Considerazioni Inattuali 85. Donald Trump presidente Usa. Marine Le Pen President de La Republique. Catastrofismo apocalittico su prospettive realistiche.
di Lucio Manisco
Le elezioni più folli di tutta l’America? No, le più rischiose per il mondo intero chiunque le vinca il primo martedì di novembre. Elezioni da incubo per il contagio del modello americano che ha già dischiuso prospettive catastrofiche per un’Europa in pezzi. Una pavor nocturna per i pochi insonni che hanno seguito con il pessimismo della ragione e nella negazione sistemica dell’ottimismo dell’azione gli eventi dell’ultimo decennio. Il nightmare che potrà diventare realtà di qui a nove mesi negli USA: Donald Trump – D.T. perdelirium tremens – nuovo inquilino della Casa Bianca (lo prevede con olimpico distacco Arianna Huffington intervistata da Lucia Annunziata). Un cauchemar per la Francia alla scadenza del mandato di Hollande: Marine Le Pen President de la Republique. L’incubo nostrano: Matteo Salvini presidente del Consiglio dopo un attacco terroristico ed un patto d’acciaio con Silvio Berlusconi in marcia pluriennale verso la presidenza della repubblica. E per aggiungere nero al nero la bestia trionfante del razzismo e antimigratorio che assesta il colpo di grazia al sogno europeo di Altiero Spinelli, l’esplosione di una più mastodontica bolla speculativa e del sistema bancario con il collasso di un’economia reale già schiacciata dall’offerta e non dalla domanda, la sconfitta più che meritata dei conati socialdemocratici nel vecchio continente ed infine l’ultima alternativa per le canaglie, chiamandole uno per cento o ipercapitalismo fuori controllo: guerre, altre guerre, nuove guerre in un pianeta sull’orlo del precipizio climatico.
L’Apocalisse di Giovanni e di altre baggianate bibliche? Un catastrofismo perverso e rinunciatario che esaspera all’ennesima potenza crisi reali ma superabili nel medio termine? Delusione senza fondo di un ottuagenario che ha creduto tutta la vita al socialismo e oggi vede solo la barbarie?
Ad eccezione del primo interrogativo, gli altri e le critiche che ne conseguono non ci hanno lasciato indifferenti ma rivestirebbero maggiore e probante validità se non fosse per i trentotto anni trascorsi da giornalista negli Stati Uniti d’America, due nel Parlamento italiano e dieci in quello europeo.
Forti di queste esperienze dedichiamo le poche note che seguono all’attualità elettorale della repubblica stellata, al suo popolo che abbiamo sempre amato – quello dalla Bible Belt in su, alle sue incolpevoli amnesie e al suo desiderio sempre frustrato di cambiar pagina.
Nel 2008 non condividemmo l’entusiasmo dei politologi e degli americanisti, soprattutto quelli nostrani, per l’elezione di Barack Obama, ne riconoscemmo l’intelligenza, la straordinaria eloquenza e la non meno straordinaria capacità gestuale e comunicativa, ma ne avvertimmo i limiti caratteriali, la sua riluttanza a sfidare l’establishment, la sua tendenza a cercare a qualsiasi costo il compromesso con un’opposizione repubblicana sempre più retrograda e reazionaria. Non lo scrivemmo, ma pensammo, esagerando, di trovarci di fronte ad una nuova versione dello Zio Tom. Sospendemmo con rammarico la nostra saltuaria collaborazione al Manifesto, la cui direzione aveva garbatamente dissentito dai nostri giudizi critici. Continuammo così con queste Considerazioni Inattuali e con un’interpretazione controcorrente delle ragioni che avevano indotto una prima e una seconda volta l’elettorato a votare per un afro americano. Dopo dodici anni di “bushismo” – padre e figlio – di “conservatorismo compassionevole”, di guerre sbagliate, di povertà e disoccupazione, quell’elettorato voleva cambiare e per cambiare avrebbe votato per Gengis Khan. Gli otto anni di Obama non hanno registrato il cambiamento desiderato. Come abbiamo letto sul cartello di una manifestazione di protesta a Washington Pennsylvania Avenue è diventata la “Avenue dei sogni infranti”.
Il presidente ha posto fine a due guerre, ha optato per i bombardamenti con i droni, ma contro i suoi intenti dichiarati ha aperto le porte ad altri conflitti con i “boots on the ground” contro l’ISIS in Medio Oriente e in Africa. Ha dato il via ad una parziale riforma sanitaria, per superare la recessione ha aumentato di migliaia di miliardi di dollari il debito pubblico a beneficio del sistema bancario, ha perduto la battaglia contro la diffusione delle armi da fuoco che miete 30.000 vittime l’anno, non ha aumentato i salari minimi dei lavoratori, ribattezzati ceto medio, con salari inferiori a quelli di una colf ad ore in Italia, ha ridotto impercettibilmente la disoccupazione che secondo dati statistici falsati sarebbe scesa a poco più del 5% mentre in realtà rimane superiore al 16%. Fermiamoci qui. L’esasperazione degli elettori è arrivata alle stelle e gli eloquenti ravvedimenti di Obama degli ultimi mesi non hanno convinto nessuno.
Cosa determina oggi l’orientamento del cosiddetto uomo della strada? La paura. Paura per il suo futuro, paura di perdere se ce l’ha il posto di lavoro, di diventare sempre più precario, di non avere denaro sufficiente a mantenere una moglie e un figlio, di guadagnare sempre meno e lavorare di più, di non essere uscito da una recessione da lui pagata a caro prezzo e ad esclusivo beneficio dell’uno per centro di multimiliardari e dell’alta finanza, paura degli immigrati che si accontentano di salari più bassi del suo, se sono afroamericani paura della polizia che li ammazza. Nel subconscio e non solo nel subconscio collettivo, motivata e manifesta la paura atavica della povertà che gli antenati hanno trasmesso nel DNA di una nazione di migranti.
Il demagogo repubblicano Donald Trump cavalca questa paura, vuole “fare l’America grande”. Come? Deportando 11 milioni e mezzo di messicani “ladri, assassini e stupratori”, vomitando insulti da carrettiere sulle donne che “alzano la testa”, su avversari minus habens come Jeb Bush, Rubio o Cruz, impegnandosi se eletto ad impedire l’ingresso negli Stati Uniti a bianchi, neri o gialli di religione musulmana, ad abrogare tutte le leggi di Obama.
Vincerà tra quattro giorni le primarie dello Iowa e poi quelle del Massachusetts ed altre ancora. Come ha detto Arianna Huffington a Lucia Annunziata potrà battere a novembre la democratica Hillary Clinton.
Già, Hillary Clinton, una scelta infelice e deprimente per il partito di Obama e non per i motivi addotti dalla direttrice dello Huffington Post. A parte l’ambizione senza limiti, non ha, come ha scritto il politologo progressista Ted Rall, un messaggio convincente, una visione del futuro, un programma chiaro per l’elettorato, al di là dei vaneggiamenti liberal del secolo scorso. Come ha ammesso più volte il suo maestro e consigliere assiduo è l’ultra novantenne Henry Kissinger; aggiunge di suo un interventismo militare ad oltranza e l’esaltazione di Israele e di Netanyahu, come ha dimostrato da segretario di stato. La sua campagna elettorale sapientemente pilotata dal marito Bill ha raccolto milioni di dollari di provenienza più o meno lecita. Spiace menzionare per la sua volgarità, ma quanto mai calzante la descrizione datane da Jane Fonda: “Un patriarca con vagina”.
La signora Clinton dovrà fare i conti nelle primarie con il “socialista di tipo svedese” Bernie Sanders dato favorito nello Iowa e nel Massachusetts: ha un programma di giustizia sociale e di lotta a Wall Street, moderato in politica estera e militare non è un pacifista, né un antimilitarista. Verrà tacciato di bolscevismo, comunismo e assoggettamento a Putin. Come ebbe a dirci il dirigente e primo commentatore politico della rete televisiva NBC John Chancellor ai tempi delle primarie Dukakis-Jackson, se un uomo di sinistra come il reverendo Jesse Jackson dovesse vincere le elezioni presidenziali avremmo un colpo di stato negli Stati Uniti. Uno stesso destino attenderebbe Bernie Sanders?
Il popolo americano, di una repubblica cioè dagli istituti democratici dominata oggi da un sistema capitalistico ipertrofico non è immaturo, ma quando è in preda al panico soffre di amnesia cronica, e se si trova davanti a scelte inappetibili e pericolose può optare per la peggiore come fecero il popolo italiano negli anni venti e quello tedesco negli anni trenta.
Ecco perché siamo catastrofisti e apocalittici.