In un’opera di pura evasione, denuncia Brecht, lo spettatore non è trasportato nel nulla di un mondo straniero, ma in un mondo distorto e quelle deviazioni, che a lui sembrano semplici evasioni, le paga poi nella vita reale. Il fatto di immedesimarsi nel proprio nemico di classe non è qualcosa che passi senza lasciare traccia. In tal modo lo spettatore rischia di divenire il nemico di se stesso. Il surrogato soddisfa il suo bisogno e avvelena il suo corpo [1].
Come nel teatro orientale, l’attore secondo Brecht non si doveva più trasformare interamente nel personaggio interpretato ma, al contrario, doveva considerarlo come appartenente al passato, lo doveva poter citare, mostrare e anche, all’occasione, criticare [2]. Allo stesso modo, l’azione doveva essere rappresentata nella sua processualità, ma anche come propria di un tempo, di uno spazio e di una società ben definiti. In questo modo, grazie all’effetto di straniamento, il pubblico poteva liberarsi da quel fascino ammaliante che lo passivizzava e lo “massificava” al livello psicologico, inducendolo ad assumere un atteggiamento fatalistico di fronte al destino rappresentato. Lo spettatore poteva, ora, liberarsi dall’assoluta e meccanica consequenzialità logica dell’azione e poteva figurarsi uno svolgersi diverso degli avvenimenti presentati sulla scena. Questi ultimi, che erano abitualmente considerati come naturali dal pubblico, erano ora guardati con sospetto, perdevano la loro assoluta necessità e lo spettatore era indotto a indagare le possibili cause che li determinavano.
Come osserva Brecht nel suo diario: “è la tecnica dell’illusione e delle suggestioni a rendere impossibile l’atteggiamento critico del pubblico. I grandi avvenimenti sono portati in scena solo se contenessero qualche vicenda privata che inchiodi lo spettatore mentre si tratterebbe di liberarlo” [3]. Al contrario, nel dramma tradizionale “il pubblico è trascinato entro «l’intreccio» è indotto a identificarsi con i personaggi; i mezzi con cui questa identificazione viene raggiunta sono falsificazioni della realtà; e lo spettatore è troppo contento di essere ipnotizzato per rendersene conto. Per quanto brillante sia uno spettacolo, il suo effetto (se non il suo obiettivo) è di suscitare un atteggiamento acritico” [4].
Al contrario, la funzione dell’opera d’arte per Brecht è di rendere intelligibile il mondo fenomenico attraverso il processo della sua messa in forma consentendo, così, allo spettatore di far proprio quell’atteggiamento scettico che permette di ricercare all’interno degli stessi fenomeni le regole che in essi si dispiegano e li caratterizzano. Compito dell’effetto di straniamento è, quindi, trasmettere allo spettatore l’atteggiamento scettico che sta alla base della ricerca scientifica, del dubbio cartesiano, della necessità della verifica galileiana , che permette di trovare sorprendente anche ciò che appare naturale.
Il distanziamento straniante non consentiva all’attore nessuna sensibilità affettata, ma esigeva dei gesti semplici, una dizione chiara e fredda, che rendesse lo stile oggettivo, “epico”, in grado di garantire una fruizione riflessiva da parte del pubblico. Questa però, come si evince da un’annotazione del diario del 1941, deve essere al contempo eminentemente emozionale. L’effetto di straniamento non si oppone ai sentimenti, in quanto non permette di far coincidere le emozioni del personaggio con quelle dello spettatore, ma porta ad un’emozione di carattere superiore, appunto purificata grazie all’intervento della ragione.
Nelle intenzioni di Brecht la teoria dello straniamento avrebbe dovuto consentire di riconnettere sentimento e ragione nell’inseparabile unità contraddittoria costituita dall’opera. Per mezzo dello straniamento sarebbe stato possibile, infatti, sopprimere tanto le false emozioni quanto i falsi pensieri [5].
Mostrando il risvolto inedito di una realtà usurata dalla consuetudine, lo straniamento permette di filtrare alla luce della ragione i sentimenti suscitati nell’uomo dalla sua esperienza del mondo fenomenico. Lo stesso elemento critico-razionale doveva fondarsi, infatti, sul sentimento [6]. Anche per il ricercato connubio di sentenzioso e giocoso è di importanza fondamentale proprio l’effetto di straniamento. Come ha osservato Brecht nel suo diario: “con l’effetto di straniamento il teatro non perde, ma rinnova il suo fine di insegnare e divertire. La rappresentazione torna ad essere naturale ed in essa si possono ritrovare gli stili più diversi. Solo l’occuparsi della realtà pone in funzione la fantasia in modo adeguato e piacevole. Nella critica creativa gaiezza e serietà prendono nuovo vigore” [7]. Brecht sottolinea che l’effetto di straniamento “consiste nel riprodurre la vita reale sulla scena in modo che la sua causalità interessi lo spettatore. Le emozioni sono provocate dalla possibilità fornita allo spettatore dalle rappresentazioni di dominare la realtà” [8]. Il divertimento che produce l’arte non deve rappresentare, infatti, un divergere dai problemi concreti, quanto la possibilità di vederli sotto una nuova luce attraverso lo straniamento, di modo che si presentino come sorprendenti e possano suscitare nuovo interesse.
La rottura straniante, interrompendo il corso lineare dell’azione, costituisce, così, uno strumento essenziale per svelare il reale celato dietro lo svolgersi abituale degli avvenimenti. Lo stupore dato dallo straniamento permette di arginare l’eterno fluire delle cose, consentendo allo spettatore di assumere quel punto di vista sopraelevato da cui è possibile regolare il disordinato e inarrestabile divenire dell’empiria. Solo così quella quotidianità, che contraddistingue la percezione fenomenica delle forme sociali, può essere rivelata al pubblico nella sua radicale “estraneità”. La rappresentazione straniata permette, allora, di distruggere la pseudo-concretezza della quotidiana realtà estraniata. Una realtà che non può più essere semplicemente rappresentata o semplicemente rispecchiata, ma deve essere presentata criticamente, deve esser resa accessibile al “pensiero intervenente” del nuovo pubblico. Ciò, tuttavia, non significa dover rappresentare il mondo “così come dovrebbe essere”, nel modo più verosimile possibile, per non rompere l’illusione scenica, come faceva certo teatro “illusionistico” dell’epoca. Il mondo, al contrario, deve essere rappresentato così “come è”, cioè con tutte le contraddizioni che lo tormentano. Il sorprendente, prodotto dall’effetto di straniamento, permette, infatti, di mettere maggiormente in evidenza proprio le contraddizioni che muovono il reale. Ciò consente all’arte di rappresentare per il godimento dei produttori anche l’elemento asociale, nella sua vitalità e grandezza, ma in modo critico. Tutte le scissioni, le rotture e le contraddizioni della società possono essere rappresentate e produrre godimento se si è in grado di ricomprenderle, di dominarle, di farle proprie.
È proprio questa intima relazione contraddittoria tra una spinta morale filtrata dal marxismo e la necessaria presa di distanza dell’“uomo che dubita” a impedire alla nascita ogni tentativo di chiudere dogmaticamente in un rigido sistema la riflessione brechtiana. La stessa scelta dialettica di Brecht è, infatti, hegelianamente figlia dello scetticismo; uno scetticismo che lo spinge a una continua rimessa in questione della propria esperienza artistica.
Del resto, costante è in Brecht il netto rifiuto di ogni filosofia meramente speculativa. Decisivi sono per lui il concetto di pensiero sperimentale ed il richiamo all’esperienza per poter discernere quali aspetti della teoria siano da sviluppare e quali da abbandonare. Egli ritiene che la stessa nozione di dialettica venga spesso a coincidere con quella di un pensiero sperimentale in grado di rimettere sempre in questione le conoscenze acquisite, che rischiano, altrimenti, di ipostatizzarsi in assiomi. Brecht si oppone, di conseguenza, a “la costruzione di immagini del mondo troppo complete” [9], in quanto esige che sia sempre pensata una relazione concreta di utilità.
Centrale per il concetto brechtiano di storia diviene, infatti, la critica al dogma dei fatti oggettivi, mediante il quale, escludendo a priori ogni diverso svolgersi degli eventi, viene del tutto deresponsabilizzato il singolo e privato della possibilità di compiere una scelta etica. Va, invece, recuperato al fatto storico il suo carattere di evento, attraverso il carattere di evento che possiede l’opera. Inserito in questa, il fatto storico recupera la sua originaria apertura all’orizzonte del senso. Ora il compito della costituzione del senso, “che l’azione - come azione della storia o della letteratura che rappresenta la storia – non assolve più” [10], viene affidato allo spettatore. Certo, a tali questioni non risolte dall’azione scenica lo spettatore non può rispondere arbitrariamente. L’autore mantiene, infatti, un certo controllo sulla sua opera suggerendo al pubblico, attraverso l’atteggiamento dei personaggi di fronte all’azione scenica, una serie di possibili varianti risolutive. Il giudizio dello spettatore, però, non è più limitato alla scelta tra le posizioni sostenute dalle diverse dramatis personae; deve, invece, derivare dal confronto critico e dalla possibilità di mediare tra queste diverse e spesso opposte posizioni.
Il pieno sviluppo della teoria dello “straniamento” ha costituito un momento decisivo per la soluzione di quel dualismo tra scienza e morale, che aveva caratterizzato l’intera prima fase dell’opera di Brecht. La teoria dello straniamento può essere, allora, considerata il più cosciente momento di unificazione della riflessione brechtiana sull’arte, su cui si svilupperà gran parte della sua matura produzione drammatica. In essa troveranno il più alto punto di unità molti degli elementi già incontrati nelle fasi precedenti, quali: il rifiuto scettico di fronte alle pretese del dato, dell’immediato; la ricerca di un punto di vista distaccato nei confronti del “reale”, che ne garantisca una resa artistica fredda, spassionata, “epica”; l’impeto etico-politico a un radicale rivolgimento dell’esistente in nome dell’imprescindibile libertà dell’umanità nei suoi confronti; la tragica ironia rivolta a ogni pretesa risoluzione definitiva della frattura tra piano dell’ideale e “indifferenza” della natura.
Note:
[1] Cfr. B. Brecht, Diario di Lavoro, tr. it. di B. Zagari, Einaudi, Torino 1976, 2/8/1940.
[2] Cfr., Ivi, 3/8/1940.
[3] Ivi, 17/10/1940.
[4] J. Willet, Bertolt Brecht e il suo teatro, tr.it. di E. Capriolo, Lerici, Milano 1961, p. 238.
[5] Cfr. Id., Gesammelte Werke, Suhrkamp in collaborazione con E. Hauptmann, Frankfurt a. M. 1967, vol. 15, p. 312, vol. 16, p. 716 e Id., Diario…, op. cit., 15/11/1940 e 17/10/1947.
[6] Cfr. Id., Diario…, op. cit., 4/3/1941 e Id., Gesammelte Werke, op- cit., vol. 16, p. 624.
[7] Id., Diario…, op. cit., 3/8/1940.
[8] Ivi, 2/8/1940.
[9] (GW, Id., Gesammelte Werke, op- cit., vol. 12, p. 463.
[10] H. Turk, “Wirkungsästhetik: Aristoteles, Lessing, Schiller, Brecht. Theorie und praxis einer politischen Hermeneutik”, in Jahrbuch der Deutschen Schillergesellschaft, Alfred Kröner Verlag, Stuttgart 1973, p. 521.