Fino agli anni Sessanta del secolo scorso in ambito accademico e politico godevano un certo prestigio la teoria e le politiche keynesiane. Esse erano utili per attutire alcune contraddizioni delle economie capitalistiche sviluppate. Ma queste politiche, pur escludendo l’ipotesi di un superamento dell’attuale modo di produzione, rappresentavano lo stesso un pericolo per gli interessi dei capitalisti. Come abbiamo già mostrato, esse tendevano a diminuire i profitti e, puntando alla piena occupazione, potevano consentire alla classe lavoratrice di avere più potere contrattuale. In effetti, nel secondo dopoguerra e fino alla prima metà degli anni Settanta del secolo scorso, si registrò nel mondo “occidentale” un significativo progresso nel tenore di vita dei lavoratori, nelle tutele dei loro diritti, e un sensibile calo del saggio del profitto, dovuto principalmente all’accumulazione del capitale, ma anche alla difficoltà a controllare le dinamiche salariali, i processi inflattivi e il rigonfiamento della spesa pubblica. Era necessario porre rimedio e invertire queste tendenze, restaurando il pieno dominio del capitale, e favorire i profitti.
Antesignani di queste politiche erano stati Ludwig von Mises (1881-1973) e il suo allievo Friedrich von Hayek (1899-1992), nemico giurato quest’ultimo del socialismo ma anche tenace critico delle teorie keynesiane. Egli sosteneva che l’allocazione ottimale delle risorse è garantita solo dal libero mercato e imputò la crisi economica del ’29, non all’insufficienza dell’intervento pubblico nell’economia, ma all’eccesso di investimenti pubblici che avevano depauperato le risorse finanziarie dello stato. Anche in tema di politica monetaria fu sostenitore del rigore e si oppose alla politica inflazionistica della Banca centrale degli Stati Uniti.
Si dichiarò esplicitamente sua seguace la premier inglese conservatrice Margaret Thatcher la quale nominò segretario per l’industria il presidente del centro studi a lui intestato. Anche Ronald Reagan durante la sua presidenza degli Stati Uniti, utilizzò molti consiglieri economici di scuola hayekiana.
Infatti, con la crisi degli anni Sessanta-Settanta, la “teoria economica” ha dovuto mettersi all’opera e contrastare Keynes sul suo stesso terreno, la macroeconomia. L’esponente più importante di tale rivolgimento è stato il premio Nobel Milton Friedman (1912-2006), le cui politiche liberiste sono state applicate dagli anni Settanta in poi in molti paesi del mondo, iniziando sperimentalmente nel Cile di Pinochet (!), per poi estendersi all’Inghilterra, agli Usa, e via via a gran parte del mondo. Le stesse regole europee di Maastricht sono ispirate completamente a queste idee.
Il liberismo di Friedman, padre della cosiddetta Scuola di Chicago, non si accontenta dello smithiano laissez faire, ma prevede una regolazione dell’economia, attraverso le politiche monetarie (da qui anche la denominazione di questa tendenza come monetarismo), le privatizzazioni, col pretesto dell’apertura del mercato alla concorrenza, i tagli alla spesa pubblica col pretesto di contenere il debito, i tagli ai salari e la riduzione delle imposte sui profitti per competere nei mercati esteri e per attrarre capitali dall’estero. In sostanza si indica ai governi di lavorare per azzerare le conquiste sociali e di civiltà, di gettarsi in una concorrenza al ribasso dei diritti sociali e delle tutele ambientali per divenire i preferiti del capitale transnazionale. Solo che il beneficio di una nazione è a scapito del danno di qualche altra nazione in un gioco a somma zero in cui l’unico vincitore è sempre il capitale.
È significativo il percorso teorico di Friedman. Nel 1948 non professava il liberismo ma proponeva politiche economiche e monetarie non particolarmente discordanti con quelle keynesiane. Altri tempi: c’era da ricostruire dalle macerie della seconda guerra mondiale. Trascorsi i cosiddetti 30 anni gloriosi del capitalismo le esigenze cambiarono e la clamorosa svolta teorica friedmaniana costituisce un’ulteriore conferma che la scienza, a maggior ragione la malascienza [1] economica non è neutrale, è condizionata dagli interessi del capitale e svolge un ruolo apologetico.
Il neoliberismo è quindi un ritorno in chiave conservatrice alle idee di Adam Smith sulla “mano invisibile” del mercato e sulla necessità che lo Stato si astenga dall’intervenire pesantemente nell’economia, concetti questi ripresi in senso reazionario per nobilitare il neoliberismo.
Viene così auspicato che le decisioni politiche tendano a ripristinare un mercato completamente libero in cui lo stato deve intervenire esclusivamente per tutelare gli interessi dei capitalisti e colpire quelli del lavoratori. Esso deve quindi anche dismettere le sue proprietà in società che svolgono attività economiche, essere improntato a maggiore “responsabilità” nei confronti delle imprese per tutelarne gli affari. Anche in ambito internazionale, sono stati creati noti istituti che tutelano la “concorrenza” e la globalizzazione.
Da un’altra angolatura possiamo scorgere in questa dottrine un ritorno alla filosofia politica del marginalismo in cui il cittadino viene considerato un “libero” consumatore pienamente conscio delle sue scelte, anche se aggredito dalle strategie di marketing con i connessi, pesanti risvolti culturali, e un libero imprenditore anch’egli in possesso di tutte le informazioni che gli servono per una scelta ottimale. Così il mercato è in grado di restituire il migliore risultato possibile, date determinate risorse.
Le conseguenze di queste politiche sono state il progressivo riassorbimento delle conquiste dei lavoratori e dei diritti sociali, l’immiserimento di massa e l’accentuazione abnorme delle diseguaglianze economiche, sia all’interno delle singole nazioni che tra paesi ricchi e paesi poveri.
Come ha evidenziato Emiliano Brancaccio [2] l’80% del capitale azionario globale è controllato dal 2% della popolazione. Nel caso dell’Italia, siamo giunti al punto che solo tre o quattro famiglie detengono un patrimonio pari a quello detenuto complessivamente da 18 milioni di famiglie più povere. Mentre l’economia italiana arretrava del 12 per cento, le dieci famiglie più ricche hanno incrementato il loro patrimonio di oltre 70 per cento. I 18 milioni più poveri invece si sono visti ridurre la loro ricchezza in termini reali di circa un quarto. I servizi sociali pubblici, che sono una componente essenziale del tenore di vita e del salario indiretto dei più poveri, sono stati falcidiati dai tagli, così come il salario differito rappresentato dalle pensioni, mentre l’imposizione si è fatta drasticamente meno progressiva. Le privatizzazioni a prezzi stracciati hanno aperto nuovi spazi per il capitale e i profitti. Le risorse “liberate” attraverso i tagli alla spesa pubblica e le dismissioni delle proprietà pubbliche sono state utilizzate per soccorrere il sistema bancario in affanno.
Tuttavia queste politiche hanno fatto esplodere il debito pubblico, anziché risanarlo, e non hanno determinato alcuna ripresa. Al contrario hanno aggravato la recessione e la disoccupazione in una maniera che sta preoccupando perfino i più sfegatati liberisti. Sappiamo bene, per esempio, che la pandemia ci ha colto impreparati in una situazione talmente depressa che perfino Draghi, allora ancora banchiere, ha dovuto pensare a qualche misura monetaria espansiva e a utilizzare la leva del debito pubblico. Il tutto però a ristoro di quello privato e senza scalfire il segno reazionario di queste politiche la cui unica reale funzione è stata il sostegno alla lotta di classe padronale, proprio mentre i media embedded ci volevano convincere che la lotta di classe non esistesse più.
Anche la costruzione dell’Europa dell’euro è modellata sulle teorie della scuola di Chicago e quindi risponde alle esigenze delle classi abbienti. I tetti imposti al livello dei deficit e dei debiti statali, sono funzionali a imporre politiche di “austerità” e quindi massacri sociali. I parametri da osservare riguardano gli aspetti finanziari e non è previsto alcuno standard sociale. La concorrenza deve essere tutelata e a tal fine debbono essere smantellati i monopoli pubblici, chiudendo però un occhio se a essi si sostituiscono quelli privati. I “salvataggi” delle nazioni (come per esempio la Grecia) hanno in realtà salvato le banche creditrici, soprattutto quelle tedesche, a scapito della finanza pubblica che è stata chiamata ad alimentare il fondo salva stati. Il divieto alla Banca Centrale Europea di acquistare i titoli di Stato direttamente presso chi li ha emessi, ha esposto le finanze delle nazioni alla speculazione e le ha ulteriormente obbligate a tagliare la spesa pubblica. Anche il “divorzio” fra banca centrale e governi è avvenuto in ossequio alle indicazioni di questa scuola economica. Per tutte queste ragioni più che di neoliberismo sarebbe opportuno parlare di ordoliberismo [3].
Nella prossima puntata esamineremo gli aspetti analitici della “nuova” macroeconomia a giustificazione di queste politiche.
Note:
[1] Termine coniato da Gianfranco Pala nel suo Antikeynes. La “rivoluzione” della “filosofia sociale” compiuta da Lord John Maynard Keynes, ed. la Città del Sole, Napoli/Potenza, 2022.
[2] Cfr. Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, ed. Meltemi linee, Milano, 2020. Cfr anche, dello stesso autore, Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico, Piemme edizioni, Milano, 2022.
[3] L’ordoliberismo si propone di andare oltre l’osservanza del libero mercato e del laissez faire, consapevole che da soli non possano garantire il mantenimento della concorrenza e gli auspicati rapporti fra le classi sociali. Pertanto lo stato deve provvedere a realizzare un quadro giuridico, un insieme di regole, per raggiungere questi scopi attraverso la tutela della proprietà privata, della “libera iniziativa” e della stabilizzazione della moneta, mettendo in second’ordine i diritti sociali che vengono ridotti a un minimo. Cfr. Ralf Ptak, Neoliberalism in Germany: Revisiting the Ordoliberal Foundations of the Social Market Economy, in Philip Mirowski e Dieter Plehwe (a cura di), The Road From Mont Pèlerin(*): The Making of The Neoliberal Thought Collective, Cambridge, MA., Harvard University Press, 2009. (*) La Mont Pelerin Society è un think tank internazionale, fondato nel 1947, che ha per scopo la promozione del libero mercato. Ha annoverato fra i suoi membri Luigi Einaudi, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek, Michael Polanyi, Karl Popper e Milton Friedman. Gran parte di premi Nobel dell’economia e di consiglieri di vari stati occidentali ha fatto parte di questo sodalizio.