When They See Us, di Ava DuVernay, Usa 2019, miniserie in quattro parti, disponibile su Netflix, voto: 9,5. Indubbiamente la migliore e l’unica serie davvero imperdibile della stagione. Anzi probabilmente si tratta del miglior film dell’anno. La serie, opera della grande regista afroamericana Ava DuVernay, autrice fra l’altro del bel film Selma - La strada per la libertà, è a tal punto avanzata da poter essere interpretata come una magnifica confutazione dell’idealismo della serie Unbelievable, quasi certamente la seconda più significativa distribuita quest’anno. In effetti, When They See Us mostra nel modo più crudamente realistico la effettiva attitudine degli apparati repressivi statunitensi – a prescindere dal genere sessuale dei commissari inquirenti – nei riguardi del delitto dello stupro subito da una donna bianca. Non a caso la storia vera raccontata da When They See Us denuncia, sin dal titolo, come soltanto in questi tragici casi gli apparati dello Stato sembrano ricordarsi dell’esistenza degli afro-americani e degli ispanici, per il resto confinati in ghetti, per immolarli come capri espiatori sulla base del topos razzista dell’uomo nero sempre pronto a stuprare la donna bianca.
Nel secondo episodio si denuncia il completo stravolgimento della “giustizia” in strumento di repressione delle classi “pericolose”, connotate razzialmente negli Usa, ovvero quale repressione preventiva degli afroamericani e dei latinos dei ghetti. Si tratta di un puro sfoggio di violenza del tutto gratuita e indiscriminata con il solo scopo terroristico, simile a quella praticata dagli spartani nei confronti degli Iloti, per mantenerli in uno stato di assoluta subordinazione. Ecco così che non solo gli apparati repressivi dello Stato, ma lo stesso procuratore non devono accertare la verità e individuare il colpevole, ma individuare nel tempo più rapido possibile i “colpevoli” meglio spendibili sul piano politico-sociale, da dare in pasto agli apparati ideologici dello Stato affinché sbattano quale mostro in prima pagina il capro espiatorio su cui scaricare il disagio sociale creato da un modo capitalistico di produzione sempre più in crisi.
Nella terza puntata si denuncia come dei bambini del tutto innocenti, essendo afroamericani di famiglie non benestanti, non solo sono stati condannati a passare tutta l’adolescenza in carcere, ma una volta usciti, sebbene riconosciuti innocenti, sono bruciati e non gli è data una reale possibilità di rinserimento nella società. Così uno di loro si vede costretto a divenire spacciatore e finisce così, come previsto dal sistema, per tornare in carcere; un secondo riesce a reinserirsi solo aderendo all’islam; un terzo deve rinunciare alla ragazza per poter risparmiare e pagarsi gli studi; un quarto ha difficoltà a fare i conti con il padre che, per difendere il posto di lavoro, si è visto costretto a tradirlo dopo la falsa accusa di stupro.
Il quarto episodio, infine, mostra il vero e proprio calvario dell’unico dei cinque ingiustamente incriminati che aveva appena raggiunto la maggiore età e, quindi, è stato costretto a scontare ben quattordici anni di carcere duro, dove subisce ogni forma di sevizie dai secondini e dai carcerati suprematisti bianchi. In ultimo, per un puro caso lo stupratore e assassino seriale, già in carcere, confessa di essere l’unico artefice del delitto, facendo così emergere la spaventosa montatura architettata dagli apparati di sicurezza dello Stato, dal pubblico ministero e dai mezzi di comunicazione di massa per criminalizzare il proletariato afroamericano e latino-americano, costruendo artificiosamente – a partire da Trump – una spaventosa macchina di menzogne che non solo ha rovinato la vita a cinque adolescenti innocenti e alle loro famiglie, non solo ha criminalizzato l’intera comunità di Harlem, ma ha nei fatti coperto gli stupri e assassini seriali di un criminale, che sarebbe stato facilissimo arrestare, se solo ci fosse stato il minimo interessare a individuare il reale colpevole.
Unbelievable di Susannah Grant e Lisa Cholodenko, miniserie televisiva in otto puntate disponibile su Netflix, Usa 2019, voto: 7,5. Notevole episodio pilota per questa serie dedicata alla denuncia di una questione sostanziale come la violenza (in primo luogo sessuale) degli uomini sulle donne. Non solo lo stupro è denunciato realisticamente in tutta la sua oscena brutalità, ma si evidenza l’ancora più incredibile violenza della società capitalista e maschilista nei riguardi delle donne vittime, soprattutto se esponenti delle classi subalterne, che sono in modo incredibilmente rapido trasformate in inquisite e, nei fatti, costrette ad autodenunciarsi per falsa testimonianza.
Il primo episodio, apparentemente compiuto in modo perfetto, dà l’impressione di una assoluta necessità che sembra negare la possibilità di reagire liberamente anche dinanzi a una situazione apparentemente priva di via di uscita. Nel suo apparentemente estremo realismo, il primo episodio ha il limite di una rappresentazione naturalista o verista, in cui non c’è alcuna prospettiva di riscatto, tanto che appare necessario il fatto che moltissime donne delle classi subalterne preferiscano non denunciare la violenza sessuale subita.
Nel secondo e terzo episodio il telefilm rientra per un certo verso nei ranghi con una detective impeccabile e stacanovista e una collega dura, segnata dalla vita, ma in gamba. Entrambe sanno bene cosa possa significare uno stupro per una donna e sanno anche come venga generalmente sottovalutato dai colleghi maschi. La loro determinazione le porta a comprendere che vista la quasi assenza di delinquenti molto intelligenti, i delitti seriali di stupro commessi senza lasciar traccia non possono che essere il prodotto di un collega. Ancora una volta, così, abbiamo una rappresentazione molto realistica di questa problematica sostanziale, impensabile in un paese provinciale e bigotto come il nostro, nel quale mai sarebbe stato prodotto e diffuso un telefilm che denuncia come la polizia occulti la violenza subita da una povera ragazza subalterna e sia al contempo fra i maggiori indiziati di questi delitti finalmente denunciati in tutta la loro barbarie. Per altro in Italia una serie del genere avrebbe creato uno scandalo senza fine, mentre negli ultra reazionari Stati Uniti anche questi scottanti contenuti riescono a passare senza sollevare un pretestuoso polverone da parte dei benpensanti. Certo, le eroine della serie sono, anch’esse, membri della polizia, che poco realisticamente sembrano vivere come una missione la loro azione di contrasto agli stupratori, anche se realisticamente ci sono presentate più come l’eccezione, che la regola.
Il quarto e quinto episodio accentuano la denuncia del sessismo e del numero incredibilmente elevato di membri della polizia che confessa di aver compiuto azioni violente contro le donne. Allo stesso modo, nella maggior parte dei casi le inchieste per stupro suscitano scarso interesse in particolare negli agenti maschi, in quanto non se ne colgono gli effetti devastanti sulle donne. D’altra parte, come un po’ tutte le serie, anche in questo caso si tende ad allungare un po’ troppo il brodo.
Nella settima puntata tutti i nodi sembrano venire al pettine. Il poliziotto per quanto criminale è scagionato e lo stupratore si rivela essere un congedato con onore dai marines, il che dà da pensare su quanto quell’esperienza possa avere conseguenze tragiche.
Infine, l’ultimo episodio cerca di far emergere attraverso le due protagoniste il lato buono della polizia, anche se finiscono con l’apparire quasi delle mosche bianche, in un ambiente in cui sono gli stessi poliziotti a offrire con un libro sullo stupro perfetto, strumenti didattici decisivi per i potenziali stupratori seriali, ai quali è offerta la possibilità di perpetuare i loro delitti senza lasciare tracce. Al punto che è chi denuncia lo stupro a correre molto più il rischio di essere denunciato per falsa testimonianza, cosa decisamente impensabile per chi denuncia una rapina o un furto, ovvero un delitto di minore gravità.
Sex Education di Kate Herron e Ben Taylor, serie televisiva britannica del 2019 in otto puntate, voto 7-. Sex Education si presenta, sin dal primo episodio, come una serie particolarmente intelligente, divertente, contro i pregiudizi di ogni tipo legati al sesso e il puritanesimo, ovvero come un prodotto che insegna – divertendo – quell’educazione sessuale che in Italia, e in tanti altri paesi dove lo Stato non è indipendente dalla religione, resta ancora tabù. D’altra parte nella seconda puntata la serie sembra aver perso in buona parte mordente e spessore, se non approfondendo le misere condizioni sociali della protagonista.
Il terzo episodio fa riprendere il volo alla serie, affrontando la questione sostanziale dell’aborto e, in modo giustamente satirico, il rapporto del protagonista con degli assurdi rappresentati del movimento pro life, con le loro paradossali ipocrisie religiose. La quarta puntata si stabilizza, non presenta nulla di veramente sostanziale, se non una riflessione significativa sul rapporto fra uomo e donna. Nella quinta puntata la storia riprende quota affrontando problematiche piuttosto significative e, soprattutto, mostra come la contraddizione di classe sia fondamentale, rispetto a quella, per quanto significativa, di genere. La sesta puntata è piuttosto interlocutoria, ci sono diversi spunti interessanti, ma manca un vero centro catalizzatore. L’episodio, dunque, conferma la godibilità della serie, ma anche la carenza di sintesi, peccato originale delle serie a episodi.
Con la settima puntata si raggiunge l’apice melodrammatico e del godimento estetico della serie, senza mancare di toccare alcune problematiche sostanziali. La puntata è la più classica per il pieno adeguamento di forma e contenuto, entrambi in generale non eccelsi, ma significativi per essere una serie, una delle poche intelligenti in circolazione. L’ottava puntata procede a sciogliere alcune contraddizioni, lasciandone aperte altre per dare modo di realizzare la già prevista seconda serie. La serie potrebbe apparire piuttosto vintage ,essendo tutta incentrata sulla emancipazione della sessualità, tema non più così decisivo nei paesi in cui si è sviluppato il sessantotto. D’altra parte in questa epoca di restaurazione affrontare tematiche di educazione sessuale, rivolgendosi anche alle giovani generazioni, in modo godibile e divertente, non è certo cosa da poco.
Fosse/Verdon miniserie televisiva biografica statunitense del 2019 in otto episodi, ideata da Steven Levenson et Thomas Kail, voto 6,5. Prodotto essenzialmente culinario, anche se ben condito, dell’industria culturale statunitense, che affronta in modo abbastanza realistico i rapporti sul piano etico della famiglia e della società civile, ovvero del mondo dello spettacolo, anche se scompare quasi del tutto lo sfruttamento. Purtroppo, come ormai generalmente avviene, la serie pretende di astrarre completamente dal piano della grande storia, dimostrando implicitamente la propria avversione al materialismo storico. Così ì continui salti temporali del film, hanno un valore puramente soggettivistico e perdono qualsiasi rapporto con il mondo economico, sociale, politico e storico. Le puntate successive alla prima riescono a razionalizzare e a rendere decisamente più efficace la costruzione della puntata con significativi passaggi temporali, che tendono a mostrare, a ragione, le radici del presente nel passato, più o meno rimosso, anche se resta un passato puramente individuale, del tutto destoricizzato. La serie approfondisce in particolare, in maniera al quanto sofisticata, i rapporti famigliari e parzialmente i rapporti all’interno della società civile, dove emerge lo sfruttamento sessuale delle donne da parte del regista. La serie resta godibile, ma rischia, al solito, con il passare delle puntate di apparire al quanto ripetitiva e scontata. Nella quinta puntata in particolare si esce dallo stereotipo della donna che si sacrifica del tutto all’uomo che ama, il quale la sfrutta senza ritegno. Emerge, in effetti, la volontà di affermarsi all’interno della società civile anche della protagonista e questo non farà che contribuire a sfinire completamente il protagonista, sfiancato dai ritmi disumani di lavoro che si autoimpone in una società che tutto sacrifica alla produttività del lavoro, al successo individuale e alla necessità di affermarsi dinanzi a una concorrenza sempre più spietata. Nella puntata conclusiva si afferma sempre più il tema del seduttore, piuttosto ripetitivo, che finisce per porre in secondo piano gli aspetti creativi che hanno reso famoso il protagonista: Bob Fosse.
Il Metodo Kominsky, serie, prima stagione in 8 episodi, di di Chuck Lorre, Andy Tennant, Beth McCarthy-Miller, Donald Petrie; miglior serie televisiva brillante ai Golden globes 2019, Usa 2018, voto: 6+. Godibile serie, senza infamia né lode, con dialoghi raffinati, che in un’epoca ultra reazionaria come la nostra le consente di raggiungere la piena sufficienza.
Love Death and Robots 1x03 La Testimone di Alberto Mielgo, serie animata antologica per adulti, creata da Tim Mille, disponibile su Netflix, Usa 2019, voto: 6-. Prodotto culinario ma di discrete livello, sembra una versione attualizzata di “Alfred Hitchcoch presenta”. Interessante per gli spunti anti-giustizialisti e anti-empiristi, sulla necessità di non fermarsi alle apparenze, riflettere prima di agire, ascoltare e mettersi nei panni dell’altro. I limiti dell’episodio e, più in generale della serie, dipendono dalla scelta stilistica conformista e prona al post-moderno irrazionalistico dominante. Inoltre, a incidere negativamente nella valutazione – di quello che resta comunque il meno peggio tra gli episodi che abbiamo trovato la forza di guardare – vi è l’altrettanto scontatissima concezione pessimista del futuro, che rischia di rappresentare in modo più o meno consapevole un’apologia indiretta dell’esistente. Infine, altrettanto deprecabile è il ricorso all’artifizio retorico, sin troppo abusato, di una concezione circolare del tempo, di sapore decisamente reazionario.
Il commissario Montalbano, L'altro capo del filo di Alberto Sironi, trasmesso da RAI1 l’11-02-2019, voto 5. Episodio piuttosto anonimo, costruito su una storia che non regge, inverosimile, con un excursus sul problema degli immigrati in cui si dà un colpo al cerchio e uno alla botte. Per approfondimenti cfr. la recensione dell’episodio al link: https://www.lacittafutura.it/recensioni/il-commissario-montalbano-2019.
Love Death and Robots, 1x01 Il vantaggio di Sonniedi Dave Wilson, voto: 5-. Tipico prodotto dell’industria culturale ben confezionato, sostiene in modo acritico l’ideologia neopositivista dominante nel mondo anglosassone secondo la quale lo sviluppo tecnologico risolverà tutti I problemi del nostro mondo. Peccato che le soluzioni proposte sembrano peggiori dei mali e più che guardare in avanti, con un sano spirito di utopia, guardano indietro, restaurando il radicale dualismo cartesiano fra anima e corpo.
Love Death and Robots, 1x02 Tre Robot di Victor Maldonado & Alfredo Torres, voto: 5-. Speculare e contrario al primo episodio, questo secondo episodio è certamente lodevole dal punto di vista del contenuto, in quanto mette in evidenza tutti i limiti del pensiero astratto e intellettualistico proprio della sedicente intelligenza artificiale, ma lo fa nella forma di un mediocre e al quanto noioso spot.
Love Death and Robots, 1x04 Tute meccanizzate di Franck Balson, voto 4,5. Puro divertissement, costruito come un manga giapponese vintage, nella forma di un western ambientato nel futuro. Torna il vecchio stereotipo identitario dell’invasione di alieni mostruosi, che tende a criminalizzare l’altro, il diverso in quanto tale (ieri il comunista, oggi l’immigrato povero).
Caterina la grande, miniserie tv in 4 puntate, di Philip Martin, Usa, Gran Bretagna 2019, voto: 4,5. Pur con tutti i suoi limiti di merce meramente culinaria, sfornata dall’industria culturale dominante, almeno la prima puntata regge per l’interesse storico delle vicende narrate. Tale interesse cala vistosamente già nel corso della seconda puntata, in cui emerge con maggiore evidenza il taglio decisamente ideologico, nel senso di una concezione idealista della storia, che considera il corso del mondo unicamente determinato dagli intrighi di palazzo e persino dai sentimenti di una ristrettissima élite tutta concentrata in torno alla sovrana. Le masse popolari e i conflitti sociali sono trattati nel modo più paternalista e sbrigativo come mere rivolte sanguinarie, tacciate di maschilismo e facilmente domate dal potere costituito. In tal modo i ceti subalterni sono considerati degli eterni fanciulli, in una prospettiva meramente apologetica del dispotismo illuminato di Caterina II, di cui sono occultati completamente contraddizioni e limiti anche storici. Come avviene generalmente nelle serie più si va avanti e più degenera, tanto che il terzo episodio assomiglia sempre più a una tele novella, tutto incentrato com’è sugli amorazzi e le storie di sesso dell’imperatrice. Scompaiono del tutto i suoi tratti di sovrana illuminata, le importanti riforme che ha proposto, il suo costante sostegno economico a Diderot, come scompaiono i conflitti di classe con l’aristocrazia e l’alto clero che cercarono di impedire l’opera di modernizzazione portata avanti con coraggio da Caterina. I ceti dominanti dell’ancien régime tendono ad avere la meglio quando l’imperatrice ha bisogno necessariamente del loro sostegno nel decisivo scontro con la rivolta contadina. Tutti questi aspetti sostanziali, che avrebbero reso interessante e avvincente la vicenda narrata, sono completamente sacrificati. Il quarto episodio diventa decisamente ridicolo. Pur continuando a insistere sul dispotismo sessuale imposto dall’imperatrice – sempre interpretata grottescamente dalla settantenne Helen Mirren – cerca di attestare l’amore romantico fra la regina e uno dei suoi tanti preferiti.
Profumo, serie televisiva tedesca di genere thriller in 6 episodi, pubblicata il 21 dicembre 2018 sul servizio video on demand netflix, voto: 4+. Prodotto piuttosto mediocre dell’industria culturale, la serie ripropone l’arcaica concezione ultra-maschilista della donna e, inoltre, come avviene generalmente nelle serie, allunga inutilmente il brodo, tanto che presto annoia.
Il nome della rosa, miniserie televisiva italo-tedesca del 2019, creata e diretta da Giacomo Battiato per Rai Fiction, voto: 4. Tutti gli aspetti più significativi e rivoluzionari del romanzo omonimo, da cui è tratta la serie, sono sacrificati sull’altare dell’industria culturale, mirando a fare dell’opera un prodotto meramente culinario di livello, per altro, modesto.
Il Commissario Montalbano, Un Diario Del 43, voto: 4-; episodio particolarmente piatto e mediocre, dal contenuto più che discutibile. Per approfondimenti rinvio al link dell’articolo con la recensione: https://www.lacittafutura.it/recensioni/il-commissario-montalbano-2019.
Love Death and Robots 1x05 Il Succhia Anime, Netflix 2019, voto: 3, episodio particolarmente inutile e banale.
Mr. Robot 3, serie televisiva statunitense creata dallo sceneggiatore Sam Esmail, voto: 2; in questa terza stagione la serie perde tutti gli aspetti critici e radicali della prima stagione, proseguendo sulla falsa riga della seconda, ovvero su una linea di apologia indiretta della società capitalista, che andrebbe difesa anche in modo militante, abbandonando ogni forma di dissenso, in quanto l’unica alternativa sarebbe l’affermarsi di un modello ben peggiore, quello cinese totalitario e mafioso. La serie scade sostanzialmente nel razzismo, quale presupposto dell’imperialismo e del neocolonialismo.