Il plusvalore, che ha nel lavoro l’unica fonte, è limitato dal numero di lavoratori impiegati e dalla durata della giornata lavorativa, che ovviamente non può superare le ventiquattro ore; anzi dura molto meno, viste le ovvie necessità fisiologiche dei lavoratori. Se si rapporta questa grandezza, che ha dei limiti oggettivi, al lavoro incessantemente crescente già oggettivato in passato nel capitale impiegato, possiamo già intuire l’esistenza di una tendenza alla diminuzione del saggio del profitto che consiste proprio nel rapporto tra queste due grandezze (il plusvalore e il valore del capitale impiegato).
Marx evidenzia già nei Grundrisse che il capitale tende da un lato, con l’introduzione di metodi e tecnologie sempre più prestanti, a ridurre il tempo di lavoro necessario, mentre deve misurare il valore in termini di tempo di lavoro. In un passaggio profetico sul macchinismo, sottolinea come questa tendenza avrebbe ridotto il ruolo del lavoro a misera cosa rispetto alla potenza produttiva delle macchine. E tuttavia questa contraddizione fra la progressiva diminuzione del tempo di lavoro necessario in rapporto al capitale costante impiegato e il bisogno del capitale di estrarre plusvalore, di “succhiare” lavoro vivo, per valorizzarsi, avrebbe condotto al superamento della legge del valore e a una società in cui il benessere sia dato non dal tempo di lavoro, ma dal tempo libero di cui ogni uomo possa disporre grazie ai servizi delle macchine. Questo sbocco è tuttavia impossibile all’interno del modo di produzione capitalistico e infatti, dopo la parentesi di alcune conquiste della classe lavoratrice, la tendenza è quella di un inasprimento di orari e ritmi di lavoro, proprio per la fame crescente di plusvalore.
“Il valore oggettivato nelle macchine si presenta come una premessa rispetto alla quale la forza valorizzante della singola forza-lavoro scompare come qualcosa di infinitamente piccolo. [...]
La premessa [...] della produzione basata sul valore] è e rimane la quantità di tempo di lavoro immediato, la quantità di lavoro impiegato, come fattore decisivo della produzione della ricchezza. Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità del lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro [...]. Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a una nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere la condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo. Subentra il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società a un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro. Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo [...]. Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato. [...] Il capitale [...] moltiplica il tempo di lavoro supplementare della massa con tutti i mezzi della tecnica e della scienza, perché la sua ricchezza è fatta direttamente di appropriazione di tempo di lavoro supplementare [...] ma la sua tendenza è sempre, per un verso, quella di creare tempo disponibile, per l’altro di convertirlo in pluslavoro. Se la prima cosa gli riesce, ecco intervenire una sovrapproduzione, e allora il lavoro necessario viene interrotto perché il capitale non può valorizzare alcun plusprodotto. Quanto più si sviluppa questa contraddizione, tanto più viene in luce che la crescita delle forze produttive non può più essere vincolata all’appropriazione di pluslavoro altrui, ma che piuttosto la massa operaia stessa deve appropriarsi del suo pluslavoro” [1].
Nei manoscritti di abbozzo del terzo libro del Capitale Marx illustra, da un’altra angolatura e più dettagliatamente, questa contraddizione, formulando la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto.
La convenienza a investire si verifica quando l’importo del plusvalore consiste in una sufficiente aliquota del capitale anticipato, cioè in un ragionevole saggio del profitto, in base alle condizioni sociali e tecniche vigenti in quel determinato momento. Il saggio del profitto è definito come il rapporto tra plusvalore e capitale anticipato per retribuire la forza-lavoro (capitale variabile) e per acquistare mezzi di produzione quali macchinari, materie prime e semilavorati, energia, brevetti ecc. (capitale costante), conformemente alla formula già vista r=pv/(c+v).
Facciamo un esempio tratto direttamente dai manoscritti di Marx [2]. Un capitale variabile di 100 mette in movimento una quantità di lavoro vivo determinato da questa sua grandezza e dal salario unitario. Per esempio, se il salario giornaliero è 10 e l’orario giornaliero di 10 ore lavorative, mette in moto 100 ore lavorative. Se il saggio del plusvalore è per esempio 100%, anche la massa del plusvalore è 100. Questo plusvalore però si traduce in differenti saggi del profitto a seconda delle diverse entità del capitale costante impiegato per mettere in moto i 100 lavoratori. Se c=50, il capitale complessivo è 150 e il saggio del profitto 100/150=66,67%. Se il capitale costante sale a 100, il saggio del profitto sarà 100/200=50%. Se c sale a 200 sarà 100/300=33.33%; se sale a 400 sarà 100/500=20% e così via. Restando immutato il saggio di sfruttamento del lavoro, si avrebbe quindi un saggio del profitto decrescente al crescere del capitale costante. Marx sostiene che questa è anche la “tendenza reale della produzione capitalistica” nel suo insieme. Supponendo infatti che questo graduale mutamento della composizione organica avvenga nei più importanti settori produttivi, “fermo restando il saggio del plusvalore o il grado di sfruttamento del lavoro”, il risultato sarà una graduale caduta del saggio del profitto.
Per vedere come ciò si verifichi, supponiamo per esempio che per produrre un personal computer la tecnologia prevalente preveda che si impieghi un capitale costante di 200 e un capitale variabile di 100 (corrispondente a 10 ore lavorative), ottenendo un plusvalore di 100 (saggio del plusvalore del 100%). Il computer vale quindi 200+100+100=400. Se il prodotto è venduto al suo valore si realizza un saggio del profitto pari a 100/(200+100)=33,3%. Se un capitalista innovatore introduce una nuova tecnica in base alla quale è possibile produrre lo stesso computer, o addirittura uno più prestante con un capitale costante di 230 e un capitale variabile di 40 (4 ore lavorative), a parità di grado di sfruttamento del lavoro, otterrà un prodotto che vale 310 e non 400 euro. Però può vendere il computer al prezzo di mercato di 400 o anche a qualcosa di meno, realizzando un profitto di 130 (400-230-40) e un saggio del profitto di 130/(230+40)=48,1% o poco meno, quindi un extraprofitto.
Tuttavia, prima o poi gli altri capitalisti reagiranno introducendo anch’essi delle innovazioni per annullare il vantaggio competitivo iniziale del concorrente, o addirittura mandarlo “fuori mercato” attraverso tecnologie o trucchi ancora più efficaci. Quando però la nuova tecnica sarà adottata anche dagli altri capitalisti, il valore di mercato del computer scenderà a 310 e il saggio del profitto medio scenderà a 40/(230+40)=14,8% o a un valore ancora più basso se si affermerà una tecnologia che risparmia ancor più lavoro. Nella incessante corsa della concorrenza, una volta incamerati i vantaggi temporanei da parte di chi è più veloce nell’introdurre l’innovazione, abbiamo come risultato che diminuisce il lavoro complessivo speso per la produzione delle merci, quindi il loro valore, e che uno stesso numero di lavoratori mette in movimento una massa crescente di mezzi di produzione. Detto altrimenti, con la generalizzazione delle innovazioni, in ogni merce sarà inglobata una minore quantità di lavoro, mentre aumenterà il valore complessivo del capitale in rapporto al lavoro vivo speso e il valore del capitale costante in proporzione a quello del capitale variabile.
È proprio questo l’andamento che Marx prevede che si verifichi nella concorrenza fra capitalisti alla ricerca del massimo profitto, i quali cercano continuamente di vincere questa lotta abbattendo il valore individuale dei loro prodotti al di sotto del valore di mercato, tentano cioè di produrli con meno dispendio di lavoro di modo che uno stesso numero di lavoratori metterà in moto nella stessa unità di tempo una quantità maggiore di mezzi di lavoro, macchinari, materie prime ecc. Secondo Marx così si accresce il valore del capitale costante “benché esso [il valore di c] non rappresenti che di lontano l’incremento della massa reale dei valori d’uso che costituiscono materialmente il capitale costante” [3]. Tali valori d’uso, infatti, sempre per effetto dell’aumento della produttività, possono ora essere prodotti con minore dispendio di lavoro per unità di prodotto e quindi hanno un valore unitario inferiore a quello antecedente l’introduzione dell’innovazione tecnologica. I mutamenti di produttività possono inoltre avvenire anche nel settore che produce i beni di sussistenza dei lavoratori o, nel caso in cui ciò non avvenga, per effetto del minor costo del capitale costante impiegato in tali settori: si ha comunque una riduzione del valore della forza-lavoro che presumibilmente si tradurrà in diminuzione del valore del capitale variabile e in un aumento del plusvalore e del suo saggio. Marx è consapevole di questa eventualità e tuttavia è opinione assai diffusa che non le dia tutto il rilevo che merita nell’enunciare la legge e la confini tra le cause antagonistiche della legge stessa, di cui ci occuperemo fra poco.
“La legge del saggio decrescente del profitto, che si esprime con lo stesso saggio del plusvalore o anche con un saggio crescente, dice in altre parole: data una qualsiasi determinata quantità di capitale medio sociale, [...] vi è un aumento continuo della parte di esso rappresentata dai mezzi di lavoro, e una continua diminuzione della parte rappresentata dal lavoro vivo. Dato che la massa complessiva di lavoro vivo aggiunto ai mezzi di produzione diminuisce in proporzione al valore di essi, anche il lavoro non pagato e la parte di valore che lo rappresenta diminuiscono in rapporto al valore del capitale complessivo anticipato. Ovvero: una parte sempre più piccola del capitale complessivo impiegato si converte in lavoro vivo, e quindi il capitale complessivo assorbe, in proporzione alla sua entità, un’aliquota sempre più piccola di pluslavoro, benché il rapporto tra la parte non pagata e quella pagata del lavoro impiegato possa aumentare al medesimo tempo. [...] La modificazione della composizione del capitale è] solo una diversa espressione dell’aumentata produttività del lavoro” [4].
Il testo sopra riportato fa giustizia di certe critiche secondo cui Marx, nel formulare la legge, considera solo gli aspetti che agiscono in direzione della riduzione del saggio del profitto, mentre gli aspetti aventi effetti opposti sono relegati nel capitolo successivo sulle cause antagonistiche: è evidente che già in sede di formulazione della legge Marx ha tenuto di conto del movimento di tutte le variabili interessate.
Inoltre, Marx non considera ineluttabile la caduta del saggio del profitto. Si tratta di una tendenza che viene contrastata da una serie di fattori di controtendenza, le “cause antagonistiche”, che spiegano perché, pur con l’imponente sviluppo delle forze produttive, con la crescita del capitale fisso ecc., la diminuzione del saggio del profitto avvenga in maniera oscillante e si presentino periodi in cui esso aumenta.
Le “cause antagonistiche” che determinano questo movimento altalenante sono:
- l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro;
- la riduzione del salario al di sotto del valore della forza lavoro;
- la diminuzione del prezzo degli elementi del capitale costante;
- la sovrappopolazione relativa che agisce sia sull’abbassamento dei salari che come freno alla sostituzione del lavoro con macchine;
- il commercio estero che fa diminuire il prezzo degli elementi del capitale costante e dei mezzi di sussistenza, fa aumentare la scala della produzione, consente margini di profitto migliori e vantaggi competitivi perché apre mercati in cui le merci sono prodotte in condizioni meno favorevoli e quindi a prezzi più elevati;
- l’accrescimento del capitale azionario.
Ciò nonostante, è convinzione di Marx che il movimento complessivo di tendenze e controtendenze determini effettivamente nel lungo periodo la caduta del saggio del profitto.
La tendenza alla diminuzione del saggio del profitto è, per altro, una caratteristica del modo di produzione capitalistico, rilevata in moltissimi studi empirici (vedi grafico 1).
[QUI INSERIRE GRAFICO 1]
Già gli economisti classici, di fronte all’evidenza, avevano cercato di individuarne le cause. Abbiamo già visto, per esempio, che Ricardo spiegò la questione con la necessità di mettere a coltura terre sempre nuove e sempre meno fertili. Marx la spiega col progressivo aumento della composizione del capitale (c/v) e del valore complessivo del capitale per addetto o, che è la stessa cosa, con la tendenza a sostituire lavoratori con macchine, con la conseguenza che il numeratore, il plusvalore, viene a rapportarsi con un denominatore, il capitale complessivo, sempre più grande.
Non si tratta quindi di un problema del singolo capitalista, ma della classe dei capitalisti nel loro insieme. Per il singolo capitalista, al fine di vincere nella concorrenza, è conveniente introdurre innovazioni che diminuiscono il lavoro necessario, ma in questo modo a lungo andare produce un danno alla complessiva classe dei capitalisti, abbassando il saggio medio del profitto, dato dai valori aggregati della seguente formula (1), che per distinguerli rappresentiamo con la lettera maiuscola.
r=Pv/(C+V) (1)
Tuttavia, secondo una diffusa obiezione, se l’innovazione tecnologica determina sia l’aumento del capitale costante rispetto a quello variabile – tendendo a spingere in basso i profitti – sia il grado di sfruttamento del lavoro – tendendo a aumentali – il risultato netto di tali movimenti rimane indeterminato. Nell’ipotesi, assolutamente ragionevole, che nel tempo le innovazioni vadano a interessare tutti i settori, tenderà a diminuire il valore dei singoli elementi unitari che costituiscono sia C che V, in quanto è possibile produrre spendendo meno ore di lavoro sia i beni di consumo dei lavoratori sia i mezzi di produzione, dal che si deduce che la composizione del capitale (C/V) potrebbe non registrare una tendenza alla crescita o comunque registrarla di entità diversa da quella attesa se si considerano solo le masse di merci e non anche il loro valore. Diminuendo anche il lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro aumenterà sia saggio del plusvalore sia il plusvalore in termini assoluti. È vero che l’accresciuta produttività farà sì che nello stesso tempo di lavoro aumenti la massa dei mezzi di produzione messi in movimento dal singolo operaio, ma tenendo conto della riduzione dei valori unitari, tale processo si risolve o no in un accrescimento della composizione di valore del capitale e in una sostituzione di lavoratori con macchine in misura tale da più che compensare l’aumento del saggio del plusvalore? L’obiezione di fondo è quindi che, a fronte dell’aumento della massa dei mezzi di produzione, considerando la diminuzione del loro valore unitario, non è detto che aumenti il loro valore complessivo o comunque che possa aumentare in una misura tale da non poter essere controbilanciata o superata dall’aumento del plusvalore e del saggio del plusvalore.
In termini formali, se dividiamo per V numeratore e denominatore della (1), e ponendo il saggio del plusvalore pv’=Pv/V e la composizione del capitale c’=C/V abbiamo:
r=pv’/c’ (2)
Con l’aumento della produttività aumenta il plusvalore e diminuisce il capitale variabile. Pertanto aumenta il saggio del plusvalore posto al numeratore e niente ci dice se il denominatore aumenti più o meno rapidamente del numeratore. Diventa quindi indeterminata la dinamica della relazione (2).
Come rispondere? Abbiamo già visto in sede di illustrazione della riproduzione allargata che l’accumulazione comporta necessariamente la crescita del settore della produzione dei mezzi di produzione in rapporto a quello della produzione di mezzi di consumo e ciò anche in termini di valore. È inoltre possibile una dimostrazione piuttosto semplice della legge se muoviamo dalle seguenti tre premesse che fanno indubbiamente parte delle assunzioni presenti nel Capitale.
1. Per la natura stessa del capitale, l’accumulazione non è solo accumulazione di quantità di merci ma essenzialmente accumulazione di valore. Per di più, incessante e tendenzialmente illimitata (“smisurata”). Il capitale non sarebbe capitale se non tendesse all’accumulazione di valore. Anche se, senza dubbio, è fortemente attiva la tendenza al deprezzamento dei singoli elementi, non ci sarebbe più accumulazione se complessivamente il valore del capitale cessasse di aumentare. In questo contesto si deve quindi presupporre che tale aumento non sia limitato. O meglio, il limite è dato solo dall’arresto del processo di accumulazione dovuto proprio alla caduta del saggio del profitto.
2. Detto valore aumenta non solo in assoluto, ma anche in relazione al numero di lavoratori occupati. Cioè il valore del capitale per addetto tende ad aumentare. Questa ipotesi la si può desumere dal capitolo ventitreesimo del primo libro del Capitale sulla legge fondamentale dell’accumulazione capitalistica[5]. In base a questa legge, allorquando il capitale impiega troppi lavoratori, e con ciò si contrae l’esercito industriale di riserva, si verifica un aumento della pressione in direzione del rialzo dei salari. Un alto livello di occupazione dà infatti più forza contrattuale ai lavoratori, difficilmente sostituibili. In tali casi devono essere prese misure tecniche o politiche[6] per risparmiare lavoro, ricostruendo in tal modo l’esercito industriale di riserva. La crescita dei lavoratori impiegati, contrariamente all’incessante accumulazione di valore, è soggetta a precise restrizioni. Oggi vi si potrebbero aggiungere anche dei limiti naturali all’espansione della popolazione in un pianeta assai sovraffollato e sofferente, ma evitiamo qui di approfondire questo argomento.
3. La riduzione del valore della forza-lavoro, pur ipotizzando aumenti spettacolari della produttività, ha un limite. Se anche, nel caso estremo, i lavoratori “campassero d’aria”, scrive Marx, e tutto il loro lavoro consistesse di pluslavoro; se anche l’orario di lavoro si protraesse fino agli estremi limiti biologici e si potesse perfino forzare, grazie a una scienza perversa, questi limiti, il plusvalore giornaliero per addetto non potrebbe superare quello che si può ottenere nel corso della giornata lavorativa, di durata comunque non superiore a 24 ore. Quindi l’aumento del plusvalore ha un limite.
Date queste premesse, la relazione (1) può essere trasformata, ponendo Pv = L - V, dove L è la quantità di lavoro vivo impiegato, in r=(L-V)/(C+V). Trascurando V, cioè adottando l’ipotesi estrema che i lavoratori campino d’aria, la relazione diventa
r=L/C (3)
Ora, in base alla supposizione che L cresca meno rapidamente di C e che la sua crescita abbia un limite, il saggio del profitto non può che decrescere.
Né vale l’obiezione che l’accumulazione potrebbe indirizzarsi verso il denaro e la finanza e non verso il capitale produttivo. Certo, anche tutto ciò si verifica, ed è un formidabile espediente per alcuni, ma il plusvalore prodotto deriva solo dal lavoro e viene ripartito fra i tutti i capitali, è la fonte di tutti i profitti: quelli industriali, quelli commerciali, quelli bancari, quelli fondiari, quelli speculativi ecc. Quindi, se consideriamo la finanza, L si contrappone non solo al capitale industriale, ma a tutto il capitale, quello finanziario incluso, ed escluso solo quello fittizio. Con la finanziarizzazione avviene solo una diversa ripartizione del plusvalore fra i capitalisti. Per questo i boom della finanza prima o poi si sgonfiano, come è stato preventivato sempre dagli economisti più accorti, naturalmente inascoltati durante l’euforia.
Restano ovviamente in piedi tutti i discorsi sulle controtendenze, sulla dinamica effettiva che procede contraddittoriamente e a fasi alterne fra tendenze e controtendenze, sulla non linearità, quindi, dell’andamento. In ogni caso, per salvaguardare il saggio del profitto è necessario interrompere l’accumulazione o distruggere il valore del capitale.
Certo, esistono altre politiche che possono aggredire la caduta dei profitti, per esempio le privatizzazioni, cioè la sussunzione sotto il dominio del capitale di attività finora demandate alla socialità pubblica, non mediata dal mercato (istruzione, cultura, previdenza, tutela dell’ambiente, mobilità), oppure alla socialità immediata comunitaria, quali alcune attività domestiche. Infine viene in soccorso anche lo sfruttamento più intenso dell’ambiente dei beni comuni. Anche questa pervasività, tuttavia, non può comunque andare oltre il limite del capitale che si impadronisce di tutto, abbracciando ogni aspetto dell’esistenza naturale e sociale. Non possiamo sviluppare qui la faccenda, ma è intuibile che anche la questione ambientale connessa ai limiti fisiologici dello sfruttamento della natura, per quanto in buona parte dilatabili grazie al progresso della scienza, sia un elemento che non può essere affrontato in maniera risolutiva all’interno dei rapporti di produzione capitalistici.
Note:
[1] K.l Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. II, ed. La nuova Italia, 1970, pp. 400-405.
[2] K. Marx, Il capitale III, Ed. Riuniti, 1989, p. 259.
[3] Ivi, p. 260.
[4] Ivi, p. 264.
[5] Cfr. K. Marx, Il capitale, libro I, Ed Riuniti, 1989, pp. 679-786.
[6] Come aveva evidenziato Schumpeter (J.A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Etas, Milano, 2002, p. 68), le innovazioni possono non limitarsi alla tecnologia ma riguardare anche l’organizzazione della fabbrica, le relazioni con i lavoratori, l’individuazione di nuovi prodotti o mercati, la creazione di un marchio, la ricerca di nuove e più convenienti forme di approvvigionamento delle materie prime ecc. Tuttavia anche gli altri tipi di innovazione si traducono o in risparmio di lavoro o in appropriazione di plusvalore ai danni dei concorrenti.