Al Palazzo delle Esposizioni di Roma è possibile ammirare alcuni dei capolavori della Phillips Collection di Washington, un’oasi di bellezza in questo mesto autunno romano. La mostra spicca soprattutto in rapporto alle altre due visitabili negli stessi spazi: decisamente modesta quella dedicata alla pittura russa del ventesimo secolo, sotto tono quella dedicata al Liberty e al design italiano dal 1900 al 1940. Colpisce in tutti e tre i casi il fatto che si tratti di mostre importate da altri Paesi.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
La pittura russa dal 1920 al 1990, il liberty e design italiano dal 1900 al 1940 e i capolavori della Phillips Collection di Washington: sono queste le tre mostre in corso al Palaexpò di Roma. Decisamente deludenti le prime due, da non perdere invece la terza che, da sola - in particolare le prime tre sale - vale il biglietto di ingresso.
La mostra presenta sessantadue opere provenienti dalla ricca collezione di arte moderna e contemporanea dello statunitense Duncan Phillips, alcune delle quali sono dei veri e propri capolavori. I dipinti esposti sono ben selezionati e organizzati, ben illustrati e illuminati, cosa, purtroppo, inusuale per Roma.
L’esposizione segue un percorso storico, dal neoclassicismo all’arte contemporanea, cui appartengono la maggior parte dei dipinti. Nella prima sala, dedicata ai capolavori del neoclassicismo, del romanticismo e del realismo francese, spicca un outsider, ovvero il Pietro penitente di El Greco che è un’opera dell’inizio del Seicento e un altro capolavoro dell’arte spagnola sullo stesso soggetto, in questo caso di Francisco Goya, realizzata tra il 1820 e il 1824.
L’opera di El Greco esprime il tema mistico della trascendenza della fede che porta l’uomo saggio a distaccarsi da la tenebra del quotidiano per rivolgere il proprio interesse alla sfera ideale dello spirito, l’unica in grado di dare senso allo stesso mondo materiale. Al contrario, nell’opera di Goya, realizzata negli anni oscuri della Restaurazione e della repressione successiva al moto rivoluzionario del 1820, la fede di Pietro si scontra con la consapevolezza della morte di dio. Il cielo spirituale è ormai privo di qualsiasi spiraglio di luce, è una cappa oscura e opprimente che si chiude sulla disperazione di un Pietro divenuto cosciente di essere umano, troppo umano.
Di fronte alla figura slanciata ed estatica del Pietro di El Greco, abbiamo il Pietro tutto materiale, popolaresco, ultra realistico rappresentato da Goya. Nel primo caso la penitenza è la strada della redenzione, è la consapevolezza della debolezza della carne da cui emerge l’esigenza di rivolgersi alla sfera universale e immortale dello spirito. Tale via di fuga è radicalmente negata al Pietro di Goya, che piange sulle vane speranze in una trascendenza che è ormai preclusa all’uomo moderno, all’uomo dell’età della morte di dio, che di lì a poco dovrà fare i conti, in un’ottica tutta materialistica, con la miseria dell’al di qua che spingeva a cercare una via di fuga nell’al di là.
Questi due capolavori sono decisamente superiori rispetto alla gran parte delle opere esposte di arte contemporanea. Ciò non è altro che la conferma della profonda crisi che vivono le arti visive, in particolare la scultura e la pittura, nell’epoca contemporanea. Se il carattere di passatezza dell’opera d’arte, ossia il fatto che non costituisca più la forma più elevata di auto-comprensione di una civiltà storica, è caratteristico dell’intera epoca moderna, ciò è particolarmente evidente per la scultura che raggiunge il suo apice già nell’età classica e poi conosce una significativa rinascita fino al Seicento, per poi entrare progressivamente in crisi. Per la pittura, che conosce il suo apice fra Quattrocento e Seicento, la crisi appare in maniera evidente a partire dall’epoca dei totalitarismi degli anni Trenta, per poi divenire esplicita negli anni Sessanta. Se vogliamo dare un senso a questa bella mostra è proprio la presa di coscienza, man mano che si visitano le varie sale, della progressiva crisi dell’arte, che nella nostra epoca diventa esplicita.
Tuttavia prima di costatare la morte dell’arte nelle ultime sale dedicate all’arte contemporanea, la mostra ci offre altri capolavori su cui poter fare una significativa esperienza estetica.
Se il confronto-scontro fra due titani, ovvero El Greco e Goya, mette decisamente in secondo piano quello evidenziato dai curatori della mostra (e ripetuto pedissequamente dalle guide) ovvero tra Ingres, massimo esponente con David del neoclassicismo francese, e Delacroix, massimo esponente del romanticismo, in quanto le opere esposte sono indubbiamente delle opere minori, notevole è invece l’opera di Manet Balletto spagnolo del 1862, periodo del passaggio dal realismo degli anni eroici della rivoluzione borghese, all’Impressionismo, epoca del suo dominio positivo.
Capolavori dell’epoca eroica e fortemente progressiva del realismo le troviamo nella seconda parte della prima stanza, dove spicca il celebre capolavoro di Daumier, forse il pezzo più significativo della collezione, La rivolta, realizzata dopo la Primavera dei popoli del 1848. L’opera segna l’apice e, dunque, al contempo la conclusione dell’epoca rivoluzionaria della borghesia, ancora alleata al proletariato per portare a compimento la conquista del potere politico in un’epoca aperta dalla Rivoluzione Francese nel 1789. Nel quadro vediamo insorgere ancora e combattere fianco a fianco borghesi e proletari, per bastonare il can che affoga, ossia l’Ancien Règime. Tuttavia, come appare evidente nel quadro, il centro della scena, nelle giornate dell’insurrezione, è ormai occupato dal proletariato, che diverrà da questo momento in poi il principale ostacolo e il nemico da battere della borghesia trionfante sul clero e l’aristocrazia. Anzi, d’ora in poi questi tre ceti sociali saranno fianco a fianco per far sì che il proletariato non occupi più il centro della scena politica, ma torni a operare in modo subalterno ai margini.
Neanche a farlo a posta a fare da pendant a La rivolta è esposto un altro importante dipinto di Daumier: Tre avvocati (1855-57), opera in cui Daumier, dal tonico ironico, passa alla satira con cui colpisce ora la borghesia divenuta classe dominante. La borghesia che si era battuta nel 1848 fra le barricate con il proletariato in nome della giustizia, ha asservito ormai quest’ultima fino a farne uno strumento di dominio e di oppressione. Questo aspetto, ovvero la funzione repressiva e conservatrice della borghesia, è tra l’altro vissuto in prima persona dal grande pittore rivoluzionario, geniale interprete della classe proletaria, giudicata “pericolosa” dalla borghesia.
Dinanzi a questi eccezionali dipinti rischiano di passare in secondo piano altre due eccellenti opere di un altro grande pittore rivoluzionario realista: Courbet, di cui si possono ammirare Rocce a Moutilier e Il mediterraneo realizzate nel 1855 e nel 1857. La grandezza e la portata rivoluzionaria del realismo pittorico di Courbet emerge in modo netto nel paragone con l’altro grande protagonista di questa stagione della pittura francese, ovvero Corot, qui rappresentato da due dipinti realizzati nel suo lungo soggiorno in Italia. La prima opera di Courbet è certamente un’opera importante perché segna il superamento del neoclassicismo non in direzione del dominante romanticismo dell’epoca della restaurazione, ma del più progressivo realismo. Nella seconda opera emerge invece, in relazione al realismo più maturo di Courbet, il limite del realismo di maniera e tendente al bozzettismo naturalistico tipico di Corot. Questa eccezionale prima sala si conclude con un ultimo significativo dipinto di Constable, realizzato negli ultimi anni di vita dell’artista (fra il 1834-37), anni in cui il grande pittore inglese è già fortemente influenzato dall’opera di colui che ne prenderà il posto come massimo pittore anglosassone dell’epoca: Turner.
Anche la seconda sala, dedicata a Impressionismo e postimpressionismo, contiene veri e propri capolavori. Spiccano fra tutti un eccellente Ballerine alla sbarra del 1900 di Degas, che segna in qualche modo il ritorno dopo l’ubriacatura positivista del post-impressionismo a un più maturo e tragico realismo, in grado di cogliere il lato oscuro dietro le splendide apparenze della Belle Epoque. Particolarmente degno di nota è l’autoritratto di Cezanne del 1878-80, che segna il raggiungimento della maturità classica di un pittore in grado di realizzare eccezionali opere realiste al di là delle mode impressioniste di allora e di oggi.
Fra le altre opere di spicco della sala si può istituire un significativo confronto fra due notevoli esempi di pittura impressionista, come La strada per Vétheuil (1879) di Monet e Neve a Louviciennes (1874) di Sisley, che ci comunicano in modo eccezionale le impressioni dei pittori davanti a un paesaggio autunnale e invernale e Casa ad Auvers, un considerevole quadro in cui Van Gogh porta a compimento la sua parabola di sviluppo in senso espressionistico dell’arte, esprimendo il tardo inverno della sua esistenza.
Fra questi due estremi vanno collocate le significative altre opere di Degas e Cezanne, Malinconia (1865-69) e Montagna San Victoire (1886-87), che ricercano un equilibrio classico fra impressionismo ed espressionismo in funzione di un maturo realismo. Rispetto a questi importanti dipinti di questi grandissimi pittori le altre opere presenti in sala, per quanto interessanti, non possono che passare in secondo piano, ad eccezione forse di Mistero di Redon (1910), opera in cui emerge la tendenza decadente e irrazionalista dell’epoca, espressa in pittura dal simbolismo, e che esprime una civiltà entrata ormai nella sua fase di crisi.
Nella terza sala, dedicata a Parigi e il cubismo, possiamo ammirare altri tre capolavori: il ritratto di Elena Pavolozky di Modigliani, una significativa opera del “giovane” Picasso ovvero La camera blu del 1901 e una del “maturo”: Tauromachia del 1934, affiancata dalla Donna con cappello verde del 1939. Notevoli sono anche le opere esposte di Gris e Bracque, importanti esempi di cubismo, di Rousseau il doganiere, e di Roualt, in cui la denuncia sociale si fonde con una profonda religiosità. Completano quest’ultima eccezionale sala valide opere di Bonnard, Utrillo e Dufy.
Tuttavia già in questa, per quanto grande, sala si avverte che siamo in una fase autunnale, per quanto ancora splendente, dell’arte pittorica; la sua potenzialità di esprimere ai massimi livelli la propria epoca storica è sempre più messa in discussione non solo dall’affermazione di una visione scientifico-filosofica del mondo, ma dall’affermazione di una nuova forma d’arte destinata a primeggiare per la sua riproducibilità, maggiore duttilità e disponibilità di strumenti espressivi, ovvero il cinema.
La sala IV segna già la crisi dell’arte in generale, dell’arte borghese e della pittura in particolare. È intitolata Intimismo e modernismo ed è caratterizzata da una esplicita abdicazione dinanzi alla missione di rappresentare la propria epoca, le grandi questioni sostanziali e universali, in funzione di un ripiegamento soggettivistico ed esistenzialistico segnato dal decadentismo. Nella sala spiccano tre opere significative di Bonnard e tre tarde opere di Morandi, Matisse e Bracque.
Piuttosto povera, rispetto alle precedenti, appare la quinta sala dedicata a L’espressionismo e la natura, in cui spicca un notevole Kandisky del 1912, che coglie lo sviluppo della sua pittura nel momento decisivo del passaggio dallo stile figurativo alla realizzazione delle prime opere astratte. Da ricordare, anche se di un tono minore, Il fagiano di Soutine e Ultimo bagliore di Roualt.
La sesta sala, dedicata all’espressionismo astratto, segna una decisa caduta nella qualità delle opere esposte, anche perché sono ormai espressione di un’epoca di profonda crisi della pittura. La sala è dedicata ad alcuni dei più significativi pittori statunitensi del secondo dopoguerra ovvero Pollock, Rothko, Morris e De Stäel. Al di là del fatto che le opere esposte non siano nemmeno fra le più rappresentative di questi autori, in particolare per quanto concerne il più significativo di loro cioè Pollock, le opere sono tutte caratterizzate da una linea astrattista programmaticamente, anzi in diversi casi ideologicamente, anti realista. Si tratta, dunque, di opere troppo segnate dalla Guerra Fredda e dalla contrapposizione a un realismo sempre più burocratizzato nei Paesi “socialisti”, che non sembrano nemmeno più provare a confrontarsi con la propria epoca storica. Anzi, in diversi casi, sembrano non avere più molto da comunicare, se non a un pubblico decisamente ristretto in grado di cogliervi qualcosa di significativo, e soprattutto di provocare un significativo godimento estetico. L’impressione è che sia iniziata, almeno per la tendenza dominante della pittura contemporanea, una fase di restaurazione in cui, dopo un processo secolare di democratizzazione dell’arte e della sua fruizione, si sta tornando a un concezione neoaristocratica ed elitaria della pittura.