grado di condizionare e agire. Per questo invento una storia assurda, sul possibile inganno riguardante i veri inventori della molletta, e provo a descriverla come la descriverebbe un attore impegnato, o un complottista, o un attore sperimentale. Un esercizio di stile in cui ciò che davvero sembra importante è solo lo stile. Il tentativo è quello di dire: guardate che ciò che conta non è il fatto in sé, ma la capacità che tu hai di studiare, approfondire, analizzare, proporre soluzioni, riguardo quel fatto. E' lo studio e la consapevolezza che creano cittadini coscienti, non l'accusa nuda e cruda. Quella produce solo malcontento, ma non da’ mai l'occasione di avere una possibile soluzione. Per questo poi nel finale, dichiaro ciò che per me è da tenere fermo e immutabile, come se spogliandomi da ogni struttura riuscissi finalmente a individuare ciò che per me dovrebbe essere sempre appeso nella mia testa.
Nella conclusione, con quel girotondo di oggetti appesi, fermati dalle mollette, intendevi trasmettere la metafora di un immobilismo negativo o la necessità di fermare il tempo della vita per riflettere e migliorarla?
La scelta della molletta come oggetto, è la voglia di fare una fotografia sull'invenzione e il progresso. La molletta esiste da 150 anni, nasceva per una necessità, cosa davvero nella società del consumo nasce ancora come necessità? Nel finale provo a tenere ferme le mie esigenze, che non devono essere per forza le necessità di tutti, ognuno ha le sue mollette, i suoi oggetti da appendere, le sue certezze, i suoi dolori, le sue priorità. Ma la voglia è quella di dire, facciamo pulizia di ogni struttura e di ogni oggetto superfluo e torniamo a trovare il modo per fermare tutto ciò che davvero è indispensabile nella nostra esistenza, fermiamo tutto ciò che fugge.
Ma infine tu sei un comico o un attore impegnato? E quali I tuoi progetti per il futuro come artista, se te lo lasceranno fare, visto che per le passioni, le emozioni e l'arte non c'è poi tanto spazio e spesso non ci sono gli interlocutori giusti ad ascoltarci. Tu che ne pensi?
Sulla prima domanda ho già risposto, sul resto dico che la situazione è quella che è, la conosciamo tutti. Non amo piangermi addosso, mi rimbocco le maniche e continuo a resistere. Chi fa cultura ora non riesce a togliere mai quella R davanti alla parola esistenza. Noi non esistiamo, resistiamo, ma se sai che devi farlo, è inutile piangere e lamentarsi. Agisci fino a che ne hai le forze, la voglia, le idee. L'importante è non fare finta di resistere e poi scendere continuamente a patti con il mercato, con le logiche commerciali dell'arte. Personalmente provo sempre a preservare la mia libertà di espressione, non vado in scena per gloria personale, ma per esigenza comunicativa, quando non potrò più fare questo o mi accorgerò che non interessa a nessuno quello che ho da dire, capirò che sarà il caso di smettere. Ma fino a quel momento proverò a rompere quello schema che illustri nella domanda per cui lo spazio e gli interlocutori non esistono. Se davvero la situazione è questa (e di questo si potrebbe parlare ore) sta a noi sporcarsi le mani e far tornare interesse nelle arti e nella cultura. Lamentarsi significa vedere il problema e mettersi sul piedistallo per descrivere a tutti che c'è un problema, resistere significa combattere con quel problema fino a che si hanno le forze. E in questo ritorna Namolletta, la verità non esiste, esistono sempre i percorsi per raggiungere quelle verità.
Un artista, Emiliano Valente, con un’universalità nell’anima porofonda e intensa. Nei suoi monologhi a volte voli pindarici, a volte la vita di tutti i giorni, a volte la storia passata e quella attuale,a volte la politica, a volte i centri sociali, a volte la rabbia contro i “figli di papà’’ e la meritocrazia. La poliedricità è la linfa delle sue performances. Un artista senza schemi e senza etichette. Un “grande”.
Biografia dell’artista
2001: è attore della Compagnia Teatrale "Teatro Internato" diretta da Stefano Té.
2004: inizia il suo percorso solista. Scrive e interpreta "La Banda del Gobbo". Mito e resistenza popolare nei nove mesi di occupazione nazista.
2007: scrive e interpreta "Tempo". Monologo in 4/4.
2010: scrive e interpreta "Quel che resta"
2011: scrive e interpreta Mattone dopo mattone. Un on the road cacio e pepe.
2014 interpreta Belle bandiere di Lorenza Misuraca
Dal 2008 è direttore artistico della Rassegna "Fuori dal Comune"
Dal 2009 è direttore artistico del Pollino In Festa Buonvicino SKidros.
Dal 2010 collabora alla realizzazione della Rassegna "Niente di Presentabile" al Fanfulla a Roma.
Dal 2007 è insegnante di Teatro presso le scuole elementari Giulio Cesare a Roma, e Nuova Florida ad Ardea.
Nel 2014 è insegnante presso La Scuola Cristo Re.
“Il gobbo del Quarticciolo”
Nasce all'interno di un progetto per le scuole medie durante il mese della memoria nel 2005. Il testo è nato dalla fusione dello studio bibliografico, con le esperienze dirette raccolte in numerose interviste effettuate nei quartieri di Centocelle, Alessandrino e Quarticciolo.
Una storia narrata in prima persona. Il linguaggio scelto è la lingua di borgata; chi le racconta, è un ragazzetto, uno strillone soprannominato Riccetto, un ragazzo ingenuo a cui tutto sembra un po' accadere per caso. Riccetto viene arruolato nella banda del gobbo e racconta quello che lui, dodicenne, ha vissuto in quei mesi di terrore e di dominazione, fino all’arrivo degli Americani. Tra giochi da bambino e assalti da adulto, la vita del Riccetto è semplicemente la vita di un ragazzo di borgata durante una guerra.
Belle bandiere (di Lorenzo Misuraca)
Di ritorno da una manifestazione, un militante di sinistra viene assalito dai dubbi. Che vuol dire essere di sinistra nell'Italia dell'austerity, della crisi economica più dura degli ultimi decenni? A cosa serve manifestare, scendere in piazza, ai tempi di Facebook e dei partiti in dismissione? E soprattutto, superati i trent'anni, non sarebbe meglio provare a salvarsi da soli? Tra ironia e smarrimento, leggerezza e malinconia, il protagonista di Belle bandiere cercherà di darsi una risposta.