Russia on the road al Palazzo delle Esposizioni di Roma mostra come l’attuale burocrazia russa mistifica la tragedia sovietica, riproducendola come farsa. La mediocre industria culturale russa è in grado di riconoscersi solo in ciò che è morto dell’esperienza sovietica, scartando sistematicamente ciò che c’è di vivo. Così mentre l’ideologia tende a gettare via il bambino con l’acqua sporca di questo primo tentativo di transizione al socialismo, gli intellettuali organici all’attuale classe dominante russa salvano l’acqua sporca per meglio cancellare le tracce di un ingombrante bambino che in essa aveva finito per affogare.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
A forza di tagliare qualsiasi forma di investimento pubblico in cultura e formazione il nostro Paese è ormai costretto a importare quasi completamente la propria offerta culturale. Accecato da una sete di profitto immediata, non solo antitetica alla qualità dell’esperienza estetica ma anche antieconomica, tende a importare prodotti culturali stranieri di mediocre e scarsa qualità. In tal modo lo stesso gusto del pubblico, sempre più diseducato, si imbarbarisce sempre di più. Ciò consente, in una diabolica spirale, di somministrargli “eventi” artistici di valore sempre più infimo. Se, dunque, è vero che gli eventi storici tendono a ripetersi prima come tragedia, poi come farsa, se alla prima può corrispondere l’epoca berlusconiana, alla seconda va ascritta l’attuale fase post-berlusconiana.
Esemplari, a questo proposito, sono almeno due delle tre mostre esposte al Palazzo delle Esposizioni di Roma, che si conferma capitale provincialissima dal punto di vista dell’offerta culturale, a proposito della presunta giunta “marziana”. L’eccezione che conferma la regola può essere considerata la mostra Capolavori dalla Phillips Collection di Washington, che abbiamo recentemente recensito su questo giornale, in quanto è sì importata, ma è di buona qualità e finisce così per spiccare, considerata l’infima qualità delle altre.
Particolarmente deludente è la mostra Russia on the road (1920-1990), realizzata dall’Istituto dell’arte realista di Mosca. Il suo principale interesse è nel constatare quanto siano caduti in basso i russi dopo aver abbandonato la strada segnata dalla Rivoluzione d’Ottobre e come tale Paese non appaia più in grado di tenere testa ai Paesi imperialisti e, in primo luogo, agli Usa nella lotta per l’egemonia. Da questo punto di vista sono certamente mal riposte le speranze nella Russia di Putin.
Il raffronto fra la mostra importata dagli Stati Uniti e quella importata dalla Russia è impietoso. È del tutto evidente che a livello internazionale l’egemonia culturale è saldamente nelle mani degli Stati Uniti. Ciò consente di comprendere perché, nonostante la gravissima crisi economica, questo Paese continui a dominare a livello internazionale. L’attuale Russia svolge una funzione essenziale a livello globale contenendo lo strapotere militare degli Stati Uniti e dei suoi alleati europei in funzione subordinata nella Nato. Ma non appare in grado di tenere testa agli Stati Uniti né dal punto di vista economico, né dal punto di vista dell’egemonia culturale. Nel primo caso, un essenziale ostacolo all’“impero” è indubbiamente costituito dalla Repubblica Popolare Cinese, mentre dal punto di vista culturale al momento purtroppo nessuno pare in grado di mettere in discussione lo strapotere statunitense, benché quest’ultimo abbia certamente perso la spinta propulsiva e si tratti comunque di una cultura figlia della crisi del modello americano e, più in generale, capitalistico.
La prima cosa che colpisce è il titolo di una mostra che espone opere ideate e realizzate in epoca sovietica: Russia on the road. Tale titolo è indicativo del senso di una mostra che non mira affatto ad offrire una testimonianza dell’arte sovietica, né mira a fare un bilancio storico della produzione pittorica dell’Urss. Si tratta, al contrario, di un’operazione di puro e semplice saccheggio, simile a quello che fecero i primi cristiani nei confronti del grande patrimonio della cultura classica, che ha portato a valorizzare quei soli elementi che possono essere funzionali alla nuova Russia che, pure dal punto di vista culturale, è riprecipitata nella barbarie rispetto ai tempi in cui era parte dell’Urss e, per alcuni decenni, aveva messo in discussione, anche nella capacità di egemonia, lo strapotere dei Paesi imperialisti.
Ciò appare evidente dagli stessi titoli delle sezioni della mostra: si va da Treni, areoplani e automobili, a La nuova musica, da La corsa allo spazio ad Amore e macchina. Ciò che interessa ai curatori della mostra del patrimonio sovietico sono gli aspetti dello sviluppo tecnologico che hanno modernizzato il Paese al punto tale che, nonostante un quarto di secolo di imbarbarimento, la Russia è ancora una grande potenza. Certo, rispetto alla vulgata dell’ideologia occidentale che considera l’eredità sovietica un ferrovecchio ideologico assolutamente inutilizzabile e di cui liberarsi il prima possibile per non esserne infettati, anche una mostra così mediocre può produrre un sano effetto di straniamento. Chi considera con un minimo di attenzione e di cultura storica la mostra, non accecato dall’ideologia anticomunista, non può che ammirare l’eccezionale sviluppo tecnologico e scientifico in funzione del popolo di un Paese precedentemente arretratissimo. Per cui, ad esempio, vediamo avveniristici areoplani che non ci fanno paura, come quelli prodotti per perpetuare spaventose guerre di aggressione con metodi terroristici, in quanto destinati al trasporto pubblico a prezzi tendenzialmente gratuiti.
Le uniche sezioni della mostra non dedicate all’esaltazione neopositivista della tecnica moderna sono improntate al suo opposto speculare, l’esaltazione altrettanto reazionaria della natura non antropizzata (Russia selvaggia) o al tentativo di americanizzare la storia del paese (Road movie sovietico). Dunque, l’unico riferimento all’elemento più innovativo, significativo e caratteristico di questa esperienza, il soviet, è volto a una sua mistificante reinterpretazione in chiave della reazionaria cultura beat statunitense.
Ancora più impressionante è, in generale, la selezione delle opere esposte che mostra come l’attuale intellighenzia russa valorizzi soltanto gli aspetti peggiori, più retrivi e burocratici dell’esperienza sovietica. Tutta l’eccezionale produzione artistica di avanguardia, che testimonia come le opere d’arte realizzate dalla Rivoluzione d’Ottobre agli anni Trenta sono fra le più significative e progressive a livello mondiale, è totalmente cancellata, quasi non fosse mai esistita. Pure della ripresa, anche se in modo generalmente formalistico, di tale produzione, permessa dalla liberalizzazione dell’arte dall’ideologia negli anni di Krusciov, non troviamo traccia. Abbiamo, invece, una indecente esposizione delle opere improntate al più retrivo “realismo” burocratico, opere generalmente degli artisti più reazionari, conservatori e opportunisti, contro cui si erano battuti i grandi esponenti delle avanguardie sovietiche.
Assistiamo dunque al trionfo della mediocrità del conformismo e delle tendenze più retrive e burocratiche, ad un’esaltazione dei residui della vecchia cultura russa zarista che la rivoluzione non è stata in grado di spazzare via e che, anzi, ha ripreso forza quando la rivoluzione ha iniziato a divorare i proprio figli. L’esposizione è in qualche modo esemplare di cosa non debba essere l’arte realistica, ossia una mera riproduzione oleografica e piattamente celebrativa di un’esistente idealisticamente destoricizzato da cui sono espunte tutte le contraddizioni che lo fanno vivere. Abbiamo così una piatta e banalissima idealizzazione dell’esistente volta a celebrare quella progressiva burocratizzazione dello spirito rivoluzionario, che avrebbe segnato le sorti di questo primo eccezionale tentativo storico di transizione al socialismo.
Le opere esposte, quando non sono che delle brutte copie dei modelli statunitensi, opere di tardi epigoni, come nella penosa sezione Road movie sovietico, rappresentano il patetico tentativo di contrapporre all’astratto formalismo postmoderno, prodotto dell’industria culturale occidentale, un premoderno e primitivo naturalismo bozzettistico e populistico. Posto su questo piano il confronto non poteva che vedere l’affermazione anche nella guerra per l’egemonia culturale l’arte occidentale a trazione statunitense. E, a ulteriore conferma della razionalità del reale, non possiamo che lasciarci sfuggire, mettendo per un momento da parte la nostra ideologica Ostalgie, meno peggio così!
Ma, in fin dei conti, è proprio questo l’obiettivo della mostra: far credere allo spettatore che, se questa è l’alternativa al capitalismo, tanto vale tenerselo con tutte le sue contraddizioni, dimenticando che dinanzi alla sua crisi sistemica scartare l’opzione socialista significa accettare il ritorno alla barbarie come un destino. Si cancellano inoltre le pesantissime responsabilità occidentali nel fallimento dell’esperimento sovietico, tipico esempio delle profezie che si auto-avverano, imponendo un stato di assedio che ha reso impossibile operare, in una situazione già difficilissima, data la spaventosa arretratezza del Paese, un superamento dialettico della società capitalista. Senza dimenticare che l’imperialismo ha sistematicamente sostenuto ogni forma di resistenza degli elementi più arretrati dal punto di vista sociale e culturale, per rallentare al massimo lo sviluppo del Paese.
Non possiamo, in conclusione, esimerci dal tentare di fare un bilancio storico di questa parzialissima rappresentazione dell’esperienza sovietica. Da questo punto di vista, ciò che colpisce di più è il violentissimo contrasto fra l’eccezionale modernità del Paese dei soviet dal punto di vista dello sviluppo tecnologico-scientifico, sociale, dell’emancipazione della donna e della relativa emancipazione dei lavoratori manuali, e il totale appiattimento della creatività artistica costretta lungo i binari morti di una mera contrapposizione ideologica, nel senso più deteriore del termine, ai prodotti dell’industria culturale occidentale. Una pura negazione burocratica del formalismo astratto, quale espressione sovrastrutturale della società capitalista nella sua fase imperialista, incapace di superamento dialettico, non può che condurre alla riproposizione di modelli del tutto superati dal punto di vista storico e culturale. Anche perché una realtà deprivata di ogni contraddizione e riprodotta in forma retorica e auto-celebrativa dell’esistente risulta priva di qualsiasi interesse, lasciando davvero poco da pensare e rielaborare allo spettatore.