Bertolt Brecht ha teorizzato il cosiddetto “effetto di straniamento”, la cui funzione è di indurre a un radicale scetticismo nei confronti di tutto ciò che è dato, noto, necessario, sì da rendere possibile una comprensione in grado di rompere la percezione superficiale del reale. All’interno dell’opera d’arte ogni aspetto del mondo fenomenico deve essere presentato in una dimensione “straniata” che consenta di metterne in luce i diversi e contraddittori aspetti, potenziandone in tal modo la significanza. È la stessa valutazione assiologica del fenomeno che lo spettatore non può più presupporre come data una volta per tutte, come garantita, dovendola riconsiderare di volta in volta, come l’opera gli ha mostrato esemplarmente, all’interno di un determinato orizzonte di senso. L’effetto di “straniamento”, rimettendo in questione la cattiva effettività alla quale si è abituati, ha, quindi, una funzione eminentemente critica, che rende lo spettatore in grado di cooperare coscientemente allo sforzo di ricomposizione della molteplicità del mondo fenomenico nella totalità architettonica dell’opera.
A essere bandita per sempre è, così, ogni ingenua pretesa di poter recuperare, grazie alla trasfigurazione estetica, una visione immediata, assoluta, metafisica del reale. L’effetto di straniamento mostra, infatti, come sia inconcepibile e, quindi, mistificatoria l’idea stessa di un guardare che non sia stato già coniato e formato da visioni, da idee precedenti. Nella stessa fruizione dell’opera d’arte è allora indispensabile che il pubblico possa tenere sempre ben presente il suo patrimonio di visioni e di idee, per poterle confrontare criticamente con quelle che gli sono proposte dall’opera. Allo stesso modo la funzione critica dell’effetto di straniamento si oppone radicalmente alla tradizionale formula meccanicistica secondo la quale l’arte dovrebbe essere un’immediata riproduzione della realtà. E’ proprio la coscienza di quest’insopprimibile differenza tra l’oggetto ed il segno, che fa della ri-costruzione del senso un compito che l’opera affida ai suoi recettori, a fornire la base al tentativo di rifondare l’esperienza estetica. Una rifondazione che ha al suo centro la chiara consapevolezza – che l’opera deve fornire al suo recettore – della distinzione tra i processi rappresentati e i mezzi rappresentativi.
Lo scetticismo costituisce per Brecht la base dell’epistemologia e della morale, in quanto mette sempre in questione l’oggettività, la naturalità e l’inevitabilità dei fenomeni. Egli rigetta l’“oggettivismo” di molti marxisti cercando, però, di mantenersi in equilibrio tra questa critica dell’oggettivismo e la perdita della realtà.
Per poter parlare ancora di “reale” però, bisogna, secondo Brecht, tenere presenti necessariamente due premesse fondamentali. La prima consiste nella continua mutabilità dell’oggetto della conoscenza. Del resto, a parere di Brecht: “lo stadio delle cose che non può esser modificato per mezzo del pensiero (che non dipende da noi), non può essere pensato” [1]. Deve essere respinta, allora, l’idea stessa che possa darsi un oggetto indipendente, in sé essente. Brecht scrive, infatti, che “si può riconoscere un oggetto solo in quanto lo si trasforma” [2], ma questo significa concretamente: in quanto si mette la realtà alla prova, in quanto la si sperimenta. La seconda premessa ha a che vedere con l’attività della soggettività che conosce, con la ripercussione dell’attività conoscitiva su quello che si tratta di conoscere. Brecht fa suo il teorema d’indeterminazione della fisica moderna, in base al quale “l’investigato è stato modificato dalla investigazione” [3].
Per superare una rappresentazione reificante della verità è, quindi, necessario sostituirla con una relazionale. Come scrive Brecht, “la verità sopra un ente condiziona la verità sopra altri enti. Un ente si fa reale solo quando appare nel suo vincolo con altri, e si fa tanto più reale quanto più lo sono gli enti che si relazionano con quello. La verità non si può mai esprimere in una proposizione. La verità di ogni proposizione dipende dalla sua conformità a scopi” [4]. Tutto il conosciuto è, dunque, necessariamente correlato al modo in cui si compie l’esperienza umana.
Solo stabilendo questo imprescindibile legame tra atto conoscitivo e coscienza agente è possibile recuperare sul piano estetico l’esperienza. L’elemento conoscitivo e l’atto etico possono divenire il contenuto di un’opera d’arte solo attraverso una totale riorganizzazione formale. Il contenuto, prima di entrare a far parte dell’esperienza estetica, si trova, infatti, in uno stato di “postulazione insoddisfacente”. Solo attraverso la messa in forma all’interno dell’opera, che rompe questo stato “prosaico” trasferendo la sostanza conoscitiva ed etica su un diverso piano assiologico, il contenuto riceve un’intuitiva unificazione, individuazione, concretizzazione, isolamento e compimento. Nell’opera d’arte il contenuto deve essere dato come interamente formato, interamente incarnato, altrimenti esso resterebbe un cattivo prosaismo, un momento non sciolto nella totalità artistica.
Ciò permette a Brecht di postulare il superamento, sul piano estetico dell’opera, della netta scissione tra il piano scientifico e quello etico-morale. L’esperienza estetica diviene il terreno di una complessa dialettica tra il distaccato atteggiamento scientifico, che ha di fronte a sé il reale nella sua molteplice e contraddittoria differenza, e l’impeto del dover essere, che pretende sia rinvenibile una qualche unità di senso. Nell’opera di Brecht si intrecciano, così, l’atteggiamento scettico di fronte alla pretesa di una realtà data (oggettiva), la necessità del freddo distacco epistemologico dal proprio oggetto, che deve essere trattato epicamente, la spinta morale a una trasformazione del reale per mezzo del richiamo alla libertà dell’uomo di fronte a esso e l’ironia di fronte a ogni definitiva soluzione della “differenza” della natura.
Di decisiva importanza per la teoria brechtiana dell’arte è, quindi, il costante richiamo alla moderna teoria della conoscenza, che rigetta la tradizionale formula meccanicistica secondo la quale il pensiero sarebbe un’immediata riproduzione della realtà, che pretenderebbe, ad esempio, che a ogni oggetto x appartenesse una riproduzione y e che a ogni x’ una y’.
È proprio la coscienza di questa insopprimibile differenza tra l’oggetto e il segno – che fa del senso un dover essere dell’attività umana – a fornire la base epistemologica alla struttura fondamentale del teatro di Brecht: la distinzione tra i processi rappresentati e i mezzi rappresentativi, tra personaggio e attore.
Anche al livello della scrittura ha un’importanza decisiva questa non identità di segno ed ente, in quanto stabilisce l’impossibilità di un’aprioristica fissazione del significato di un segno, pur nell’imprescindibile prospettiva del suo riferimento ontico. Da ciò deriva la centralità dell’espressione metaforica nella scrittura brechtiana. Questo è vero non solo per la scrittura drammatica, ma anche per quella lirica. Al livello della teoria ciò permette a Brecht di superare una concezione non referenziale del linguaggio, soprattutto poetico. L’impiego della metafora, sospendendo il riferimento letterale, permette di mettere all’opera un riferimento di secondo grado, che si può definire propriamente poetico [5]. La metafora, che consente il pieno esplicitarsi dello straniamento al livello di scrittura testuale, è uno strumento essenziale di cui ha bisogno la fiction per ridescrivere la realtà.
Questa capacità che ha il linguaggio metaforico di riconnettere fiction e ridescrizione rinvia a una lunga tradizione estetica che ha le sue origini nella Poetica di Aristotele, in cui la caratteristica principale del linguaggio poietico consiste proprio nel tenere insieme fabula e mimesis. A questo raffronto non ci sembra un sostanziale impedimento il fatto che Brecht abbia sempre definito la propria drammaturgia come “non-aristotelica”; in quanto già questo continuo richiamo e la necessità stessa di definire la propria produzione teorica in rapporto di opposizione a quella aristotelica, ci pare indicare inequivocabilmente la necessità di un raffronto.
Uno dei temi fondamentali della critica brechtiana alla drammaturgia aristotelica riguarda proprio il concetto di mimesis. Come abbiamo visto, costante è la polemica di Brecht con un tipo di mimesis che, troppo attaccata all’empirico, non è poi in grado di approntare un discorso critico sulla realtà. Si tratta di una meccanica imitazione del reale che, sacrificando l’elemento creativo, diviene incapace di una scelta etico-interpretativa nei confronti del suo materiale e dei suoi mezzi. A questa si affianca la critica, di derivazione platonica, all’uso sofistico della mimesis artistica. Resta ora da vedere se queste due critiche possano essere ritenute valide anche nei confronti dell’uso fatto da Aristotele del concetto di mimesis.
Aristotele, pur servendosi dello stesso termine (mimesis) utilizzato da Platone per criticare la rappresentazione artistica, ne trasforma radicalmente il valore concettuale, in un senso che non contrasta più con le esigenze dell’estetica brechtiana. La mimesis non ha più la funzione di una pedissequa imitazione del mondo sensibile, ma diviene la base della costruzione di un’armoniosa totalità di vita e di azione, in grado di far emergere la verità del sentire e dell’agire dell’uomo. Come chiarisce Aristotele nel decimo capitolo della Poetica, l’autore non si può limitare a imitare il singolo dato empirico, ma deve far emergere nell’opera l’universale. Dato che il fine della mimesis artistica deve essere il contenuto unitario e armonico dell’opera, essa deve necessariamente elevarsi al di sopra del mondo fenomenico.
Per Aristotele, però, la mimesis non deve avere solo un valore estetico, ma anche etico. La stessa coerenza interna dell’opera, cui mira la mimesis, non va intesa, infatti, come determinata unicamente dall’arbitrio individuale dell’artista. La soggettività creatrice deve perdere i suoi caratteri prettamente individuali per dar vita a un’opera in grado di esprimere, in qualche modo, il sentire comune, l’universale. Perciò, la funzione della mimesis non può essere interpretata né come semplicemente ricostruttiva, né come puro e semplice momento di rottura tra il mondo ordinato dell’opera e il disordine del mondo fenomenico. A essa è attribuito il compito di ricostruire un possibile legame tra questi due piani, permettendo al mythos (la fabula caratterizzante la composizione poetica fondata appunto sulla mimesis) di espletare la sua funzione di trasposizione metaforica dell’empirico nell’orizzonte di senso aperto dall’opera.
Questa complessa funzione liminare della mimesis è stata descritta magistralmente da Paul Ricoeur. Il compito centrale della mimesis, la rottura con il mondo empirico e l’istituzione della “littérarité de l’oeuvre littéraire” [6], può essere condotto a buon termine solo una volta che venga inserito all’interno di due funzioni collaterali, ma egualmente indispensabili, in quanto permettono all’opera di aprirsi sull’extrartistico. La mimesis deve svolgere, allora, il compito preliminare di stabilire un primo ed immediato terreno d’incontro del mondo dell’opera d’arte con la realtà, permettendo a quella di trarre da questa la materia prima della sua composizione. Essa deve adempiere, inoltre, al difficile compito di ristabilire il collegamento tra l’organizzazione del senso all’interno dell’opera e la sua fruibilità da parte dello spettatore.
Note:
[1] B. Brecht, Grosse kommentierte Berliner und Frankfurter Ausgabe, a cura di W. Hecht, J. Knopf, W. Mittenzwei, K. Delef-Müller, Aufbau Verlag, Berlin und Weimar, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1989-2000, vol. 21, p. 521.
[2] Ivi, vol. 20, p. 172.
[3] Ivi, vol. 22.2, p. 730.
[4] Ivi, vol. 21, p. 428.
[5] Cfr. P. Ricoeur, Temps et Recit, vol. I, Édition du Seuil, Paris 1983, p. 10.
[6] Ivi, p. 106.