Gramsci, la filosofia della prassi e le masse

La determinazione fondamentale del #marxismo, quale filosofia della praxis, consiste, secondo Gramsci, nell’essere una concezione di massa, una cultura di massa che opera unitariamente, cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea, ma generalizzate nella realtà sociale.


Gramsci, la filosofia della prassi e le masse

Come fa notare Antonio Gramsci, la filosofia della prassi, cioè il marxismo rivoluzionario, si fa portatrice di una nuova concezione della storia della filosofia: “una filosofia è «storica» in quanto si diffonde, in quanto diventa concezione della realtà di una massa sociale (con un’etica conforme)” [1]. Perciò, secondo Gramsci, non ci si può più limitare ad analizzare la storia dei diversi filosofi, ma va indagata la classe di cui sono espressione più o meno organica e la capacità pratica di influenzare l’ordine costituito sviluppando le concezioni esistenti nella misura da renderle capaci di incidere sull’eticità e il senso comune del proprio tempo. È necessario, inoltre, indagare i legami di tali concezioni con quelle “delle grandi masse” e “dei più ristretti gruppi dirigenti (o intellettuali)”. 

La concezione del mondo di un’epoca, in effetti, come fa notare Gramsci è il prodotto del combinarsi delle filosofie degli intellettuali tradizionali con quelle dei diversi strati delle masse popolari e del loro sintetizzarsi e precipitare in una “norma d’azione collettiva”, in “una «storia» concreta e completa (integrale)” (10, 17: 1255). Filosofia e storia tendono a coincidere quale prodotto del compenetrarsi delle varie concezioni “dei gruppi dirigenti (cultura filosofica)” (ibidem) e delle ideologie che muovono le grandi masse. La determinazione fondamentale della filosofia della praxis è, dunque, “di essere una concezione di massa, una cultura di massa e di [una] massa che opera unitariamente, cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea, ma «generalizzate» nella realtà sociale” (10, 31: 1270).

In tale prospettiva va anche considerato il pensiero del singolo filosofo, il suo contribuire o opporsi a tale insieme sociale, cioè nella prospettiva della direzione pratico-politica cui è funzionale. La reale conoscenza del mondo – è questa la conquista maggiore della filosofia della praxis rispetto all’idealismo tedesco da cui deriva – si dà mediante la sua trasformazione pratica, per cui tale concezione si fonda su di “un’immanenza assoluta”, su di una radicale storicità. Prosegue a tal riguardo Gramsci: “la famosa proposizione che «il movimento operaio tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca», la quale non significa già, come scrive il Croce: «erede che non continuerebbe già l’opera del predecessore, ma ne imprenderebbe un’altra, di natura diversa e contraria» ma significherebbe proprio che l’«erede» continua il predecessore, ma lo continua «praticamente» poiché ha dedotto una volontà attiva, trasformatrice del mondo, dalla mera contemplazione e in questa attività pratica è contenuta anche la «conoscenza» che solo anzi nell’attività pratica è «reale conoscenza» e non «scolasticismo»” (ibidem). Perciò, conclude Gramsci, “per questo suo carattere tendenziale di filosofia di massa, la filosofia della praxis non può essere concepita che in forma polemica, di perpetua lotta” (11, 13: 1397).

Il ruolo delle masse è, infine, analizzato da Gramsci in relazione alle crisi sistemiche. Dal momento che le classi sociali si omogeneizzano nei partiti, in cui si formano i quadri di Stato e società civile, senza un’intensa e costante attività teorica al loro interno i partiti si indeboliscono, si sfibrano indebolendo al contempo la “vita politica e più in generale la vita culturale. Quindi scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti, corrompendone, assorbendone i pochi uomini indispensabili. Quindi miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura: invece della storia politica, la erudizione scarnita, invece della religione la superstizione, invece dei libri e delle grandi riviste, il giornale quotidiano e il libello” (3, 119: 387). Con queste osservazioni fanno il paio le osservazioni di Gramsci “su quel carattere del popolo italiano che si può chiamare «apoliticismo»”. Questo carattere, naturalmente, è delle masse popolari, cioè delle classi subalterne. 

Negli strati superiori e dominanti vi corrisponde un modo di pensare che si può dire «corporativo», economico, di categoria, e che del resto è stato registrato nella nomenclatura politica italiana col termine di «consorteria», una variazione italiana della «cricca» francese e della camarilla spagnuola, che indicano qualcosa di diverso, di particolaristico sì, ma nel senso personale o di gruppo strettamente politico [-settario] (legato all’attività politica di gruppi militari o di cortigiani), mentre in Italia più legato a interessi economici (specialmente agrari e regionali). Una varietà di questo «apoliticismo» popolare è il «pressappoco» della fisionomia dei partiti tradizionali, il pressappoco dei programmi e delle ideologie” (14, 9: 1663-664) [2].

In tali frangenti, nota Gramsci, sempre attento agli aspetti contraddittori e non lineari del processo storico, le masse hanno la possibilità di emanciparsi dalle ideologie tradizionali, cioè dall’ideologia dominante, e la classe al potere finisce con il perdere il consenso su cui basava, il suo ruolo, la sua funzione direttiva e diviene mera espressione di dominio. Si inaugura allora una “crisi d’autorità”, di egemonia della classe dirigente che però, in quanto ancora dominante, resiste coercitivamente a ogni tentativo di ricambio e/o di sostituzione da parte della classe emergente. La crisi di egemonia della classe dominante può avere le sue origini o per il fallimento di essa in una qualche “grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra)” (13, 23: 1603), o in quanto larghe masse sono uscite improvvisamente dalla passività politica con rivendicazioni che, per quanto poste in modo disorganico, mettono a rischio la tenuta del sistema nel suo complesso.

Tuttavia il mero utilizzo della forza o la semplice restaurazione dell’ordine precedente non sono più possibili; la crisi rischia di divenire strutturale nel momento in cui, come osserva acutamente Gramsci, “il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati” (3, 34: 311). La crisi delle precedenti ideologie genera uno scetticismo diffuso verso ogni teoria generale, con il prevalere del puro aspetto economico corporativo cui corrisponde una concezione della politica vieppiù cinica “nella sua manifestazione immediata”. Tali riduzioni delle sovrastrutture alla struttura economica ingenerano la necessità di una nuova sovrastruttura. Si aprono allora spazi per le nuove concezioni del mondo, in particolare se esse si presentano nella forma di teorie capaci di creare un nuovo senso comune. In tali fasi risolutive “le grandi masse di energie entrate in movimento per la crisi” (13, 37: 1647) tendono a incanalarsi nei letti tracciati in precedenza dalle principali forze politiche, per questo il lavoro svolto da un partito rivoluzionario si rivela per quello che è stato in tali frangenti.

Conseguenze funeste ha, in tali, fasi l’astratto ripudio da parte dei dirigenti dei lavoratori della spontaneità dei movimenti di massa e ogni rinunzia “a dar loro una direzione consapevole, ad elevarsi ad un piano superiore inserendoli nella politica” (3, 48: 331).

Il che ovviamente non significa che, senza una lunga preparazione dell’organizzazione, che sia in grado di operare in modo coordinato e continuativo, il movimento di massa possa conseguire spontaneamente l’obiettivo rivoluzionario. Si veda quanto scrive Gramsci a proposito dell’ipocrita francofilia dei dirigenti democratici italiani: “la Francia era la Rivoluzione francese, e non il regime attuale, era la partecipazione delle masse popolari alla vita politica e statale, era l’esistenza di forti correnti d’opinione, la sprovincializzazione dei partiti, il decoro dell’attività parlamentare ecc., cose che non esistevano in Italia, che si agognavano, ma per il cui raggiungimento non si sapeva e non si voleva far nulla di preciso, di coordinato, di continuativo: si mostrava al popolo italiano l’esemplare francese, quasi si aspettasse che il popolo italiano facesse da sé, cioè per iniziativa spontanea di massa, ciò che i francesi avevano raggiunto attraverso una serie di rivoluzioni e di guerre, a costo di torrenti di sangue” (8, 42: 967). 

D’altra parte, tali concezioni spontanee non possono essere disprezzate o trascurate, ma vanno purificate e indirizzate riducendole e omogeneizzandole alla filosofia della praxis. La direzione politica consapevole deve evitare di essere astratta, di pretendere di applicare formule teoriche alla concretezza dell’agire politico, ma deve tener conto della determinata situazione storica e degli uomini che la vivono con le loro peculiari e frammentarie concezioni del mondo.

Non bisogna, però, dimenticare che nei momenti di crisi d’autorità a tali movimenti di massa si accompagnano o seguono generalmente i tentativi dei settori reazionari delle classi dominanti di dare alla crisi stessa una soluzione, uno sbocco autoritario. Ciò non toglie che, come denuncia Gramsci, l’abdicazione alla funzione storica di indicare uno sbocco politico ai movimenti spontanei di malcontento delle masse da parte dei dirigenti dei partiti progressisti è da annoverare “tra le cause efficienti di questi colpi di Stato” (3, 48: 331) e, più in generale, delle derive bonapartiste.

Del resto, la crisi dei partiti e lo stato di agitazione delle masse spinge lo “Stato-governo” a rafforzare il proprio potere particolare sull’insieme sociale cooptando-corrompendo i pochi quadri dei partiti, in tal modo favorendo la disaffezione delle masse dagli organismi elettivi [3]. Come denuncia Gramsci: “tra il consenso e la forza sta la corruzione-frode (che è caratteristica di certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica, presentando l’impiego della forza troppi pericoli) cioè lo snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti sia copertamente sia in caso di pericolo emergente, apertamente, per gettare lo scompiglio e il disordine nelle file antagoniste” (13, 37: 1637).

Note:

[1] Gramsci, Antonio, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Gerratana, Valentino, Einaudi, Torino 1977, Vol. II, p. 1272. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.

[2] Tali aspetti regressivi Gramsci li rinviene nell’avventura di Fiume che, per diversi elementi, anticipa il fascismo: “1°) l’apoliticità fondamentale del popolo italiano (specialmente della piccola borghesia e dei piccoli intellettuali), apoliticità irrequieta, riottosa, che permetteva ogni avventura, che dava a ogni avventuriero la possibilità di avere un seguito di qualche decina di migliaia di uomini, specialmente se la polizia lasciava fare o si opponeva solo debolmente e senza metodo; 2°) il fatto che non era incarnata nel popolo italiano nessuna tradizione di partito politico di massa, che non esistevano cioè «direttive» storico-politiche di massa orientatrici delle passioni popolari, tradizionalmente forti e dominanti; 3°) la situazione del dopoguerra, in cui tali elementi si presentavano moltiplicati, perché, dopo quattro anni di guerra, decine di migliaia di uomini erano diventati moralmente e socialmente «vagabondi», disancorati, avidi di sensazioni non più imposte dalla disciplina statale” (9, 141: 1201).

[3] A questo proposito Gramsci ricorda come “nello sviluppo del Risorgimento, il così detto Partito d’Azione aveva un atteggiamento «paternalistico», perciò non è riuscito che in misura molto limitata a mettere le grandi masse popolari a contatto dello Stato. Il così detto «trasformismo» non è che l’espressione parlamentare del fatto che il Partito d’Azione viene incorporato molecolarmente dai moderati e le masse popolari vengono decapitate, non assorbite nell’ambito del nuovo Stato” (19, 26: 2041-42).

30/12/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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