Come è noto e per questo in genere non conosciuto, sin dalla Poetica di Aristotele, l’opera d’arte, quando non si tratta di un succedaneo, ossia di un prodotto mercificato della società dello spettacolo, è in grado di far comprendere la realtà persino meglio della storia. In un’epoca in cui film come American Sniper, Birdman o Whiplash possono essere spacciati come capolavori, un film come Selma, pur con tutti i suoi limiti, deve essere considerato un’autentica opera d’arte.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
L’arte, Ipse dixit, ha una funzione conoscitiva superiore alla storia che documenta solo gli eventi senza la pretesa di universalità, in quanto si limita generalmente a cogliere il particolare, mentre l’opera d’arte narra ciò che può accadere in generale, parla quindi del verosimile, che se non è proprio l’universale, è qualcosa di analogo all’universalità. Il contenuto universale fa del film in questione un’opera d’arte, mentre fa dei sopravvalutatissimi Birdman e Whiplash delle mere merci prodotte dall’industria dell’intrattenimento.
La regista afroamericana Ava DuVernay, sceglie di raccontare in questo suo ultimo film un evento storico emblematico della lotta per i diritti civili negli Stati Uniti, ovvero la grande marcia del 1965 da Selma a Montgomery in Alabama, guidata da Martin Luther King per manifestare contro la costante negazione dei diritti non solo economici e sociali, ma anche politici da parte degli Stati del sud nei confronti degli afroamericani, cui era di fatto negato lo stesso diritto di scegliere quale delle due frazioni del partito della classe dominante avrebbe dovuto dirigere la società.
Dei limiti intrinseci alla pur decisiva lotta per la rivendicazione dei diritti civili pare a tratti consapevole la stessa regista, in particolare quando Martin L. King riflette sul fatto che la loro lotta potrà, ad esempio, consentire ai neri di avere accesso ai ristoranti dei bianchi, dove però non solo la stragrande maggioranza di essi non disporrà dei soldi per pagare il conto, ma nemmeno sarà in grado di leggere il menu per ordinare.
La scelta di limitare la narrazione alla campagna di Selma è significativa in quanto la regista riesce, narrando un singolo ma emblematico evento, a cogliere gli aspetti più importanti del contesto storico della lotta per i diritti civili e allo stesso tempo a delineare, in modo verosimile anche se non nella sua complessità contraddittoria, la figura di Martin Luther King. Questo, tra l’altro, è il primo film realizzato sul famoso attivista per i diritti dei neri e, a differenza di film come Malcom X di Spike Lee, non è un’opera biografia. Questo è sicuramente un aspetto molto interessante del film, perché riesce anche solo trattando una singola battaglia del reverendo King a cogliere i vari aspetti della sua personalità e a evitare allo stesso tempo la “ridondanza” che potrebbe risultare da un’opera biografica. Viene fuori, così, non solo il Martin Luther King carismatico oratore e grande leader che tutti conosciamo, ma il King non sempre sicuro di sé, con i suoi dubbi, le sue incertezze, e anche debolezze, soprattutto nella vita privata, come emerge nel rapporto con la moglie Coretta, per quanto elegiacamente trasfigurato. Ma soprattutto è il King stratega che viene messo in luce nel film, ed è un aspetto molto importante che si dipana soprattutto nel rapporto con il presidente Lyndon Johnson [1]: Johnson non intende dare alcuna priorità alla legge sul voto, King riesce a fargli cambiare idea sfruttando a suo favore la tattica della non-violenza, già utilizzata con successo da Gandhi nella lotta contro il dominio imperialista britannico. A questo proposito, dinanzi all’ideologia dominante fatta propria dalla italiana a-sinistra, vale la pena ricordare delle utili riflessioni di Gramsci in proposito: «la coscienza dell’impotenza materiale di una gran massa contro pochi oppressori porta all’esaltazione dei valori puramente spirituali ecc., alla passività, alla non resistenza, alla cooperazione, che però di fatto è una resistenza diluita e penosa, il materasso contro la pallottola». Così «il rapporto di impotenza politica delle grandi masse di fronte a oppressori poco numerosi ma agguerriti e centralizzati» fa sì che «gli “umiliati e offesi” si trincerano nel pacifismo evangelico primitivo, nella nuda “esposizione” della loro “natura umana” misconosciuta e calpestata nonostante le affermazioni di fraternità in dio padre e di uguaglianza ecc.» [2].
Martin L. King sceglie di manifestare pacificamente proprio a Selma, sicuro di scatenare i razzisti del posto, a partire da uno sceriffo particolarmente razzista e violento, cosa che puntualmente avviene: i media sono serviti, i bianchi che guardano ciò che è avvenuto a Selma rimangono impressionati dalla violenza della polizia, il consenso intorno a King e alla battaglia dei neri aumenta. I rappresentati della società dello spettacolo possono a poco prezzo rifarsi una verginità. Certo questa tattica è a dir poco spregiudicata e ci fa venire qualche dubbio rispetto al mito del non-violenza [3], così osannato: King spera, come appunto faceva cinicamente Gandhi [4], che i manifestanti siano massacrati dalla polizia in modo da smuovere le coscienze bianche più sensibili, sperando che facciano causa comune con gli oppressi compatibili con il sistema, anche per evitare l’egemonia su di essi degli oppressi rivoluzionari alla Malcom X.
L’importanza della battaglia per il diritto di voto è ben spiegata in alcuni momenti topici del film come la scena in cui un’infermiera afroamericana – interpretata dall’insopportabile, anche quando interpreta un personaggio positivo, Oprah Winfrey (coproduttrice del film) – si reca agli uffici della contea per iscriversi nei registri elettorali, cosa che puntualmente gli viene negata. Siamo nel 1965, eppure nei liberal-democratici Stati Uniti, i neri che possono votare sono una minoranza esigua [5]. Dunque non solo F. D. Roosevelt non aveva messo mano a questa oltraggiosa situazione, ma neanche l’altrettanto osannato dall’a-sinistra J. F. Kennedy aveva sanato tale gravissima lesione degli stessi diritti formali borghesi.
Il motivo di questo diniego lo si capisce in un colloquio tra Johnson e Wallace: se le classi subalterne hanno il diritto di voto, poi possono rivendicare la redistribuzione del reddito, meglio fare la battaglia contro la povertà, la carità è evidentemente meno pericolosa. Dunque le classi dominanti si dimostrano consapevoli che i diritti civili e politici, la “democrazia” borghese, è il terreno più favorevole per lo sviluppo della lotta di classe in funzione della conquista dei diritti sociali ed economici.
Interessante è anche nel film il confronto fra Malcom X e Martin Luther King, in cui mentre il primo sa cogliere il mutato contesto e adeguarvi la sua linea, distinguendo adeguatamente fra contraddizione principale e secondaria (la contraddizione in seno al popolo), il vero fondamentalista appare il riformista King, che non riesce a comprendere la necessità di superare in questa nuova fase i dissidi del passato. Non a caso il presidente Usa sottolinea che la contrapposizione al riformismo di King è la contraddizione secondaria, rispetto al mantenerlo alla guida del movimento, tagliando fuori il rivoluzionario Malcom X. Questo è anche il senso del Nobel della pace dato a Martin Luther King. Perciò il presidente frena Hoover, rappresentato realisticamente in questo film e non idilliacamente come nel reazionario biopic a lui dedicato da Clint Eastwood. Da questo punto di vista del tutto unilaterale appare la considerazione nel film che ha il reverendo King di chi porta avanti la stessa lotta su posizioni decisamente più radicali delle sue. Secondo King costoro, a differenza del suo movimento non-violento, non avrebbero mai portato a casa nessun risultato concreto, il che risulta falso da un punto di vista storico. Ricordiamo quanto osserva a questo proposito D. Losurdo: «quando comincia a cadere in crisi negli Usa il regime di supremazia bianca, di oppressione e discriminazione razziale a danno in primo luogo dei neri? Nel dicembre 1952 il ministro statunitense della giustizia invia alla Corte Suprema, impegnata a discutere la questione dell’integrazione nelle scuole pubbliche, una lettera eloquente: “La discriminazione razziale porta acqua alla propaganda comunista. (…) E’ solo a questo punto che la Corte Suprema si decide a dichiarare incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche» [6].
Dunque se oggi il film su Martin L. King non può che apparire un’opera coraggiosa di denuncia politica e sociale, questo è anche indizio dei tempi bui che viviamo, considerando che ancora pochi anni fa i registi neri statunitensi preferivano esporre nei loro film personaggi su posizioni decisamente più radicali e avanzate, basti ricordare Malcom X di Spike Lee del 1992 o Panther di Mario Van Peebles del 1995. Tanto più che nel film non solo si rappresenta in modo edulcorato i rapporti di King con la moglie, sottacendo i ripetuti tradimenti, ma non si considera mai con un minimo di sguardo straniato l’afflato pretesco del personaggio, in cui anche l’interprete si impersona in modo del tutto acritico. Appena sfiorate sono anche le contraddittorie posizioni del non-violento reverendo King, che da una parte condanna in modo spietato i neri che come Malcom X reagiscono alla violenza dei bianchi, ma dall’altra fino agli ultimissimi anni della sua vita non denuncia affatto il massacro indiscriminato che gli Stati Uniti stavano commettendo con i loro bombardamenti terroristici sull’Indocina, puntando alla cooptazione dei neri nel “sogno americano” [7].
Interessante nella sua contraddittorietà è anche il finale di Selma, che rispecchia la contraddittorietà del reverendo King. Da una parte la conclusione è stata da più parti denunciata come buonista, soprattutto verso il presidente democratico Johnson e in fondo tutti sappiamo che dopo la vittoria di Selma del ’65, le battaglie dei neri per i diritti non sono finite. Tanto più che l’utilizzo di Oprah Winfrey come interprete dell’attivista nera che in modo più costante, dall’inizio del film, si batte per la conquista dei diritti, è una scelta alquanto discutibile. Oprah Winfrey rappresenta, infatti, l’emblema stesso della realizzabilità del sogno americano anche per un nero, essendo divenuta partendo da zero una delle donne più influenti degli Usa: «l’esistenza di Oprah non soltanto dimostra che il sogno americano esiste; priva di ogni scusante coloro che non ci hanno creduto, che non ce l’hanno fatta. L’assunto che restare un perdente è dovuto soprattutto a una mancanza di fiducia in sé stessi, a una scarsa determinazione nella conquista della propria felicità, è da sempre un tratto distintivo del pensiero americano, se non il tratto per eccellenza, quello dal quale tutti gli altri discendono» [8]. Dunque, la conclusione del film sembra lasciar intendere che la lotta per i diritti dei neri si sia conclusa con un pieno successo, nonostante o anche grazie al sacrificio di King, cosa del tutto non corrispondente alla realtà, considerato che se si considera la fascia d’età tra i 20 e i 34 anni, 1 nero su 9 è recluso in carcere.
D’altra parte è necessario, secondo noi, soprattutto per il momento in cui viviamo, il giusto messaggio che viene lanciato dal film ovvero che la lotta paga e che i diritti sono una conquista storica delle classi subalterne e non una gentile concessione delle classi dominanti. Per questo motivo un unico Oscar alla miglior canzone (mentre avrebbe meritato di più anche da questo limitato punto di vista la bella ed efficace colonna sonora) per un film, che a differenza degli altri in lizza, si distingue per un contenuto significativo ed è anche narrato in modo gradevole e recitato magistralmente, ci sembra veramente un’ingiustizia, segno dei tempi, del resto. Come segno dei tempi è certamente il successo al botteghino di American Sniper, che ha avuto un numero di spettatori nettamente superiore a Selma e un sostegno decisamente maggiore da parte di un considerevole numero di critici della a-sinistra italiana.
Note
[1] Per questo aspetto cfr. la recensione su “Il manifesto” del 12.02.2015 di Giulia D’agnolo Vallan.
[2] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, 4 voll., Torino 1975, p. 748-9.
[3] Per questo tema, anche rispetto alla figura di Gandhi, oltre che di Martin Luther King, cfr. Losurdo D., La non-violenza, una storia fuori dal mito, Laterza, Bari, 2010.
[4] Cfr. a questo proposito l’interessante studio di Domenico Losurdo, La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Roma-Bari 2010.
[5] Rispetto al tema della lotta per il diritto di voto, cfr. Losurdo D., Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, Bollati Boringhieri, Torino, 1993.
[6] Intervista di Tian Shigang al "Chinese Social Sciences Today" del 29 novembre 2011.
[7] Anche su questo tema rinviamo al prezioso La non-violenza, una storia fuori dal mito di Domenico Losurdo.
[8] Tommaso Pincio, Nei soldi un prezzo per la solitudine, in «Il manifesto» del 25 febbraio 2015.
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