Gli intellettuali organici

Tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia, Gramsci sviluppa un’interpretazione originale del marxismo, il cui perno è la funzione centrale degli intellettuali. A suo parere, infatti, per conquistare il potere politico nel mondo occidentale è necessario esercitare l’egemonia culturale all’interno della società civile. Perciò il partito rivoluzionario deve divenire un intellettuale collettivo.


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Come è noto, secondo Gramsci, la rivoluzione in occidente può aver successo solo se i subalterni hanno conquistato l’egemonia sulla società civile. D’altra parte, visto che l’ideologia dominante non può che essere quella della classe dominante, conquistare l’egemonia su subalterni e ceti medi a uno a uno rischia di divenire una fatica di Sisifo. Perciò Gramsci, seguendo la tattica dei gesuiti, ritiene indispensabile – per portare a termine vittoriosamente il conflitto delle idee sul piano delle sovrastrutture – mirare a conquistare alla propria causa, in primo luogo, il supporto dei lavoratori della mente, degli intellettuali. In quanto, a causa della ormai millenaria divisione del lavoro, le masse di lavoratori manuali tenderanno a orientarsi sul piano politico e, ancora più, sul piano ideale sulla base delle posizioni e delle indicazioni ricevute dagli intellettuali di riferimento. Una volta, dunque, che si conquisterà l’egemonia sui dirigenti, sarà decisamente più facile portarsi dietro le masse. Questa è, dunque, la via più semplice e rapida per chi intende portare avanti la guerra di logoramento in funzione della conquista dell’egemonia sulla società civile. Proprio perciò, nelle differenti tematiche affrontare da Gramsci nei Quaderni del carcere, centrale e costantemente ricorrente è proprio la riflessione sulla questione degli intellettuali, sul loro ruolo, sulla loro funzione storica e sociale etc.

Gli intellettuali organici

Per Gramsci vi sono due tipologie fondamentali di intellettuali, quelli preposti a dirigere direttamente i lavoratori manuali, che vengono perciò definiti intellettuali organici e quelli che tendono a svolgere una funzione di direzione indiretta, che sono perciò definiti intellettuali tradizionali, ossia nel senso tradizionale del termine fondato sulla contrapposizione fra lavoratori della mente e lavoratori manuali.

Gli intellettuali, evidentemente, non possono essere considerati, a prescindere dal loro modo di immaginarsi, come un gruppo sociale assestante o come un insieme di individui che si pongono al di fuori o al di sopra dei conflitti fra classi sociali con interessi necessariamente antagonisti. Sostanzialmente gli intellettuali tradizionali sono in generale espressione della classe dominante in quanto, in primo luogo, possono permettersi un livello e una durata di formazione tale da divenire intellettuali professionisti solo coloro che hanno generalmente alle spalle una famiglia che gli consente di conseguire questo elevato livello di specializzazione della propria forza-lavoro. Gli intellettuali provengono, quindi, generalmente dal blocco sociale dominante, anche se possono essere selezionati fra i membri migliori e più promettenti dei ceti subalterni, essenzialmente se si dimostrano disponibili a rompere i ponti con la propria classe di provenienza per divenire funzionali agli obiettivi conservatori della classe dominante. Per questo motivo non è certo facile conquistare gli intellettuali alla causa dei subalterni. I primi, provenienti dalla borghesia, tradendo la loro classe, dovrebbero operare in contrasto con il mantenimento dei propri privilegi, cosa alquanto rara, mentre i secondi – proveniente dai ceti subalterni – dovrebbero rinunciare generalmente alla carriera di lavoratori della mente, ossia a divenire intellettuali a tempo pieno, di professione.

Dunque, le avanguardie dei subalterni sono generalmente in grado di conquistare alla loro causa quella componente degli intellettuali tradizionali che non riesce ad affermarsi, a far carriera, che spesso vive una condizione di precarietà. Costoro più facilmente accettano di passare a svolgere un ruolo dirigenziale nei sindacati e nei partiti della sinistra. In tal modo, visto che generalmente i subalterni non hanno modo di divenire intellettuali, i loro partiti e sindacati sono solitamente diretti da intellettuali tradizionali transfughi dalle classi dominanti. Dunque, costoro, cui generalmente non è pienamente riconosciuto il ruolo di intellettuale dalle classi dominanti, cercano di emergere divenendo dirigenti delle classi subalterne.

D’altra parte, però, come non si stanca di denunciare Gramsci, ogni volta che storicamente lo scontro di classe si è acutizzato, ogni volta che si tratta di uscire dalle trincee della battaglia delle idee e rischiare la vita in uno scontro in campo aperto cosa hanno fatto la massima parte di questi intellettuali? In primo luogo hanno fatto di tutto per posticipare il momento dello scontro in campo aperto, facendo così generalmente perdere ai subalterni il momento decisivo in cui era possibile rovesciare le sorti del conflitto, consentendo alle classi dominanti di riorganizzarsi, superando i momenti di crisi. Quando sono stati, comunque, costretti dagli eventi a doversi battere in una guerra di movimento gli intellettuali tradizionali, divenuti dirigenti delle organizzazioni dei subalterni, per paura di perdere i propri privilegi sono generalmente ritornati nelle fila della classe di provenienza, ovvero hanno tradito i subalterni lasciandoli, nel momento decisivo dello scontro, privi di una direzione consapevole.

Questo fenomeno – per cui così spesso nel corso della storia i dirigenti delle organizzazioni dei subalterni tendono a passare, quando lo scontro si fa duro, dalla parte dei ceti dominanti, da cui in massima parte provengono – è un aspetto particolare, per quanto importante, del più generale fenomeno del trasformismo tipico dei regimi parlamentari liberal-democratici fondati sulla delega della sovranità, della funzione politica a una casta più o meno chiusa di politicanti di professione o aspiranti a divenirlo. Tale fenomeno è particolarmente diffuso nella politica parlamentare italiana.

Quindi, nelle fasi decisive del conflitto sociale, la classe dominante riuscirà generalmente a corrompere e a portare a fare i propri interessi i dirigenti delle classi subalterne, ossia quelli che vengono generalmente definiti gli intellettuali di sinistra. Per tale motivo, mostra Gramsci, l’unico modo per non ripetere gli errori del passato, che hanno condotto a catastrofiche sconfitte le classi subalterne – nel momento cruciale improvvisamente private della indispensabile direzione consapevole – è indispensabile aver formato degli intellettuali di nuovo tipo, organici alle classi subalterne. Anche perché negli intellettuali tradizionali di sinistra, che occupano ruoli dirigenziali nelle classi subalterne, è generalmente presente ab origine un elemento opportunista, che facilita nel momento decisivo il fare il voltagabbana.

Gli intellettuali tradizionali che si convincono a dirigere i subalterni, come abbiamo visto, sono generalmente quelli intellettuali che non hanno avuto successo, che non sono riusciti ad affermarsi, quando avevano tentato di svolgere la funzione di intellettuale nel modo tradizionale. Al contrario, gli intellettuali organici al proletariato sono per definizione proletari essi stessi, anche se svolgono ruoli direttivi fra i subalterni. Si tratta, quindi, in massima parte, di intellettuali provenienti delle fila dei ceti subalterni, che spesso come Gramsci hanno rinunciato a essere molecolarmente cooptati come intellettuali tradizionali nella classe dominante. Come è noto, infatti, Gramsci pur essendo molto povero, grazie a uno straordinario sforzo di volontà era divenuto uno studente geniale, tanto che il suo professore universitario intendeva cooptarlo nella carriera universitaria. Ciò nonostante Gramsci, nel momento in cui comprende di poter operare come intellettuale organico alle classi subalterne, non ha esitazioni, abbandona per sempre l’università, senza nemmeno laurearsi, e rinuncia spontaneamente a divenire, come aveva sempre sognato – dopo aver fatto un lavoro enorme per rendere reale tale obiettivo – un intellettuale nel senso tradizionale del termine, con un posto fisso di rilievo nelle istituzioni culturali dello Stato borghese.

Qual è, infine, la differenza fra l’intellettuale organico alla borghesia e l’intellettuale organico al proletariato? Il primo è, ad esempio, l’ingegnere, il manager che svolge una funzione dirigenziale nella società civile al servizio del capitale, generalmente operando per massimizzare lo sfruttamento della forza-lavoro. Al contrario l’intellettuale organico alla classi proletarie è o il proletario, generalmente autodidatta, che comincia ad assumere ruoli dirigenziale nella propria classe nel corso delle lotte, oppure, come nel caso di Gramsci – secondo il modello ideato e praticato dalla componente bolscevica del partito operaio socialdemocratico russo capeggiato da Lenin – è il rivoluzionario di professione. Quest’ultimo è l’intellettuale che, rinunciando spontaneamente per sempre a fare carriera come intellettuale organico alla borghesia o intellettuale tradizionale, si afferma come intellettuale organico al proletariato mediante la sua capacità di dare direzione consapevole alla lotta di classe condotta spontaneamente, in primis, dalla classe operaia.

Il moderno principe

Anche questo nuovo tipo di intellettuale che ha in mente Gramsci – sempre sulla scia di Lenin – non può mai ragionare od operare in modo individualistico, in quanto per definizione deve essere organico al proletariato, ovvero deve essere un’avanguardia riconosciuta almeno dalla componente più consapevole del proletariato. Inoltre, non potrà fare una tranquilla carriera come intellettuale di professione. Il nemico di classe, pur di salvaguardare i propri profitti, infatti, farà di tutto per toglierlo di mezzo o per metterlo in condizione di non nuocere. Proprio per questo l’intellettuale organico – inteso nella sua forma più alta come rivoluzionario di professione – deve avere un solo obiettivo, deve essere animato, sostiene Gramsci, da un’unica grande ambizione: la conquista del potere. Questo è l’obiettivo fondamentale, il fine ultimo dell’intellettuale organico rivoluzionario. Per realizzare questa grande ambizione c’è bisogno, evidentemente, di uno strumento adeguato.

Per comprendere tale strumento Gramsci sente il bisogno di risalire all’origine filosofica di questa decisiva questione, confrontandosi con il più grande esponente della filosofia politica italiana: Niccolò Machiavelli. Quest’ultimo è stato anche il primo a indagare scientificamente l’obiettivo che più premeva a Gramsci, ossia la questione della conquista del potere per fondare un nuovo tipo di Stato, più moderno e giusto. Gramsci, dunque, si confronta con quel capolavoro di filosofia politica, che è anche considerato il testo fondativo della scienza politica, quanto meno moderna, ovvero Il Principe.

Lo sforzo di Gramsci è naturalmente quello di ripensare nel contesto a lui attuale e, più in generale, in relazione alla Rivoluzione in occidente, quanto aveva teorizzato Machiavelli in relazione alla necessità di conquistare il potere politico nel Cinquecento per unificare il paese, liberarlo dal dominio dello straniero e farne uno Stato moderno in prospettiva repubblicano, democratico diremmo noi oggi. Proprio perciò, Gramsci intitola le sue riflessioni sul soggetto necessario a portare a termine la Rivoluzione in occidente Il moderno Principe.

Nel mondo moderno in cui, come abbiamo visto, si è sviluppata un’ampia società civile – un mondo, quindi, decisamente più complesso di quello che aveva dinanzi Machiavelli – il protagonista della conquista del potere non può più essere, come nel caso de Il Principe, un soggetto individuale, un grande condottiero, ma deve necessariamente divenire un soggetto collettivo, un partito, un collettivo politico. Questo partito o collettivo politico deve essere anche un intellettuale collettivo, in quanto deve essere in grado di elaborare, certo sulla base dei classici, una visione complessiva del mondo autonoma e antagonista a quella dominante, generalmente espressione del blocco sociale dominante. Tale obiettivo è indispensabile anche perché, in mancanza di questa visione del mondo autonoma e rivoluzionaria, non sarà nemmeno possibile formare gli intellettuali di nuovo tipo, organici al proletariato, i rivoluzionari di professione che dovranno costituire il gruppo dirigente del moderno principe.

20/04/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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