Il film muove da un evento storico, il rapimento a Roma nel 1973 del nipote dell’uomo al tempo più ricco del mondo, un petroliere che aveva fatto le proprie “fortune” grazie agli accordi con dei predoni beduini imposti come possessori privati e tirannici del paese, in cambio della possibilità offerta alle multinazionali occidentali di sfruttarne il petrolio. L’evento di cronaca è passato alla storia per la assoluta disumanità del miliardario petroliere che, in un primo momento, si rifiuta di sborsare un solo dollaro per la liberazione del nipote. Solo dopo che i rapitori inviarono l’orecchio del nipote al Messaggero, in seguito alla fortissima pressione dell’opinione pubblica internazionale, anche per coprire il fatto che il petroliere stava arricchendosi enormemente – sfruttando l’aumento del pezzo del petrolio imposto dall’Opec in reazione all’appoggio occidentale agli israeliani nella quarta guerra che li contrapponeva agli arabi – ai danni del proletariato occidentale costretto a rinunciare anche alle automobili utilitarie che produceva, si decide ad aprire una trattativa. Anche in tal caso, però, in modo spaventosamente cinico il plurimiliardario si dichiara disponibile a pagare solo una piccola parte del riscatto richiesto dai rapitori, ovvero esclusivamente la parte che può dedurre dalle tasse. Il surreale contrasto con i rapitori che minacciano di uccidere il giovane nipote rapito, al tempo sedicenne, troverà una soluzione solo quando il padre del ragazzo si dirà disponibile a offrire la differenza pretesa dalla ndrangheta, prestatagli dal padre petroliere con un interesse del 4% annuo. Dunque la disgustosa spietatezza del miliardario, nonostante sia sotto i riflettori dell’opinione pubblica internazionale, lo porta non solo a non esitare a mettere a rischio la vita del nipote, ma a considerare lo stesso riscatto come un investimento su cui speculare ai danni dello stesso figlio, oltre che dello sfortunato nipote.
Tale fatto di cronaca è divenuto storico anche perché avvenuto in un’epoca e, in particolare, in un paese, in cui la lotta di classe non era condotta quasi esclusivamente dall’alto dal ceto sociale dominante, al contrario di quanto avviene oggi. Al punto che non solo la madre del rapito, ma la stessa magistratura inquirente suppone in un primo momento che il rapimento sia – in un paese in cui, come ha osservato il regista Ridley Scott, rapire un miliardario era di moda – una messa in scena ordita dallo stesso giovane. Anzi, vista la sua vicinanza alla sinistra rivoluzionaria del tempo, si arriva a supporre che tale presunta messa in scena fosse una sorta di esproprio proletario, nei confronti di un miliardario petroliere e speculatore per finanziare la lotta di classe condotta dal basso dai ceti sociali subalterni.
Aver deciso di mettere in scena un evento del genere, sulla base di una sceneggiatura finita nella Black List delle migliori sceneggiature non prodotte e ispirata al libro di denuncia Painfully Rich: The Outrageous Fortune and Misfortunes of the Heirs of J. Paul Getty, è certamente un meritorio atto di coraggio. In particolare oggi, in un’epoca in cui miliardari sono eletti, per il solo fatto di esserlo, presidenti nonostante la loro attitudine e i loro progetti spudoratamente criminosi. Purtroppo per noi tale film è stato prodotto e, per altro, distribuito in tutto il mondo da un’importante casa di distribuzione statunitense, mentre in Italia non solo nessuno ha pensato di riprendere oggi tale evento storico dimenticato, ma il film è stato vergognosamente stroncato dalla “critica”, preoccupata che si potesse mettere in questione il mantra del pensiero unico dominante per cui essere miliardario è bello a prescindere non solo del modo in cui lo si è divenuto, ma delle spaventose azioni che si continuano a commettere per difendere i propri irrazionali privilegi.
Tanto più che il ruolo del disumano speculatore è stato magistralmente interpretato da Christopher Plummer che ne ha fatto emergere, con un sapiente uso del brechtiano effetto di straniamento, il mostruoso cinismo. Nonostante che l’attore sia stato costretto a interpretare la sua parte in tempi strettissimi, dopo che l’uscita del film era stata bloccata, in fase di post produzione, per lo scandalo che aveva travolto il precedente interprete Kevin Spacey per gli abusi sessuali e le attitudini pedofile. Il regista Ridley Scott si è giustificato per la contraddittoria scelta di rigirare all’ultimo momento le scene che coinvolgevano l’effettivo protagonista negativo del film, sostenendo che in realtà il ruolo sarebbe dovuto essere interpretato sin dall’inizio da Plummer poi sostituito dalla allora star Spacey su pressione della produzione. Tale evento resta controverso in quanto da un lato non può che essere giudicato positivamente, in quanto prodotto dal coraggioso movimento di lotta contro gli abusi sessuali Me too, che ha permesso di denunciare la prassi nel mondo dello spettacolo di sfruttare anche dal punto di vista sessuale i lavoratori più deboli; dall’altro non può che lasciare un legittimo dubbio il fatto che tale scandalo abbia finito per travolgere principalmente proprio quella Hollywood “democratica” che si era opposta all’elezione a presidente di un miliardario che, tra l’altro, non si era vergognato di ostentare la propria aggressività sessuale nei confronti di donne che si trovavano in uno stato di oggettiva subalternità nei suoi confronti. Un po’ come l’antipolitica campagna che in Italia ha giustamente colpito i privilegi di una casta politica inetta e generalmente al soldo della classe dominante, senza però estendersi ai ben più spaventosi, ingiusti e irrazionali privilegi di cui gode quest’ultima. In tal modo la sacrosanta indignazione nei riguardi del ceto politico della Seconda repubblica, come gli scandali che avevano travolto il gruppo dirigente di governo della Prima repubblica, non solo non ha messo in questione la classe dominante che se era servita per difendere i proprio ingiustificabili privilegi, ma ha finito addirittura per rafforzare la deriva oligarchica, consentendo a miliardari di poter rivendicare impunemente il controllo diretto, non solo dal punto di vista economico e sociale, ma anche politico del paese.
Un altro aspetto significativo è la raffigurazione dei banditi che rapiscono il giovane e che non sono ridotti, unilateralmente, a puri criminali, come tende a fare il pensiero intellettualistico e astratto oggi dominante. Anzi il film in primis ci offre una prospettiva straniante del rapimento dal loro punto di vista, essenzialmente proprio di sottoproletari. In tal modo si colgono anche le radici sociali, al di là delle pur innegabili responsabilità individuali, in cui si produce questa tipologia di azione criminosa. Inoltre non rappresentano il puro male, innanzitutto sono diversi fra di loro e, poi, lo stesso carceriere finisce con l’affezionarsi al rapito. Resta sì un criminale in quanto carceriere, ma questo non lo porta alla disumanizzazione, anzi spesso i suoi lati umani ed etici risaltano per contrasto con l’assoluta disumanità e spietatezza del miliardario. Anche quest’ultimo, del resto, per quanto resti certamente il più cinico e spietato, non è rappresentato astrattamente come l’incarnazione del puro male. La sua personalità resta comunque piuttosto dialettica, se ne coglie anche la tragedia interiore. Ciò non toglie che, con un rovesciamento significativo del comune modo di vedere – in realtà prodotto dell’ideologia dominante – il piccolo criminale, che è costretto a usare ancora la violenza delle armi per farsi strada, non è nulla rispetto al grande criminale che utilizza la potenza del denaro, del capitale. Da questo punto di vista è significativo anche il modo di rappresentare l’ex agente della CIA, che non ha più nulla a che vedere con il classico stereotipo dello James Bond, ma è un disincantato freddo calcolatore che non utilizza più la forza delle armi, ma quella del denaro che consente di comprare tutto, a partire dalle persone.
Anche la rozzezza del piccolo criminale, del bandito, realisticamente riprodotta, non è utilizzata per mostrare la sua inferiorità antropologica rispetto al ricco e raffinatissimo collezionista di arte. Anzi diviene, giustamente, una parziale giustificazione dei suoi comportamenti disumani e consente di mettere ancora più in luce la spietata, cinica e molto più consapevole e, quindi, più colpevole disumanità del miliardario.
Significativa anche la rappresentazione degli apparati repressivi dello Stato italiano, non affatto idealizzati come avviene generalmente nei prodotti dell’industria culturale. Anzi se ne mette in evidenza chiaramente il classismo e la cecità ideologica che li porta, ad esempio, a non comprendere le cause reali del delitto – da ricercare nella malavita organizzata e più in profondità nella tragica storia e condizione economica e sociale del sud – in quanto accecati dall’odio per i comunisti tanto da ipotizzare un del tutto improbabile coinvolgimento delle brigate rosse che rappresenta, nei fatti, un depistaggio delle indagini. Infine significativa è anche la brutalità con cui reprimono i piccoli criminali autori materiali del delitto – al solito gli unici che anche nella realtà hanno pagato per le loro azioni delittuose – che vengono repressi con la stessa disumanizzazione con cui sono trattate le insorgenze dei popoli coloniali.
Una volta evidenziati tutti questi aspetti progressisti del film – che al solito la “critica” cinematografica ultra-crociana e programmaticamente anti-marxista dei cinefili italiani non è stata in grado di cogliere, essendosi formata unicamente sui prodotti dell’industria culturale e incapace di una comprensione critica del reale-razionale – per non cadere in una opposta, ma identica unilateralità dobbiamo evidenziare anche i limiti del film. Quest’ultimo resta, nonostante gli elementi progressisti, una merce dell’industria culturale che ha come fine ultimo non di far emergere le contraddizioni dell’esistente, ma di giustificarle facendole apparire come causate da mele marce, eliminate le quali gli attuali rapporti di produzione e di proprietà potrebbero avere addirittura degli obiettivi umanitari.
Abbiamo così tutti degli interventi del film che stravolgono la storia reale, per giustificarla ideologicamente, naturalizzandolo l’ormai irrazionale modo di produzione dominante. Ciò appare nel modo più sfacciato, come di consueto, nella conclusione da commedia hollywoodiana in cui tutte le contraddizioni emerse si ricompongono e, invece di mettere in discussione l’esistente, finiscono con il rafforzarlo. Ecco che il capitalista cattivo, irrealisticamente e inverosimilmente lo si fra morire in preda ai sensi di colpa, occultando che in realtà non solo non era morto, ma era riuscito addirittura a speculare sulla pelle del nipote ai danni dello stesso figlio. Inoltre, altrettanto irrealisticamente, si fa credere che abbia lasciato tutto il suo patrimonio ai nipoti, in primo luogo al rapito, che nella realtà è finito diseredato. Anche quest’ultimo, che nel film sembra infine vivere felice e contento gestendo in modo umanitario, da filantropo l’impero economico del nonno, ha avuto in realtà un ictus che lo porterà prima in uno stato vegetativo e poi alla morte per una overdose di droghe. Anche la figura del padre viene stravolta, la sua scelta di protesta di abbandonare la gestione dell’impero finanziario del genitore, per condurre una vita da hippy condivisa, al contrario di quanto si vede nel film, con la moglie, viene criminalizzata e equiparata alla tossicodipendenza.
Infine, oltre alla creazione di figure del tutto idealistiche e antidialettiche – le vittime in quanto tali mondate da ogni male della madre e del giovane figlio – abbiamo l’invenzione di sana pianta dell’ex agente della CIA e general manager della grande multinazionale che, del tutto inverosimilmente, si converte sulla via di Damasco sino a divenire il classico esempio di eroe hollywoodiano del tutto disinteressato.