Hegel e la diatriba sull’ateismo

Il giovane #Hegel aveva già sviluppato una concezione della religione nel senso del #panteismo spinoziano, in netto contrasto con la concezione ortodossa della tradizione ebraico-cristiana, che considera la divinità come una persona.


Hegel e la diatriba sull’ateismo Credits: https://www.gazzettafilosofica.net/2020-1/settembre/a-250-anni-hegel-ci-sfugge-ancora/

Per comprendere meglio la portata che avrà il progetto di una nuova religione popolare (Volksreligion) politica nella formazione della filosofia di Hegel in generale e nella concezione della tragedia in particolare e per intendere sino in fondo il tanto spesso equivocato interesse per la problematica religiosa [1], bisogna far riferimento a un dibattito tanto importante da influenzare la riflessione anche all’interno del seminario teologico di Tubinga (lo Stift), in cui il giovane filosofo si stava formando: la diatriba sull’ateismo (l’Atheismus-Streit). In Lettere sulla dottrina di Spinoza a Mosè Mendelssohn [Über die Lehre des Spinoza in Briefen an der herrn Moses Mendelssohn] (1785) Friedrich Heinrich Jacobi [un ricco e religioso romantico] aveva sostenuto che Gotthold Ephraim Lessing (il più grande illuminista tedesco) gli avrebbe confessato, poco prima di morire, di aver aderito a una concezione spinoziana della religione, basata su di un panteismo contrario a ogni interpretazione personalista della divinità: “i concetti ortodossi della divinità non vanno più per me. Io non li posso apprezzare (En kaí pan)” [2]. Rosenkranz, sulla base di documenti a noi non pervenuti, sostiene che Hegel abbia letto insieme a Hölderlin e Schelling tale testo [3]. Tuttavia, non vi è traccia di tesi panteistiche nei manoscritti hegeliani di questo periodo, come pure nelle testimonianze indirette che possediamo – a parte il fin troppo citato En kaí pan [formula greca con la quale si indica l'identità dell'Uno col Tutto], che proprio Hölderlin avrebbe vergato sul libro delle dediche di Hegel. Sappiamo, tuttavia, da una lettera scritta da Schelling a Hegel che quest’ultimo condivideva la tesi attribuita da Jacobi a Lessing, ovvero era assertore di una concezione non personalista della divinità: “ammetto che la domanda mi ha sorpreso; non me la sarei aspettata da un familiare di Lessing; ma tu l’hai posta proprio per capire se per me essa è del tutto definita; per te essa già da tempo è certamente risolta. Anche per noi i concetti ortodossi di Dio non esistono più. La mia risposta è: noi arriviamo più avanti ancora dell’ente personale. Nel frattempo sono diventato Spinozista!” [4]. 

Va inoltre considerato che le presunte confessioni di Lessing erano servite da pretesto a Jacobi per una dura polemica contro il razionalismo illuminista, più tardi estesa alla concezione della religione della filosofia critica, accusata di aver rotto con il cristianesimo e di costituire, sostanzialmente, una forma di ateismo, concezione che al tempo era considerata sovversiva

Dal carteggio con Schelling, come abbiamo visto, emerge che Hegel rifiutava il tentativo compiuto dal prudente Mendelssohn di ricondurre la religione naturale dell’illuminismo all’interno del cristianesimo, per evitare l’accusa di ateismo sovversivo. In altri termini, Hegel sembra intenzionato a infrangere il compromesso ideato proprio da Spinoza – ripreso dall’illuminismo tedesco e, per quanto rielaborato, presente ancora nella filosofia critica – tra il riconoscimento del valore della religione cristiana, purificata da gran parte della sua storia positiva, e il libero esame delle credenze religiose, da compiersi sulla base dei princìpi di ragione.

In effetti, Hegel pare richiamarsi alla concezione della religione attribuita da Jacobi a Lessing, proprio per criticare alcuni aspetti del Saggio di una critica di ogni rivelazione [1792] di Fichte, che avevano favorito il tentativo di recupero della religione razionale all’interno dell’ortodossia del seminario teologico Stift. Come scrive Hegel a Schelling: “al pasticcio di cui mi scrivi, di cui posso perciò ben immaginare il modo d’argomentare, Fichte ha indubbiamente spalancato le porte con la sua Critica di ogni rivelazione. Lui stesso ne ha fatto un uso moderato; ma una volta che i suoi princìpi sono stati fermamente ammessi, non è più possibile porre alcun termine alla logica teologica. Egli argomenta partendo dalla santità di Dio, di ciò che in virtù della sua natura puramente morale ecc. Dio deve fare, finendo così col reintrodurre nella dogmatica il vecchio genere di prove” [5]. La posizione di Hegel appare, dunque, nella critica della concezione ortodossa e confessionale della religione, molto più radicale di quella dello stesso Fichte, che a sua volta era stato accusato di ateismo dai conservatori del tempo.

La diatriba sull’ateismo – che porterà al licenziamento di Fichte dall’università di Jena, in quanto si era rifiutato di difendersi dall’accusa di ateismo, che sottintendeva quella di giacobinismo – non manca di lasciare tracce di sé anche nelle pagine scritte da Hegel in questi anni. Analizziamo, ad esempio, il seguente brano: “perciò agli occhi del volgo l’ateismo appare come un vizio tanto temibile, oppure un semplice allontanamento dalla comune rappresentazione della divinità appare subito come ateismo, poiché a questa rappresentazione erano legati tutti i sentimenti di sottomissione e di riconoscenza, tutte le speranze, e questa trama di sensazioni viene demolita e distrutta se quelle rappresentazioni vengono mutate” [6]. Nel brano in questione colpisce come Hegel, in qualche modo, faccia emergere i motivi reali delle critiche di Jacobi a Lessing e a Fichte, cioè il timore che le loro critiche alla concezione tradizionale della religione possano di fatto mettere in discussione la sottomissione delle masse popolari a dei rapporti di produzione che le condannavano a uno stadio di sostanziale asservimento. D’altra parte, però, le condizioni così arretrare delle masse popolari facevano sì che le critiche potenzialmente sovversive di Lessing e Fichte erano, almeno in un primo momento, non accettate dal “volgo”, che anzi vi vedeva scossa la concezione dominante del mondo, senza che al suo posto se ne fornisse una alternativa per lui comprensibile e credibile. La critica di Hegel sembra così precorrere quella che il giovane Marx rivolgerà ai giovani hegeliani, i quali ritenevano essenziale la critica alle religione per rivoluzionare l’ancien régime, senza rendersi conto che era la miseria reale in cui erano condannate a sopravvivere le masse popolari che doveva essere combattuta e non, piuttosto, quelle concezione religiose che ne erano al contempo una espressione e una protesta contro tale penosa condizione. Anche se, a differenza del giovane Marx – anche perché le condizioni storiche oggettive per un radicale mutamento della miseria reale delle masse popolari non erano ancora mature – Hegel è portato a ritenere che le masse tenute in uno stato di ignoranza avrebbero piuttosto finito per rivoltarsi contro quel filosofo che aveva l’ardire di calarsi nuovamente nella caverna platonica, per spingere gli uomini da sempre asserviti al suo interno a ribellarsi e liberarsi. Come già aveva previsto realisticamente Platone, tali uomini, almeno inizialmente, non solo non avrebbero dato credito al libero pensatore, ma si sarebbero rivolti contro di lui.

Perciò, l’interesse di Hegel si concentra principalmente sulla riflessione riguardo l’importanza della sensibilità e delle rappresentazioni nella religione popolare, in particolare quando il popolo è ridotto a “volgo” sempre all’opra chino, senza ideale in cui sperar. Dunque Hegel, sin da questi primi abbozzi giovanili, sembra ben cosciente degli stretti legami tra l’eticità [Sittlichkeit], cioè gli usi, i costumi, le istituzioni e le credenze religiose di un popolo in condizioni di palese arretratezza. In tal situazione il giovane intellettuale, con simpatie rivoluzionarie, comprende che gli effetti della concezione illuminista, filosofica della religione, vanno a impattare e si ripercuotono non tanto e non solo al livello teologico [7], quanto piuttosto sul piano della religione statutaria e sulle credenze su cui si regge una compagine socio-politica

Note:

[1] A tal proposito, occorre sempre tenere a mente la netta opposizione di Hegel all’ortodossia imperante nel seminario e, più in generale, alle problematiche teologiche, come non bisogna scordare la sua concezione, per molti versi, ancora illuminista della divinità, per cui nella sua riflessione giovanile la religione assumeva un valore funzionale all’affermazione dell’autonomia morale e razionale dell’uomo.

[2] Jacobi, F. H., Lettere sulla dottrina di Spinoza a Mosè Mendelssohn [1785], tr. it. di di Capra, F., e Verra V., Laterza, Bari 1969, p. 67.

[3] Cfr. Rosenkranz, Karl, Georg Wilhelm Friedrich Hegels Leben [1844], tr. it. a cura di Bodei, Remo, La vita di Hegel, Vallecchi, Firenze 1966, p. 40.

[4] Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Briefe von und an Hegel a cura di Hoffmeister, Johannes, 4 voll., Amburgo 1952 (2. ed. 1977-1981), pp. 21-22, tr. it. parziale di Manganaro, Paolo, Epistolario I (1785-1808), Guida, Napoli 1983, p. 115.

[5] Ivi, p. 17; tr. it., p. 110.

[6] Id., Gesammelte Werke, In Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft, a cura della Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Hamburg, Meiner dal 1968, vol. I, p. 78, Id., Scritti giovanili I, tr. it. di Mirri, E., Guida, Napoli 1993, p. 163.

 [7] Del resto, un po’ tutti i documenti che ci restano dei tre anni passati da Hegel a studiare teologia nello Stift ci sembrano caratterizzati da un atteggiamento di sostanziale distacco, per non dire disinteresse, nei confronti delle questioni propriamente teologiche; prova ne sono in primo luogo le Quattro prediche che ci restano di questi anni, di cui persino Rosenkranz – strenuo difensore del pensiero hegeliano in tutte o quasi le sue sfumature – traccia un giudizio molto netto: “domina in esse la più arida interpretazione morale del cristianesimo, e l’esattezza con cui vengono analizzati i concetti di dovere non riesce a compensare l’enorme e continua insulsaggine.” Dunque, già il primo biografo di Hegel ne sottolinea, appunto, il carattere occasionale e lo scarso interesse dell’autore, preso in questo periodo [siamo negli anni della Rivoluzione fracese] da tutt’altri interessi. In realtà, una parziale rivalutazione delle Prediche è stata tentata da Edoardo Mirri [nella sopra citata sua edizione degli scritti giovanili di Hegel alle pagine 108-14], che vi ha voluto vedere, riprendendo uno spunto di Johannes Hoffmeister, un’ulteriore conferma della sua tesi ermeneutica, fondata sull’approdo, in qualche modo necessario, alla filosofia kantiana di uno Hegel formatosi a Stoccarda sui principi dell’illuminismo. Come ha tentato di dimostrare, diversi passi di queste prediche non sono altro che “applicazioni all’esegesi neotestamentaria della dottrina morale kantiana, non c’è dubbio: nelle dottissime «annotazioni» aggiunte all’edizione critica di questi Scritti giovanili, i curatori di essa hanno indicato con sapiente filologia le corrispondenze anche lessicali di questi passi, soprattutto di quelli della quarta «predica», con la kantiana Religione entro i limiti della sola ragione”. Mirri, E., in Hegel, Scritti giovanili, op. cit., p. 110. Il che ovviamente nulla toglie all’evidente disinteresse con cui Hegel le deve aver composte ma, anzi, rafforza la tesi della loro sostanziale estraneità alla concezione della teologia dominante nello Stift. In definitiva più equilibrato ci sembra il giudizio che ha espresso sulle Prediche Carmelo Lacorte: “in tal modo, mantenute come esse sono sul binario del più stretto ossequio all’ambiente dello Stift, queste prediche, che risalgono tutte all’ultimo anno del corso di teologia – e stanno quindi cronologicamente insieme ai frammenti sulla Volksreligion [religione popolare] – risultano alla fine interessanti quasi esclusivamente per misurare la distanza e la frattura esistente fra gli scritti autonomi di Hegel e quelli la cui composizione è imposta dalle necessità estrinseche di studio alla Fondazione teologica.” Lacorte, C., Il primo Hegel, Firenze, Sansoni 1959, p. 299.

06/01/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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