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Il comunitarismo di Alasdair MacIntyre
In reazione all’individualismo moderno, caro alla tradizione liberale, si leva la voce di alcuni pensatori contemporanei che, ispirandosi alla filosofia pratica di Aristotele, ritengono che l’etica non possa prescindere da un sistema di valori e dalla solidarietà in seno a una comunità storica. Il più significativo di essi è lo scozzese Alasdair MacIntyre, nato a Glasgow nel 1929. MacIntyre, dopo aver studiato e insegnato nelle università inglesi, si è trasferito nel 1970 negli Stati Uniti occupandosi di filosofia antica e medievale.
Dopo la virtù
In Dopo la virtù (1981), l’opera più significativa del comunitarismo, MacIntyre espone la sua convinzione seconda la quale tutti noi viviamo in un’epoca simile a quella che ha portato al crollo dell’Impero romano, segnata da una crisi di valori prima ancora che politica. Sul piano etico si tratta di una catastrofe, esito estremo delle pretese illuministiche di assumere la ragione individuale come criterio ultimo di ogni condotta morale. Il progetto della modernità, da David Hume a Immanuel Kant, ha mirato – secondo MacIntyre – a liberare l’uomo da ogni autorità religiosa e politica, e a fondare la morale sulla coscienza individuale, divenuta così l’unico arbitro dei valori.
La razionalità burocratica si sostituisce ai valori
Nella società contemporanea si è sostituita la razionalità burocratica – che consiste nel commisurare i mezzi agli scopi in modo economico ed efficace – alla questione dei fini. Essendo questi ultimi questione di valori, la ragione individuale non può che rimanere, secondo MacIntyre, muta. In effetti la coscienza moderna, essendo soggettiva, non può che essere, per MacIntyre, relativista e irrazionalmente emotiva ossia soggettivista.
La critica all'individualismo e alla burocrazia
In tale contesto la disputa, che ha cateterizzato la guerra fredda, fra paladini della libertà individuale – i liberali – e i sostenitori della pianificazione – i comunisti – appare a MacIntyre superficiale, visto che entrambi concorderebbero sul fatto che sarebbero possibili solo due forme di vita sociale: una dominata dall’individualismo, l’altra dalla burocrazia.
La ripresa di Nietzsche quale demolitore delle morali illuministe
A smascherare il progetto illuministico, portandolo alle estreme conseguenze, è stato Friedrich Nietzsche, che avrebbe smascherato l’illusorietà del progetto illuminista-kantiano di fondare la morale sulla ragione universale e oggettiva. Nietzsche avrebbe portato alle estreme conseguenze tale posizione fondando la morale sulla volontà di potenza del soggetto. Perciò MacIntyre apprezza Nietzsche come demolitore delle morali illuministiche, non per le soluzioni da lui proposte, in quanto pretenderebbe di fondare una nuova tavola di valori proprio sulla volontà soggettivistica, ossia sull’esito estremo della catastrofe moderna e contemporanea
Il ritorno ad Aristotele e a Benedetto da Norcia
Al contrario, per MacIntyre occorre ritornare ad Aristotele, quale punto focale fondamentale della visione classica dell’uomo sorta con Omero, sviluppatasi nella polis e ripresa infine nell’etica delle virtù di Benedetto da Norcia, radicata sui valori tradizionali della religione e della comunità.
Il processo di de-emancipazione in vista del ritorno allo stato di minorità dell’uomo
In attesa di un nuovo Benedetto da Norcia che salvi la società moderna dalla catastrofe, MacIntyre sogna una società sul modello antico e medievale in cui “ogni individuo ha un ruolo e un rango prestabilito entro un sistema ben definito e rigorosamente determinato di ruoli e di ranghi. Le strutture più importanti sono quelle della parentela e del casato”. Tale società si basa sulle virtù, che MacIntyre interpreta come tipi di azioni radicate nei valori tramandati e riconosciuti nelle comunità di appartenenza. Gli uomini sanno cosa fare e hanno un’identità che gli è assegnata dalla comunità di appartenenza, che dà a ognuno dei valori comuni da seguire e un posto nell’insieme sociale. In effetti per MacIntyre è impossibile una morale slegata dalla comunità di appartenenza.
Si tratta di un processo di de-emancipazione opposto a quello illuminista enunciato da Kant: abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza e, dunque, di uscire dallo stato di minorità.
Carl Schmitt (1888-1985)
Schmitt è stato un giurista e pensatore politico tedesco di formazione cattolica, reazionario, anti razionalista e antilluminista. Insegnante universitario, collaboratore del reazionario generale Kurt von Schleicher, ultimo cancelliere prima di Hitler, Schmitt si iscrive nel 1933 al Partito nazionalsocialista. Come nel caso dell’adesione di Giovanni Gentile al fascismo, il passaggio al nazismo di Schmitt è in continuità con il suo pensiero precedente, che lo agevola. Schmitt è stato presidente dell’associazione dei giuristi nazionalsocialisti. Dopo la caduta della Germania hitleriana, Schmitt è stato internato per un anno dagli statunitensi.
Il primato della politica sull’universalismo che media i contrasti con il diritto
Schmitt si richiama al pensiero reazionario classico di Joseph De Maistre e Donoso Cortés. All’universalismo, che condanna come astratto, e al diritto, che in nome della norma astratta media i contrasti eliminandone la drammaticità e le differenze, Schmitt contrappone la concretezza della politica, caratterizzata dall’agonismo e dalla diade amico-nemico. Il mondo giuridico per Schmitt si adatta a situazioni di omogeneità sociale e di tranquillità politica, di sonno della politica, mentre quando in una società o a livello internazionale si scontrano interessi divergenti e gruppi antagonisti, il diritto non è più in grado di regolarla perché il diritto nella sua astrattezza non ricomprende il conflitto fra posizioni antitetiche. Del resto, anche il presunto formalismo del diritto è fittizio, in quanto la legalità sancisce la prevalenza di determinati interessi a svantaggio di altri. Le norme giuridiche, nel loro ipocrita formalismo, celano una realtà che si pretende eternare.
La critica al pluralismo e alla legalità liberal-democratica
Così Schmitt, dinanzi a una società come quella della Repubblica di Weimar, caratterizzata da un pluralismo “feudale” di classi sociali e gruppi politici in lotta fra loro, ritiene che al diritto occorre contrapporre un sovrano in grado di ridurre all’obbedienza i feudatari riottosi, ridando unità a un molteplice disperso, annientando il nemico rivoluzionario: il comunista. La legalità liberal-democratica, al contrario, legittima questo pluralismo e i relativi pericoli, con la finzione della “neutralità” del diritto nei confronti di tutte le tendenze che la società esprime. Per Schmitt l’autorità dello Stato deve essere riaffermata, il pluralismo liberale in quanto inadatto allo scopo è rovinoso. Per Schmitt il valore, il positivo, è il già costituito, mentre il comunismo è il male in quanto vuole rovesciare l’ordine costituito. Di contro al legalismo arrendevole, Schmitt, nel suo scritto la Dittatura, sostiene la necessità di ricorrere a un atto politico dirompente dando, attraverso un’interpretazione estensiva dell’articolo 48 della costituzione di Weimar, al presidente, eletto direttamente dal popolo, pieni poteri per poter schiacciare i nemici dell’ordine costituito.
Il nesso amico-nemico
Del resto per Schmitt la politica si gioca tutta sul nesso amico-nemico, perciò chi fa politica ha sempre un nemico da annientare. Di conseguenza la politica si lega strettamente, secondo Schmitt, alla guerra. La vera spiegazione della guerra per Schmitt è la sua politicità, il fatto che l’avversario sia, nel senso più forte, il nemico. Dunque, Schmitt dà alla politica un fondamento esistenziale e tragico, che la configura come un fatto assoluto.
Il plebiscito e il mito politico
La politica autentica è quella in cui si individua con chiarezza il nemico da annientare. Perciò ci vuole, di contro all’individualismo liberale, una comunità omogenea e concorde, che si esprima nel modo più netto nel plebiscito, stabilendo un rapporto diretto con il Capo, secondo la formula bonapartista rilanciata da fascismo e nazismo. Schmitt recupera la concezione del mito politico di Georges Sorel, ossia di un discorso imperativo valutabile in base alla sua efficacia, cioè all’energia volitiva che è in grado di suscitare.
Stato, movimento, popolo
Dunque, il regime autoritario idealizzato da Schmitt si fonda su una comunità organica, partecipe di tradizioni sedimentate e utili alla sua compattezza, devota a un capo (Führer) cui manifesta la sua fiducia mediante i plebisciti. Nello scritto Stato, Movimento, Popolo (1933), Schmitt considera quale elemento fondamentale che dà senso agli altri due in questa triade il movimento, rappresentato dal partito nazista. Esso è il sovrano e la fonte della politica. Lo Stato sarebbe, invece, l’elemento statico, il popolo l’elemento apolitico, secondo una scelta politica del Partito, di modo che non bilancino il potere del Partito, ma si sottomettano a esso. Al vertice dello Stato è così Adolf Hitler, riconosciuto dal popolo in modo plebiscitario e dotato dei pieni poteri, che riunifica in sé. Il legame diretto fra capo e popolo dipende dall’appartenenza alla stessa stirpe, cioè alla medesima razza.
La legittimazione di Hitler quale supremo giudice del popolo tedesco
Tale dominio del politico - in realtà di una certa politica - fa sì che lo stesso principio dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge sia tolto. I reparti d’assalto del partito (le Schutzstaffel o SS, alle dirette dipendenze dal Führer) sono posti da Schmitt al di sopra della legge. Né il diritto potrebbe pretendere, a suo avviso, di intralciare dal di fuori la catena del principio di comando del partito che, come nel caso della Chiesa, è posto al di sopra della legge. Così Schmitt giustifica la terribile strage interna al partito nazista della Notte dei lunghi coltelli del 1934. Dal momento che la legge è comando e la giustizia emanerebbe dal sovrano, il comando di Hitler (il Führerprinzip) basterebbe da solo, secondo Schmitt, a legittimare qualsiasi violazione del principio formale della legge. Così Schmitt legittima la pretesa di Hitler di porsi quale supremo giudice del popolo tedesco.