The Social Dilemma di Jeff Orlowski, documentario, Usa, 2020, voto 6+; documentario didattico molto valido per mettere in guardia rispetto alla nuova forma di oppio del popolo, ovvero i social media. A tratti nel documentario gli esperti critici intuiscono che il problema non è tanto nella tecnologia, ma nell’uso capitalistico che se ne fa, funzionale al profitto di pochi grandi imprenditori. Purtroppo nel loro specialismo, non sono in grado di sviluppare adeguatamente questo decisivo punto di vista. Infine, quando si trattano gli effetti sul piano internazionale, emerge la naturale inclinazione filoimperialismo yankee anche da parte dei più critici statunitensi che indicano tra i principali pericoli dei social media proprio l’uso che ne possono fare i cosiddetti imperi del male come Russia e Cina per perseguire le loro mire di interferenza nella politica interna degli Stati Uniti! Senza vedere come i social siano da sempre un’arma del dominio imperialista statunitense a sostegno della sua costante ingerenza negli affari interni di ogni paese del mondo.
Che fare quando il mondo è in fiamme di Roberto Minervini, documentario Italia, Francia e Usa 2019, voto: 6+; documentario su un tema sostanziale e attuale: le tragiche condizioni di vita degli afroamericani nel Sud degli Stati Uniti. Si tratta, purtroppo, in buona parte di una occasione sprecata, visto che a livello formale dominano le mode reazionarie del momento, ovvero il postmoderno e il naturalismo. D’altra parte, in controtendenza, l’autore non mostra solo la sofferenza e le ingiustizie patite degli afroamericani, ma anche la loro volontà di lotta e di riscatto. Ancora più in controtendenza è il fatto che l’opera non documenta questo spirito di rivalsa solo a livello individuale, ma anche e soprattutto nell’ottica collettiva di riorganizzazione delle Pantere nere. Il problema è che la prospettiva naturalista prescelta resta sempre alla superficie dei problemi e fa sì che il documentario sia una manifestazione della crisi e non un reale contributo al suo superamento.
Mi chiamo Francesco Totti di Alex Infascelli, documentario, Italia 2020, voto: 6+; per quanto possa apparire una pellicola senza pretese, ovvero un documentario su un calciatore, peraltro senza nessun reale interesse al di là del calcio, narrato in prima persona da un giocatore non noto per livello culturale particolarmente alto, il film risulta tutto sommato riuscito, riuscendo addirittura ad appassionare e commuovere anche il non tifoso. D’altro canto, lascia davvero poco su cui far riflettere allo spettatore.
Fabrizio De Andrè e Pfm Il Concerto Ritrovato di Walter Veltroni, Docu-fiction, Italia 2020, voto 6+; Veltroni avrebbe fatto certamente molti meno danni dandosi da subito al cinema. Il materiale proposto, per quanto unico, ha una qualità formale decisamente mediocre. L’introduzione ha spunti significativi quando contestualizza la tournée nei tardi anni Settanta, periodo in cui era ancora presente una radicalità nella società che oggi appare lontana anni luce rispetto alla nostra miseranda epoca di restaurazione liberista.
Volevo nascondermi, di Giorgio Diritti, biografico, Italia 2020, voto; 5+; sebbene il film da un punto di vista formale sia molto ben curato e spicchi l’ottima prova attoriale di Elio Germano, il contenuto lascia alquanto a desiderare. Già la vita di un pittore, in quanto tale, di per sé non ha grande rilievo, tanto più se si cede alla moda “culturale” del postmoderno, per cui la rappresentazione deve essere del tutto astratta dal luogo e dal tempo in cui si svolge e deve essere priva di qualsiasi spiegazione razionale di ciò a cui si assiste. Per esempio, al di là del mito romantico del genio naturale, nulla si capisce da dove venga la passione per le arti figurative, lo stile, i temi prescelti e le ragioni del successo di Ligabue.
Ratched, serie televisiva drammatica, thriller in 8 puntate, Usa 2020, distribuita da Netflix, voto: 5; in un’epoca di revisionismo e di vero e proprio rovescismo storico davvero non si sentiva la mancanza di una serie che provasse a rivalutare la diabolica infermiera di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Sfruttando anche una discutibile critica femminista, l’infermiera diviene ora la protagonista indiscussa della storia. Sicuramente viene meno l’unilateralità del personaggio cui si ispira, la figura dell’infermiera diviene più complessa, dialettica e, persino, affascinante. D’altra parte e come avviene molto spesso nel cinema americano in cui domina il metodo Stanislavskij, l’attrice Sarah Paulson si immedesima perfettamente nel suo personaggio, contribuendo a dargli spessore e complessità ma, al contempo, portando lo spettatore a immedesimarsi a tal punto da fargli necessariamente perdere le proprie capacità di giudizio critico sul modo di agire di un personaggio che si pone al di là del bene e del male. L’aspetto revisionista del film è evidente nel fatto che la critica sociale e politica agli istituti repressivi come i manicomi perde completamente importanza. L’aspetto rovescista risiede nel fatto che la protagonista Ratched, da colei che meglio incarna il diabolico metodo repressivo del manicomio, diviene una sorta di superuomo nietzschiano, che riesce tranquillamente a far uccidere un povero paziente pur di raggiungere il suo fine irrazionale e ultraindividualistico. Allo stesso modo, sfrutta la spaventosa pratica della lobotomizzazione e dell’immersione dei pazienti che “soffrirebbero” di lesbismo in acqua bollente, per liberarsi di due uomini che si opponevano ai suoi piani e alla sua volontà di potenza. Al contempo, proprio perché al di là del bene e del male, l’infermiera si riconosce nella sofferenza delle lesbiche torturate nella casa di cura – che hanno a tal punto introiettato la repressione sociale da vivere la propria natura come malata e peccaminosa – aiutandole a fuggire. D’altra parte, la vendetta del fratello contro il capo della chiesa che è alla base delle sofferenze sue e della morte della madre si tramuta in una selvaggia mattanza. Da questo punto di vista fratello e sorella si somigliano e – secondo una concezione vetero-naturalistica ancora assurdamente in voga negli Stati Uniti – i loro tratti criminali sembrano derivare positivisticamente dalle tragiche condizioni della loro infanzia.
In controtendenza con gli aspetti revisionisti e anche rovescisti che la caratterizzano negativamente, la serie, come spesso avviene, fa concessioni opportunistiche al pollitically correct, giocando sul tipico odio plebeo statunitense verso i politici, inevitabilmente ridotti a politicanti. Per quanto incisive possano essere le critiche rivolte al politicante ultraopportunista di turno – anche lui decisamente al di là del bene e del male – in questo caso nella rappresentazione manca qualsiasi aspetto dialettico e complesso, e la raffigurazione diviene troppo unilaterale e quasi bozzettistica.
Altrettanto fastidiosi sono alcuni aspetti decisamente splatter presenti nel film, che sembrano rivolgersi agli istinti più bassi del pubblico e sono decisamente in controtendenza con gli aspetti naturalisticamente realisti altrettanto tipici del cinema americano.
Per quanto riguarda il revisionismo e il rovescismo – secondo un’altra tendenza molto diffusa nell’industria culturale – i personaggi dialetticamente positivi, i ribelli, che incarnano il principio di speranza e lo spirito dell’utopia e che indicano una prospettiva di superamento catartico della tragedia, spariscono del tutto. Con il risultato di propinarci l’ormai consueto spettacolo a tinte fosche, nel quale sembrano esistere quasi esclusivamente personaggi negativi. Il che, oltre a essere irrealistico, rischia di giustificare certe azioni delittuose che finiscono così con l’essere del tutto naturalizzate. Tanto che, chi preserva ancora dei sentimenti umani, finisce per passare come un povero illuso, incapace di comprendere la doppiezza e la raffinata e crudele volontà di potenza degli altri. Ratched finisce così con il perseguire il classico iter delle serie prodotte dall’industria culturale con sempre più irrealistici colpi di scena, per costringere lo spettatore a seguire fino in fondo questa prima stagione e, possibilmente, anche le successive cui già si lavora alacremente. In tal modo, però, non solo si perde qualsiasi contatto con il proprio punto di partenza, ma si finisce in scenari sempre meno realistici e, dunque, sempre meno significativi.
Aumentano gli aspetti culinari e la sostanza si riduce a poche ed estemporanee osservazioni significative su alcuni aspetti nascosti del “sogno americano” a cominciare dalla barbara usanza di separare i bambini dai propri genitori, causa di enormi problemi psicologici che segneranno l’intera esistenza delle giovani vite. La vicenda narrata risale all’ingresso degli Usa nella seconda guerra mondiale, quando non solo i cittadini statunitensi di origine giapponese venivano rinchiusi in campi di concentramento, ma si procedeva non di rado all’inutile crudeltà di separarli dai propri figli. Comunque, troppo poco per continuare a seguire una serie la cui natura di merce dell’industria degli stupefacenti volti ad anestetizzare le masse emerge in modo sempre più evidente. Dimostrando ancora una volta come il capitalismo sacrifichi costantemente la forza lavoro, anche di ottimi professionisti, esclusivamente per aumentare i profitti di qualche grande investitore, gettando alla plebe una nuova dose di circenses per mantenerla nel resto del tempo sempre “all’opra china”.
#Unfit la psicologia di Donald Trump di Dan Partland, documentario, Usa 2020, voto: 5; documentario certamente valido nella critica all’ex presidente Donald Trump e nell’evidenziare i terribili pericoli provocati dalla sua presidenza. Allo stesso tempo mostra, involontariamente, tutta la debolezza, l’ignoranza e i pregiudizi dell’opposizione. Il quadro che ne esce degli Stati Uniti è davvero sconfortante e si può vedere che i pericoli di un Trump presidente non sono maggiori di quelli rappresentati dal fatto che gli Stati Uniti siano la maggiore potenza mondiale.