Escobar - Il Fascino Del Male

Un ottimo prodotto dell’industria culturale, che consente di svelarne esemplarmente la grandezza e i limiti.


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Il film cerca di ricostruire la figura criminale del trafficante di droga colombiano Pablo Escobar dal punto di vista di una delle sue amanti, giornalista televisiva. Si tratta, dunque, di un punto di vista piuttosto particolare e alquanto di parte. Nonostante ciò il regista spagnolo Fernando León de Aranoa e i due protagonisti, ottimamente interpretati da attori d’eccezione come Penélope Cruz e Javier Bardem, riescono a evitare i più temibili rischi connessi alla narrazione delle gesta di “grandi” criminali, ovvero l’effetto di immedesimazione dello spettatore. Da questo punto di vista il film è decisamente migliore sia del Padrino, che non solo tratta della mafia statunitense dal punto di vista di quest’ultima, ma fa interpretare i capobanda da grandi attori statunitensi come Marlon Brando, Al Pacino e Robert De Niro tutti e tre acritici discepoli del metodo Stanislavskij, che porta l’attore a immedesimarsi completamente nel personaggio che interpreta, inducendo in tal modo lo spettatore a fare lo stesso. Tale imperdonabile difetto è presente anche nelle opere italiane che trattano delle malefatte della Banda della Magliana e che portano lo spettatore a parteggiare per degli spaventosi criminali, per altro dando un’aura epica alle loro gesta, nonostante si sia trattato, di un gruppo di criminali di serie B, tanto da essere facilmente strumentalizzati tanto dai servizi segreti quanto dalla mafia.

Nel film su Escobar tale temibile rischio è in buona parte attenuato dal fatto che la figura nel narcos colombiano ci è narrata dal punto di vista di una delle sue innumerevoli amanti che lo ha tradito e che naturalmente fa di tutto per occultare il suo ruolo di connivente e, dunque, complice. Inoltre proprio in quanto amante del criminale ce ne narra le malefatte non solo da un punto di vista giornalistico, ma anche dal punto di vista del cameriere. Se tale prospettiva quando è utilizzata per narrare le gesta dei grandi personaggi storici universali è estremamente negativa, in quanto mette in evidenza proprio quei lati particolaristici che non hanno nessun rilievo storico e universale, come ampiamente mostrato da G.W.F. Hegel, può invece tornare utile per presentare, proprio nella propria meschinità particolaristica e individualistica, dei criminali a torto spesso presentati, dai mass media, come dei “grandi”, dei veri e propri geni, per quanto del male. Tanto più che la fascinazione per il bandito, il ladro e il rapinatore sono un tratto caratteristico della coscienza piccolo borghese, in quanto incarna il ribellismo astratto, individualistico del piccolo borghese che crede in tal modo di ovviare, grazie al crimine, alle strutturali e oggettive contraddizioni e ingiustizie proprio del mondo capitalistico grande borghese.

Per altro la stessa parabola di Escobar è animata dalla stessa ingenua distopia, per cui l’individuo pur partendo dal basso, eccellendo in quelle doti criminose che praticano del resto costantemente coloro che sono in alto, possa scalare rapidamente la piramide sociale accumulando ricchezze e confidando nel fatto che pecunia non olet. È certamente questa meschina ambizione particolaristica, ossia arricchirsi nel minor tempo possibile – utilizzando tutti i mezzi necessari – a costituire l’aspetto affascinante del narcos agli occhi della giornalista televisiva piccolo borghese. D’altra parte quest’ultima si schiera con il criminale sino a che ha successo, credendo che utilizzando il proprio fascino femminile potrà farne uno strumento della propria volontà di potenza. Evidentemente tale ingenua e meschina piccola ambizione non può che essere fallimentare, come il patto stipulato da Faust con Mefistofele. La prospettiva di poter far successo del piccolo criminale, utilizzando gli stessi mezzi cinici e spietati del grande criminale – ritenendo che vendendo la propria anima al diavolo si potrà conseguire la propria realizzazione personale sino a entrare nel Gotha del grande crimine che detiene il potere – oltre a essere meschina è anche ingenua. Così come la giornalista crede di poter sfruttare Escobar per il proprio successo, ma finisce per essere costantemente strumentalizzata dal narcos, allo stesso modo quest’ultimo tenta vanamente di essere accolto, utilizzando gli stessi metodi cinici e spietati, nella élite dominante nel paese. Il suo tentativo di sfruttare l’insaziabile volontà di potenza della classe dirigente per il proprio distopico progetto di realizzazione individualistica si rivela altrettanto ingenuo e meschino di quello della giornalista. Infatti è sempre il pesce piccolo che finisce, nonostante le sue velleità da mosca cocchiera, per essere strumentalizzato dal pesce grande. È infatti quest’ultimo a detenere il potere reale e a sfruttare in realtà ai propri scopi la volontà del piccolo criminale che si illude di poterlo strumentalizzare, salvo poi scaricarlo e farne il capro espiatorio nel momento che non gli è più funzionale. Del resto è lo sguardo miope del piccolo borghese arrivista a fargli scambiare quello che appare come il grande criminale per quello che lo è realmente, dimenticando che, come insegnava Brecht, il vero grande criminale è chi fonda una banca, piuttosto che chi cerca di svaligiarla.

Per rimanere alla lezione di Brecht, in questo caso al geniale Teste rotonde e teste a punta, tale meschina e velleitaria parabola, necessariamente perdente, del piccolo borghese è rappresentata esemplarmente dal fascista, che mira a una individualistica ascesa sociale, vendendosi l’anima al grande capitale, credendo ingenuamente di poterlo strumentalizzare ai propri meschini fini. In realtà avviene sempre il contrario, ossia è il grande capitale che utilizza ai propri loschi fini – il mantenimento dei propri irrazionali privilegi – la manovalanza fascista piccolo borghese, per fare il lavoro sporco, salvo scaricarla nel momento in cui non gli è più utile o si è sporcata troppo le mani, facendone il capro espiatorio anche dei propri grandi crimini. Lo stesso avviene con la giornalista televisiva che mira a far carriera credendo di incantare con il proprio fascino femminile il grande narcotrafficante, scoprendo in realtà di essere da quest’ultimo strumentalizzata ai propri criminosi fini, salvo poi scaricarla quando non gli è più necessaria. Inoltre la sua pretesa di far carriera vendendosi al narcotrafficante si rivela non sono meschina, ma ingenua, tanto che nel momento in cui il preteso grande criminale su cui ha puntato tutto si rivela piccolo – nel momento in cui entra in collisione con i reali grandi criminali che detengono il potere – viene licenziata su due piedi e sostituita da un’altra presentatrice televisiva che si è venduta a chi ha realmente le redini del potere.

Discorso analogo vale per la fallimentare parabola di Escobar. Il suo successo è dovuto all’essersi venduto l’anima al demone del potere. La sua stella brilla sino a quando è funzionale a quest’ultimo, egemonizzando il sottoproletariato dei ghetti, inondando di droga i ghetti statunitensi, o finanziando con i soldi sporchi della droga la rielezione della classe dirigente politica al servizio della classe dominante economica. Nel momento in cui perde il senso della realtà e, preso dal suo delirio di onnipotenza, dimentica di essere lui ad aver venduto l’anima a Mefistofele, illudendosi di poterlo strumentalizzare per le proprie meschine aspirazioni, Escobar viene scaricato, schiacciato senza pietà e utilizzato come capro espiatorio dei grandi crimini tanto dei potenti statunitensi quanto dei potenti colombiani. Discorso analogo vale per quando questi ultimi che credono di poter strumentalizzare ai proprio scopi i più potenti pescecani statunitensi, finendo in tal modo per divenire inconsapevolmente i loro cani da guardia.

Il film ha inoltre l’indubbio merito di far emergere come in realtà gli apparentemente grandi criminali – come la giornalista di successo vendutasi ai narcotrafficanti e lo stesso più noto esponente di questi ultimi – non siano altro che dei meschini, vanesi e, ciò che è peggio, velleitari arrampicatori sociali. Come insegna ancora Brecht – ne La resistibile ascesa di Arturo Hui – i boss della malavita, come i dittatori fascisti sono solo apparentemente dei “grandi” criminali, non solo in quanto mossi da piccole ambizioni – come la mera volontà di potenza individualistica – ma in quanto la loro grandezza appare tale solo sino a quando fa comodo a chi realmente gestisce il potere.

Per quanto riguarda il sacrosanto ridimensionamento del boss del narcotraffico Escobar – mostruosamente sovradimensionato da una celebre serie televisiva che lo ha nei fatti presentato come un modello da seguire per i piccolo borghesi e i sottoproletari – è efficace sia lo sguardo straniante che ne dà l’amante tradita e traditrice giornalista e la prospettiva del cameriere di cui si serve per farne emergere anche le meschinità quotidiane, sia la lodevole interpretazione di Bardem che, al contrario dei suoi meschini e assurdamente sopravvalutati colleghi statunitensi, non si impersona criminosamente nel narcotrafficante che interpreta, ma mantiene un sacrosanto distacco critico, un brechtiano effetto di straniamento che gli consente di far emergere buona parte della bassezza e velleitaria meschinità del personaggio che è costretto a incarnare.

Allo stesso modo lodevole è l’interpretazione che Penélope Cruz ci dà della giornalista televisiva, non solo perché rappresenta tutta la bassezza meschinità del tipico giornalista dei mezzi di comunicazione di massa che, mosso esclusivamente dalla propria volontà di potenza, è sempre pronto a svendersi al potente di turno, ma perché è in grado di mostrare da un punto di vista critico e straniante lo stesso personaggio chiave che svolge la funzione di narratore onnisciente. Grazie al brechtiano effetto di straniamento Cruz ci mostra tutta la bassezza morale e le meschine aspirazioni del personaggio che interpreta, nel modo più realistico, ma mostra anche tutta la volgarità di questa apparente femme fatale, che in realtà non può che divenire la musa di un altrettanto squallido narcotrafficante. Se già non è, incredibilmente, affatto scontato che un prodotto dell’industria culturale mostri il lato oscuro, bieco e squallido di un boss della malavita organizzata, ancora più raro è che si mostri realisticamente un tipico esponente della disinformazione di massa, ossia un giornalista televisivo di successo.

Al di là di questi meriti, inattesi, che spiegano perché il film sia stato, al solito, stroncato dai critici cinematografici cinefili, sempre più realisti del re, non ci resta che spiegare perché abbiamo definito il film un prodotto dell’industria culturale. Nel film si mostra, come abbiamo visto, in modo molto efficace il male del mondo, ma manca come in tutti i prodotti dell’industria culturale una prospettiva, una reale e credibile alternativa. In tal modo si finisce per naturalizzare il male che si finge di denunciare, cassando dalla tragedia il suo aspetto decisivo, la catarsi che consente di superare le terribili azioni che sono messe in scena. La morale del film è che viviamo, secondo il noto adagio del più grande filosofo reazionario, Nietzsche, in un mondo animato esclusivamente dalla individualistica volontà di potenza. L’unica legge, l’unica logica presente in questo universo animato dalla più spietata lotta per la sopravvivenza, è il darwinismo sociale, ovvero l’immorale etica per cui la sopravvivenza del più forte e più spietato a danno dei più deboli contribuisca all’evoluzione della specie. Per cui, paradossalmente, il personaggio più “positivo” del film è il poliziotto statunitense semplicemente perché, in questo mondo animato da una violentissima lotta per la sopravvivenza fra piccoli e grandi criminali, si è posto al sevizio del criminale più potente: l’imperialismo statunitense.

25/08/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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