Le origini della mafia
Un grande storico meridionalista, Pasquale Villari, ha osservato che la mafia sorge per “generazione spontanea”, ovvero come conseguenza di un tipo di amministrazione – quella spagnola affermatasi a partire dalla seconda metà del XVI secolo – che ha favorito in Sicilia lo sviluppo di un sistema di potere parallelo a quello statale, illegale, delinquenziale, attraverso il quale lo Stato stesso si assicura il controllo e lo sfruttamento del territorio. Tale necessità di un surplus di violenza per mantenere il potere è la conseguenza della limitata capacità di egemonia dello Stato.
Il significato etimologico del termine “mafia” è ancora oggi oggetto di dibattito; l’ipotesi maggiormente accreditata è che nel siciliano antico si definiva “mafioso” il “bravo”, ovvero lo “sgherro”, il “ribaldo”.
Il contraddittorio rapporto fra Stato e mafia
Sono stati i baroni, i grandi proprietari terrieri, a organizzare per la prima volta i mafiosi a difesa dei propri irrazionali privilegi. Grazie alla loro influenza sullo Stato, questi settori delle classi dominanti assicurano l’impunità alle violenze perpetuate dai mafiosi allo scopo di dominare le masse rurali e reprimere alle origini ogni forma di insubordinazione dei subalterni. Il potere politico dello Stato, essendo fondato sul potere economico privato della società civile, non può che tollerare tale dualismo di potere.
D’altra parte, dovendo rinunciare almeno in parte alla propria decisiva prerogativa di avere il monopolio della violenza legalizzata, non sono mancati sino ai giorni nostri esponenti o settori dello Stato che hanno cercato di contrastare, anche se generalmente invano, il (contro)potere mafioso. Il contraddittorio rapporto tra mafia e potere politico ha segnato momenti cruciali della storia d’Italia, sin dalle sue origini con la spedizione dei Mille, quando i mafiosi hanno contribuito alla repressione del movimento contadino per l’occupazione delle terre, facendo del risorgimento una rivoluzione mancata.
La mafia seppe sfruttare ai propri fini la ribellione dei subalterni meridionali, in particolare siciliani, dinanzi al tradimento delle speranze nella emancipazione sociale suscitate dalle Camicie rosse. La rivolta spontanea, contro quella che appariva sempre più come un’annessione al Regno di Savoia, priva di sbocchi politici e di direzione consapevole sfociò nel brigantaggio. Dinanzi alla violentissima repressione di quest’ultimo, l’abisso che separava la classe dirigente benestante e nordica nei riguardi dei subalterni meridionali non poteva che aumentare. Così, quando diversi superstiti del brigantaggio andarono a ingrossare le file della mafia, l’attitudine dei subalterni dinanzi a questo dualismo di potere non poteva che continuare a ispirarsi al tradizionale “Franza o Spagna basta che se magna”.
La netta sconfitta del movimento contadino e il progressivo affermarsi della gestione capitalistica dell’agricoltura non poteva che produrre il boom dell’emigrazione, che favorì l’estensione delle attività della mafia in primo luogo negli Stati Uniti. Sul piano interno la classe dirigente liberale – a partire dal suo massimo esponente Giolitti, non a caso definito dal principale intellettuale democratico del tempo “il ministro della malavita” – sfruttò i mazzieri organizzati della mafia per assicurare il controllo della classe dirigente politica da parte della classe dominante economica, anche dopo l’introduzione del suffragio universale. In tal modo i politici rappresentanti degli interessi delle classi dominanti avranno sempre più bisogno della mafia per poter essere eletti e, proprio per questo, anche una volta giunti al governo delle istituzioni non potranno che rimanere debitori e dipendenti dalla mafia per la loro rielezione.
La mafia nel ventennio
Dopo una collaborazione-competitiva negli anni dell’affermazione del fascismo fra squadristi e mafiosi, entrambi attivi – al servizio degli agrari – nella repressione delle classi subalterne, dopo la sconfitta del processo rivoluzionario nel Biennio Rosso – con l’affermarsi del Regime si acuiscono le contraddizioni fra Stato e mafia.
Il modello totalitario di Stato – elaborato da Mussolini e Gentile e poi esportato su scala internazionale – non poteva tollerare il dualismo di potere con la mafia. Da qui la violentissima repressione della manovalanza della mafia portata avanti in particolare dal prefetto Mori. D’altra parte i metodi brutali della repressione, condotti con la stessa attitudine colonialista della repressione del brigantaggio – che colpirono indiscriminatamente i subalterni dei villaggi contadini perseguitati in quanto non denunciavano i mafiosi – non poteva che far crescere la capacità di egemonia esercitata dalla mafia anche fra le classi subalterne.
Così lo stato d’assedio, patito soprattutto nelle campagne, non diede risultati significativi e duraturi nello sradicamento della criminalità organizzata. Anche perché, come abbiamo visto, la mafia svolgeva una funzione decisiva nella difesa di rapporti di produzione particolarmente irrazionali e, dunque, impopolari. Quindi, visto che la piccola borghesia fascista doveva il proprio potere al sostegno o quanto meno alla tolleranza delle classi dominanti, la violenza fascista colpì la manovalanza della mafia, ne represse le manifestazioni più evidenti, ma non ne mise in discussione l’essenza, ovvero i vertici e il blocco di potere politico-economico che ne costituisce il fondamento.
Il rifiorire della mafia durante l’occupazione americana
Gli apparati di sicurezza degli Stati Uniti aprirono una trattativa con il principale boss mafioso italo-americano Lucky Luciano, allora incarcerato, per ottenere i contatti con i suoi referenti siciliani, che avrebbero favorito non solo la liberazione dell’isola, ma la sua occupazione, soffocando sul nascere ogni tentativo delle classi subalterne di sfruttare la fine della dominazione fascista per mettere in discussione i rapporti di proprietà. La cooperazione fra i “liberatori” e i mafiosi fu tale che il luogotenente di Lucky Luciano fu scelto come aiutante e interprete del comandante militare degli affari civili dell’AMGOT. In tal modo via via che la liberazione si confondeva con l’occupazione, uomini notoriamente legati alla mafia riconquistavano il controllo delle istituzioni, in particolare in Sicilia, per assicurare la pace sociale in difesa di rapporti di proprietà tanto irrazionali quanto impopolari.
Separatismo e banditismo
I grandi latifondisti temevano le possibili riforme dello Stato italiano divenuto, dopo la sconfitta del nazi-fascismo, “democratico”. In particolare erano terrorizzati dalla presenza al governo degli odiati comunisti e, perciò, miravano, con la complicità delle truppe di occupazione anglo-americane, a separare la Sicilia dalla Repubblica italiana. A tale scopo fu liberato Lucky Luciano ed “esiliato” in Italia, dove divenne uno dei principali punti di riferimento del sedicente Movimento per l’indipendenza della Sicilia (MIS), che si dotò, con il sostegno diretto o indiretto dei “moderati”, degli anglo-americani, degli agrari e della mafia di un vero e proprio esercito.
Le armi del resto abbondavano, dal momento che molte di quelle lasciate dagli eserciti erano cadute nelle mani di bande di fuorilegge, i banditi, dediti al contrabbando, al furto di bestiame e all’estorsione. Il più famoso di essi era Salvatore Giuliano. I separatisti puntavano a utilizzare per i loro scopi la forza militare dei banditi. I mafiosi, da parte loro, fecero da tramite tra i banditi, i separatisti, gli agrari e le truppe di occupazione, uniti dal comune scopo di soffocare le risorte aspirazioni dei braccianti agricoli alla riforma agraria.
Separatisti, latifondisti e banditi contro l’occupazione delle terre
I comunisti, infatti, allora ancora parte della coalizione antifascista al governo del paese, avevano avviato tramite il ministro Gullo una riforma agraria che doveva assegnare i campi incolti o mal coltivati ai senza terra. Al contempo cercavano di dare una direzione consapevole allo spontaneo movimento di occupazione delle terre da parte dei braccianti. Privilegi secolari rischiavano di scomparire e, così, si dimostrò ancora una volta decisiva la violenza della mafia a difesa dell’ordine costituito.
I mafiosi si ersero a “guardiani” e paladini delle grandi proprietà dal momento che, se le terre fossero passate sotto il controllo dei braccianti, avrebbero perso la loro stessa ragione di essere. Così separatisti, latifondisti, mafiosi, fascisti e banditi si lanciarono in una lotta per la vita e per la morte contro i “senza terra” che si battevano per la riforma agraria, conquistandosi così le simpatie degli occupanti, delle forze politiche moderate e dello stesso Vaticano. In questa fase decisiva della lotta di classe – in cui la lotta armata portata avanti dai partigiani, spesso egemonizzati dai comunisti, contro il fascismo, aveva riacceso le speranze in una rivoluzione sociale – decine di dirigenti contadini furono colpiti dalla violenza di mafiosi e fascisti.
La strage di Portella della Ginestra
Lo scontro decisivo avvenne il 1 maggio del 1947 a Portella della Ginestra, quando gli occupanti delle terre si riunirono nel giorno della festa dei lavoratori per ascoltare un comizio del principale dirigente comunista del movimento dei senza terra. Una pioggia di piombo disperse l’assembramento, lasciando sul terreno diversi morti e molti feriti. Nello stesso rapporto dei carabinieri sulla strage la colpa ricadeva su “elementi reazionari in combutta con i mafiosi”. Ben presto, però, iniziarono i depistaggi, indispensabili a coprire i mandanti della strage, collocati a livelli così alti da essere considerati “intoccabili”, a meno di non mettere in discussione lo stesso sistema economico e sociale. Gli stessi esecutori materiali – individuati dagli storici che hanno potuto studiare i documenti desecretati diversi decenni dopo dagli Stati Uniti – erano mafiosi e fascisti, tuttavia la colpa fu fatta ricadere sul solo bandito Giuliano, ex colonnello dell’E.V.I.S, ritenuto responsabile anche dei successivi attentati terroristici che colpirono le sedi del Partito comunista in Sicilia.
A coprire la strage e a insabbiare le indagini avrebbero cooperato esponenti della DC, delle truppe di occupazione e del Vaticano. Al punto che la strage di Portella della Ginestra è oggi considerata il primo dei diversi atti terroristici che hanno puntellato la storia della Repubblica italiana, in seguito ricompresi nella categoria di “strategia della tensione”. Il capro espiatorio, il bandito Giuliano, una volta portato a termine il lavoro sporco per cui era stato assoldato, fu messo per sempre a tacere, tre anni dopo la strage, da esponenti della mafia.
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