Gramsci rigetta ogni metafisica materialista e, perciò, ritiene che il campo della dialettica sia essenzialmente il mondo storico e sociale. Per tale motivo Gramsci interpreta il materialismo storico come una filosofia della prassi. In altri termini, Gramsci considera essenziale il marxismo proprio perché è “una filosofia della praxis”, in quanto ritiene che l’analisi marxista della società sia volta non solo a individuare le leggi del movimento del reale, ma a intervenire per razionalizzare in modo radicale il contesto esistente. La filosofia marxista, dunque, a differenza di tutte quelle precedenti, non si limita a riflettere e a comprendere la realtà, ma la comprende sempre allo scopo di intervenire fattivamente per razionalizzare l’esistente, mirando alla sua trasformazione in senso rivoluzionario.
Detto altrimenti, secondo Gramsci la teoria marxista non è separabile dall’azione storica volta a razionalizzare secondo tale concezione gli assetti sociali e culturali esistenti. Perciò, il metodo dialettico del marxismo si distingue dal metodo empirico delle scienze naturali e dalla sociologia anche se declinata materialisticamente, in quanto lo sviluppo sociale è, come sottolinea Gramsci, sempre dialettico e non evoluzionistico. In effetti non si può, secondo Gramsci, considerare l’“oggettività”, la realtà materiale, qualcosa di per sé essente, ovvero un mero dato di fatto che esiste indipendentemente dall’uomo che la indaga e la trasforma con il proprio operare. Il reale sorge dalla costante mediazione fra l’uomo e l’ambiente, i quali sono pensabili unicamente nel processo storico del loro sviluppo interattivo e, generalmente, conflittuale. Dunque, la realtà storica si genera nell’esperienza concreta della sua interiezione, del suo scambio organico con il soggetto.
La realtà, dunque, come sottolinea Gramsci, al di fuori dell’uomo che la razionalizza è una mera astrazione dell’intelletto, in quanto anch’essa è un prodotto storico, dal momento che il mondo acquista senso solo nel rapporto con l’essere sociale che lo interpreta, elabora e trasforma. Dunque la presunta staticità della materia, della sostanza, è ricompresa nel costante fluire e divenire del corso storico del mondo. L'elemento teorico è, quindi, sempre strutturalmente legato all'elemento pratico. Tale concezione è essenziale per comprendere il ruolo degli intellettuali organici, il cui lavoro mentale non è mai un fine in sé, ma ha come obiettivo il mutamento radicale dello stato delle cose esistente.
L’ambivalente rapporto con la filosofia neoidealista
Per il marxismo, nell’interpretazione che ne dà Gramsci, il soggetto non può venir neppure pensato senza l’oggetto e, allo stesso modo, la materia non può esser posta senza l’uomo che la pensa, interpreta, rielabora e trasforma mediante l’azione. Così il necessario nesso che lega il pensiero con la prassi, l’indissolubile rapporto dialettico fra soggetto e oggetto, pensiero e azione, portano Gramsci a condividere l’interpretazione di F. Engels che considerava il marxismo l’unico legittimo erede della filosofia classica tedesca. In quest’ultima andrebbero, dunque, secondo Gramsci rinvenute le origini del marxismo, tanto da considerarlo “una riforma e uno sviluppo dello Hegelismo”, ovvero della filosofia hegeliana. D’altra parte, Gramsci ritiene che il marxismo debba essere sempre aperto al confronto con i più significativi sviluppi della filosofia contemporanea. Nel caso specifico del marxismo di Gramsci ciò significava, in primo luogo, fare i conti con il neoidealismo allora dominante in Italia e piuttosto influente anche a livello internazionale.
L’anti-Croce e lo storicismo assoluto
Se il giovane Gramsci è stato influenzato dalla concezione di Giovanni Gentile del marxismo come filosofia della praxis, nei Quaderni del Carcere si confronta in particolare con la concezione del mondo di Benedetto Croce. Il rapporto di Gramsci con Croce è ambivalente: da un lato, egli considera la filosofia crociana il punto più avanzato dell’ideologia del blocco sociale dominante borghese e, perciò, la sua critica gli appare di importanza decisiva per conquistare l’egemonia culturale; d’altro canto, egli ritrova nel pensiero di Croce elementi decisivi della filosofia della praxis – in primo luogo il rapporto indissolubile fra pensiero e azione – e una filosofia della storia incentrata sul concetto di egemonia, essenziale punto di partenza per la costruzione di un blocco sociale alternativo e antagonista al dominante.
A tale proposito, Gramsci si sforza di far emergere e rendere evidenti i limiti idealistici del liberalismo di Croce mostrando come il socialismo ed il marxismo se adeguatamente sviluppati oltre il positivismo ed il rozzo materialismo, siano in grado di superarli fornendo alla teoria e alla prassi una concezione maggiormente universale e concreta. Nella sua decisiva disamina del ruolo degli intellettuali e nel suo confronto critico con lo storicismo crociano, egli affronta diverse tematiche filosofiche che gli consentono di enucleare la sua originale concezione filosofica del marxismo. A quest’ultimo scopo, a suo parere, il marxismo deve operare nei confronti della filosofia di Croce lo stesso processo di superamento dialettico che Marx ha operato nei confronti di Hegel. Si tratta di valorizzare lo storicismo antideterministico della filosofia di Croce, liberandolo – per usare la nota metafora utilizzata di Marx – dal suo involucro, dalla sua mistificante forma metafisica e idealista. Lo storicismo idealista deve essere reso concreto, rifondandolo sull’analisi socio-economica del materialismo storico, che a sua volta deve essere depurato dai residui deterministici e meccanicistici per divenire un “puro Umanesimo” posto a fondamento della prassi rivoluzionaria.
Dunque, il tentativo di superare dialetticamente la grande filosofia borghese da Hegel a Croce porta Gramsci a una critica sempre più serrata del materialismo dialettico sovietico, a partire dall’esposizione manualistica che ne aveva dato Nikolaj Bucharin. Al contrario di quest’ultimo, la concezione gramsciana del marxismo come storicismo assoluto si sviluppa nell’analisi delle forme concrete di organizzazione della cultura e della società, sempre calata nello specifico contesto storico e sociale che segna di sé le differenti concezioni del mondo, intese quali proposte di soluzione delle contraddizioni che si sviluppano in un contesto determinato. Si tratta, dunque, di vagliare ogni apparato concettuale nella capacità più o meno elevata che si mostra nell’interpretazione di un contesto storico individuandone le contraddizioni che rendono praticabile un’azione concreta, in grado di trasformare in modo rivoluzionario lo stato di cose esistente.
Sempre in polemica con la concezione revisionista di Croce, che aveva ridotto il marxismo a un mero “canone di ricerca storica”, Gramsci rivendica per esso lo statuto di concezione universale del mondo. Approfondendo la lezione di Antonio Labriola, Gramsci si sforza di dimostrare la compiuta autonomia teorica del marxismo dal positivismo e dal materialismo meccanicistico o metafisico proprio in quanto il materialismo storico mira a una trasformazione sociale muovendo dai bisogni reali delle classi subalterne. Il marxismo non può esser ridotto, come avveniva nella vulgata affermatasi in Unione sovietica, a un sistema materialistico di interpretazione del reale, dal momento che in tal modo il materialismo storico non potrebbe dare concretezza ai concetti astratti, determinandoli secondo i differenti oggetti d’indagine. In altri termini, come non si stanca di sottolineare Gramsci, non si tratta di sostituire una cattiva metafisica idealista con una metafisica materialista, ma di far emergere la caratteristica peculiare della concezione del mondo marxista, ovvero il suo essere uno storicismo assoluto in funzione di una filosofia della praxis.
Le riflessioni di Gramsci sulla storia dell’Italia moderna
Lo storicismo assoluto dell’interpretazione gramsciana del marxismo, lo porta a concretizzare le sue concezioni politiche all’interno di un’approfondita disamina della storia italiana, con particolare attenzione alla diversa funzione che vi hanno assunto gli intellettuali e, più in generale, gli istituti culturali. A tale scopo Gramsci mira a ridefinire la cassetta degli attrezzi del marxismo, in primo luogo nell’analisi della situazione italiana. Dunque, proprio sulla base del suo storicismo assoluto, Gramsci ricerca le cause della sconfitta delle forze rivoluzionarie e della conseguente affermazione del fascismo nella storia italiana del passato [1], inquadrandola nel più generale contesto europeo, in cui tenderanno ad affermarsi regimi totalitari.
Egemonia, crisi e avvento del fascismo
Gramsci ripensando a fondo i motivi della sconfitta storica del movimento socialista italiano e del conseguente avvento del fascismo, ne individua l’origine nella crisi economica di sovrapproduzione che, dal 1929, colpisce i principali paesi del mondo a esclusione dell’Urss. Ciò produce un inasprimento dei conflitti sociali e, data l’incapacità del movimento rivoluzionario di risolvere a proprio favore la crisi, il conseguente restringimento degli stessi spazi di democrazia formale borghese.
La classe dirigente borghese, che sino ad allora aveva sapientemente dosato, per rafforzare il proprio dominio, l’egemonia politico-culturale con il monopolio della violenza legalizzata, si vede costretta e ricorrere sempre più spesso a quest’ultima. Sul piano politico istituzionale il potere esecutivo del governo tende a marginalizzare progressivamente il potere legislativo del parlamento – governando direttamente mediante decreti legge – e al contempo ad esautorare la funzione di controllo svolta in precedenza dal potere giudiziario. In tali frangenti, come osserva Gramsci, “l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’egemonia diviene permanentemente difficile e aleatorio” e, così, “l’impiego più o meno esteso dei decreti-legge (…) tendono a sostituire la legislazione ordinaria e la modificano in certe occasioni, ‘forzando la pazienza’ del parlamento fino a giungere a un vero e proprio ‘ricatto della guerra civile’” [2].
Note
[1] A proposito del processo storico che ha portato dal bonapartismo regressivo all’affermazione del fascismo osserva acutamente Gramsci: “la maggiore o minore parte lasciata alla consuetudine o alla legge scritta, per cui si sviluppano forme consuetudinarie che possono ad un certo punto essere abolite in virtù delle leggi scritte (in alcuni paesi ‘pareva’ si fossero costituiti regimi democratici, ma essi si erano costituiti solo formalmente, senza lotta, senza sanzione costituzionale e fu facile disgregarli senza lotta, o quasi, perché privi di sussidi giuridico-morali e militari, ripristinando la legge scritta o dando della legge scritta interpretazioni reazionarie); il distacco più o meno grande tra le leggi fondamentali e i regolamenti d’esecuzione che annullano le prime o ne danno un’interpretazione restrittiva”. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1977, pp. 1637-38.
[2] Ivi, p. 1638. Gramsci prosegue osservando acutamente che: “a questo processo contribuiscono i teorici-filosofi, i pubblicisti, i partiti politici ecc. per lo sviluppo della parte formale e i movimenti o le pressioni di massa per la parte sostanziale, con azioni e reazioni reciproche, con iniziative ‘preventive’ prima che un fenomeno si manifesti pericolosamente e con repressioni quando le prevenzioni sono mancate o sono state tardive e inefficaci” (Ibidem).