Rifkin’s Festival di Woody Allen, Usa, Spagna 2020, voto: 6+; film piuttosto sottotono di un grande regista. Piuttosto ripetitivo, sembra che Allen abbia ormai poco di significativo da comunicare. Interessante l’autocritica del cinefilo snob e i sogni del protagonista immaginati all’interno dei grandi classici del cinema europeo amati dal regista. Decisamente poco convincente la prova del protagonista nella sua interpretazione di Woody Allen.
The Truffle Hunters di Michael Dweck e Gregory Kershaw, documentario, Italia, Usa e Grecia 2020, voto 6+; documentario che ha ottenuto molti premi e riconoscimenti. Dal punto di vista meramente formale il documentario è certamente ammirevole, ma dal punto di vista del contenuto si mostra sostanzialmente inadeguato. Così The Truffle Hunters, per quanto assicura un certo godimento estetico, offre troppo poco su cui riflettere allo spettatore. A rendere stoltamente elitario il film interviene poi l’attitudine postmoderna per cui non solo la vicenda non è per niente contestualizzata, ma il dialetto quasi costantemente parlato nel documentario risulta in buona parte incomprensibile allo spettatore. Ci si consola con la mesta consapevolezza che, comunque, non ci si è certamente persi nulla di sostanziale.
The Outpost di Rod Lurie, drammatico, Usa 2019, voto 6+; per essere un film statunitense sull’occupazione imperialista dell’Afghanistan, basato su un fatto realmente accaduto, il film mantiene una sana attitudine di fondo. Si comprende subito la completa inettitudine dei comandi statunitensi che inviano soldati a morire per difendere avamposti indifendibili. Inoltre emerge tutta la brutalità della guerra, per quanto il regista è naturalmente embedded e racconta esclusivamente la vicenda dal punto di vista fascistoide delle forze di occupazione a stelle e strisce.
Pepe Mujica – Una vita suprema di Emir Kusturica, documentario, Argentina, Uruguay, Serbia 2018, voto: 6+; piuttosto deludente, date le aspettative, dal momento che si trattava della vita di un grande uomo politico e di un grande regista, che nel passato avevamo – forse un po’ troppo – mitizzati e che oggi sembrano ridotti all’ombra di loro stessi. Certo fra tanti farabutti che girano oggi in entrambi gli ambiti, i due hanno quanto meno mantenuto una posizione sinceramente democratica. D’altronde è evidente che entrambi hanno sostanzialmente esaurito ciò che di significativo avevano da dire e le cose più interessanti restano i ricordi del passato.
Lasciali parlare di Steven Soderbergh, drammatico, Usa 2020, voto: 6+; film certamente ben fatto, con significativi scavi psicologici e una rappresentazione realistica dei diversi personaggi. D’altra parte Lasciali parlare risulta, in buona parte, privo di contenuti sostanziali e non può che lasciare con l’amaro in bocca, dal momento che è opera di un regista che è solito metterli in scena in modo decisamente anticonformista.
Assandira di Salvatore Mereu, drammatico, Italia 2020, voto: 6+; discreto film sardo, con qualche caduta di troppo nel postmoderno, ma con alcuni spunti realistici, anche se resta predominante il naturalismo. Il tema affrontato è piuttosto interessante: lo scontro fra diverse generazioni, i valori arcaici travolti dallo spirito del capitalismo che trasforma tutto in merce, compresi i valori. Peccato che, al solito, manchi del tutto lo spirito di utopia e il principio speranza, quasi a dar a intendere che, in ultima istanza, quale unica reale alternativa all’utilitarismo e all’edonismo alienante della società capitalista vi sia – esclusivamente – il distruttivo anelito a un qualcosa di radicalmente altro, in una prospettiva (in ultima istanza) reazionaria.
La candidata ideale di Haifaa Al-Mansour, commedia drammatica, Arabia Saudita 2019, voto 6+; Interessante film sulla abominevole realtà dell’Arabia Saudita, il paese più reazionario del mondo, degno alleato di Stati Uniti e Israele. Il film è un abile strumento della nascente industria culturale per mostrare le riforme di facciata operate ultimamente nel regno, in modo gattopardesco. D’altra parte tali riforme sono, come al solito, in primo luogo il prodotto di coraggiose lotte contro la mentalità ultraretrograda di questa tirannide orientale. Certo il film è una commedia, con lieto fine, piuttosto edulcorata rispetto alla tragica realtà per cui, per esempio, le donne che si sono coraggiosamente battute per poter guidare sono finite in carcere dove sono state violentate e torturate.
Mai raramente a volte sempre di Eliza Hittman, drammatico, Usa 2020, 6+; interessante film di denuncia della condizione di una minorenne, rimasta incinta da un uomo che non la ama e che molto probabilmente la maltratta o addirittura ha abusato di lei. La situazione è resa ancora più problematica dalla situazione economica non florida e da una famiglia cui non può chiedere aiuto in questa situazione. Inoltre, venendo da un piccolo centro, il consultorio è controllato da integralisti cattolici. La protagonista è quindi costretta – pur essendo priva di mezzi – a raggiungere New York. Peccato che la vicenda, per quanto toccante, è narrata in modo naturalistico e non realistico. Finisce così per non riuscire ad andare molto al di là della superficie dei problemi, anche sostanziali, che affronta.
Carla – Il film di Emanuele Imbucci, biografico 2021, Distribuzione QMI, voto: 6+; interessante, godibile e istruttivo film sulla eccezionale storia di Carla Fracci che, sebbene proletaria e donna, riesce ad affermarsi a livello internazionale, grazia alla tenacia e alla mancanza di paura dinanzi anche alle sfide più complesse. Il film mostra come Fracci non rinneghi mai le sue origini proletarie e non dimentichi mai di difendere i diritti della forza lavoro femminile, come quando decide di divenire madre, prima e unica fra le grandi ballerine del tempo, costrette a rinunciarvi per poter far carriera. Il film è stato ingiustamente denigrato dalla critica cinefila in quanto non fa concessioni al postmodernismo, al formalismo e al gusto del grottesco. Certo, dal punto di vista formale Carla non risulta particolarmente curato, appare un po’ scontato e prevedibile. Anche dal punto di vista del contenuto viene completamente omessa la sua scelta politica a favore del comunismo. Al contrario nel film la si fa apparire come contraria al conflitto sociale, tanto da non battersi per i propri diritti quando le viene preferita la decisamente peggiore ballerina aristocratica, accusando di invidia l’unica ballerina pronta a denunciare il classismo dominante anche nella selezione all’interno della Scala. Nel film si esalta, invece, l’amicizia di Fracci con l’ex ballerina aristocratica, mentre si condanna come maligna, arrivista e invidiosa l’unica ballerina della Scala decisa a difendere gli interessi dei ballerini figli del popolo.
Il silenzio grande di Alessandro Gassman, commedia, Italia e Polonia 2021, distribuito da Vision Distribution, voto: 6+; film godibile che evita cadute nel postmoderno e nel grottesco. Il silenzio grande presenta dei personaggi piuttosto realistici e tipici, assicura un certo godimento estetico e lascia qualcosa su cui riflettere lo spettatore, per quanto concerne il rapporto fra vita contemplativa e vita attiva e nelle relazioni all’interno della famiglia, che analizza con un certo acume psicologico. Peccato che restino al solito fuori le problematiche legate al mondo del lavoro e la concezione della storia come lotta di classe. Non cogliendo le problematiche economiche, sociali e politiche il film finisce con il rimanere troppo alla superficie fenomenica dei problemi reali, peraltro affrontati dal punto di vista buonista e ottimista della commedia.
Se succede qualcosa, vi voglio bene di Michael Govier e Will McCormack, cortometraggio di animazione, Usa 2020, distribuito da Netflix, voto: 6+; sinceramente da un cortometraggio di animazione vincitore di un premio Oscar ci si aspetterebbe qualcosa di più. Ciò non toglie che il cortometraggio è certamente debitamente rifinito ed evita cadute nel postmoderno o nell’ideologia dominante. Inoltre, sebbene in modo troppo poco approfondito, denuncia le stragi – troppo spesso – perpetuate nelle scuole negli Stati Uniti.
The Politician 1x8 è una serie televisiva statunitense creata e prodotta da Ryan Murphy, Brad Falchuk e Ian Brennan, distribuita da Netflix, voto: 6+. L’episodio pilota, al solito molto intrigante, lancia una serie iperrealista che denuncia lo spietato e cinico arrivismo che domina la società civile negli attuali Stati Uniti d’America. In tale contesto la verità si svuota di significato dal momento che ciò che conta sono esclusivamente le apparenze. Al solito manca, però, del tutto la prospettiva che vi possa essere fra i giovani – che appaiono i più dominati da tale logica iperindividualista – anche un solo personaggio che rompa con un ambito in cui le piccole ambizioni individualiste hanno completo agio sulle grandi ambizioni collettiviste. Si finisce così, magari involontariamente, per naturalizzare tale società, dove dominano la volontà di potenza, il darwinismo sociale e la società della giungla, quasi che un altro mondo non sia più che mai necessario.
Nel secondo episodio si esaspera ulteriormente il completo rovesciamento fra realtà e apparenza, al punto che la maggior parte dei personaggi finiscono per il ritenere decisamente preferibile una finzione ben congeniata alla ricerca di una verità, che appare il più delle volte amara e inaccettabile. Tale impostazione sofistica è a tal punto dominante che persino il personaggio principale – un arrivista pieno di soldi che cerca in ogni modo e a qualsiasi prezzo di divenire presidente degli Stati Uniti – finisce, paradossalmente, per apparire meno peggio rispetto al livello ancora più basso e meschino degli altri personaggi che lo circondano. L’aspetto peggiore della serie pare proprio questo, ovvero cercare di naturalizzare l’esistente, facendo apparire il meno peggio l’unica opzione realmente possibile e desiderabile.
Con il terzo episodio la serie assume sempre più la forma di un’apologia indiretta del “cinismo da cretini” di cui buona parte della popolazione statunitense pare essere affetta. Come si suol dire, mal comune mezzo gaudio, in particolare per i più ricchi che, in un mondo in cui vige il principio dell’homo homini lupus – ossia un principio tanto negativo da rendere positivo persino l’assolutismo – avendo più mezzi hanno maggiori possibilità di imporsi in questo darwinismo sociale che non premia i più capaci (a adattarsi), ma chi parte – per essere membro di una famiglia abbiente e intellettuale – con un notevole vantaggio rispetto agli altri.
Nel quarto episodio abbiamo l’ormai consueta ripresa e attualizzazione del grande romanzo anglosassone stile vanity fair. Naturalmente viene messa a nudo e denunciata nei termini più radicali la spaventosa ipocrisia che domina fra le classi dominanti e si estende anche a una parte significativa delle classi dominate. Il problema è che i personaggi non negativi e non compiutamente travolti da cinismo e ipocrisia sono personaggi delle classi dominate che, in quanto tali, non sono presi sul serio, per la loro infantile ingenuità, a causa di un’attitudine degli autori da nipotini di padre Bresciani.
Il quinto episodio rappresenta una decisa caduta di tono essendo realizzato unicamente per allungare, rendendolo più insipido, il brodo. L’episodio è un inutile detour, gratuito e pesantemente ripetitivo. Peraltro l’episodio contribuisce a rendere ancora meno realista e appassionante una sfida elettorale, combattuta all’ultimo sangue, per eleggere un mero rappresentante degli studenti.
La serie continua a perdere sempre più drammaticamente quota con un sesto episodio in cui si sviluppa un ulteriore detour, almeno apparentemente ancora più gratuito del precedente. Peraltro nell’episodio emerge la cattiveria assoluta di una serie di personaggi – guarda caso tutti appartenenti alle classi subalterne – del tutto inverosimile e, anch’essa, decisamente gratuita. Il tutto rende alquanto noiosa la puntata e fa sorgere il dubbio se abbia ancora senso seguire una serie del genere di cui, peraltro, è già stata realizzata la seconda stagione.
Con il settimo episodio la serie torna a sviluppare il proprio filone principale, ovvero la denuncia del cinismo della società contemporanea, che finisce però con l’assolvere sostanzialmente il politicante, in quanto se “così fan tutti”, lui almeno lo fa con un obiettivo ben preciso e con un fine non apertamente particolaristico. In tal modo però, si rischia il rovescismo del rivalutare, nell’ottica del meno peggio, anche il politicante più assetato di potere.
L’ultimo episodio è funzionale a lanciare la seconda serie. Abbiamo di nuovo la politica a stelle e strisce in tutto il suo squallore, che però continua a essere – per quanto paradossale possa apparire – l’unico obiettivo per dare un senso alla propria esistenza per diversi giovani americani. In mancanza di grandi ambizioni, persino l’arrivismo sfrenato delle piccole può sembrare qualcosa di sostanziale su cui impegnarsi. Alla fine non si sa se piangere o ridere.
Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, drammatico, Francia 1960, distribuito da Cineteca di Bologna da luglio 2021, voto: 6,5; decisamente uno dei film più sopravvalutati della storia del cinema, addirittura considerato fra i 30 migliori film europei di tutti i tempi. Per quanto possa apparire in certi momenti godibile, il film ha un interesse soltanto dal punto di vista formalistico, mentre dal punto di vista del contenuto non ha proprio nulla di significativo da comunicare. Del resto cosa ci si potrebbe aspettare da un film realizzato da critici cinematografici cinefili sostanzialmente gaullisti? Il loro, del tutto immeritato, successo è un altro frutto avvelenato della guerra fredda, dell’anticomunismo e della conseguente strenua lotta contro ogni forma di realismo.
Beckett di Ferdinando Cito Filomarino, azione, drammatico, thriller, Italia, Brasile, Grecia, Usa 2021, voto 6+; il regista cerca di realizzare un godibile B movie sullo sfondo di questioni sostanziali dal punto di vista politico e sociale, come la lotta del popolo greco contro l’austerità, le trame eversive della estrema destra, coperte, almeno sembra, da parte consistente delle “forze del disordine borghese” e anche, a quanto pare, da membri dell’ambasciata americana. Alla fine sembra esserci troppa carne al fuoco, ci sono diversi spunti significativi che tendono però a perdersi, anche perché il film non ha il coraggio di portare fino in fondo la sua denuncia sociale e politica.
Little Joe di Jessica Hausner, drammatico, Austria, Gran Bretagna, Germania 2019, 6+; film di denuncia abbastanza riuscito sui rischi delle manipolazioni genetiche e sull’industria culturale che pretende che le persone possano essere felici nonostante la società repressiva in cui vivono. A non convincere, oltre la mancanza di una catarsi alla tragedia e una prospettiva di superamento dialettico, vi è la solita distopia secondo cui mediante la tecnologia e l’intelligenza artificiale si possano controllare le menti umane. In questo caso è addirittura una pianta nata da manipolazioni genetiche che diviene in grado di dominare completamente, in modo del tutto inverosimile, le menti umane. Per il resto il film è decisamente ispirato alla visione del mondo di Adorno, condividendone pregi e difetti. Dunque, un’efficace critica dell’industria culturale e della pretesa dell’ideologia dominante di spacciare l’esistente come razionale. In tale ottica adorniana si pretende di individuare un’ancora di salvezza nell’arte che, mediante la sua forma dissonante, metterebbe in discussione il pensiero unico.
In the Mood for Love di Wong Kar Wai, Cina (Hong Kong) 1999, voto: 6+; film incredibilmente sopravvalutato tanto da essere addirittura considerato un grande classico del cinema mondiale. Per quanto indubbiamente ben realizzato dal punto di vista tecnico, In the mood for love è tutto imperniato su un plot iper-romantico e decisamente noioso. La storia è incentrata su una potenziale storia d’amore fra due persone tradite dai reciproci coniugi, che non si realizza mai a causa dei costumi patriarcali e decisamente reazionari dominanti – almeno al tempo del film – a Hong Kong.
Come un gatto in tangenziale – Ritorno a Coccia di Morto di Riccardo Milani, commedia, Italia 2021, voto: 6+; al contrario del solito, in questo caso la ripresa di un film di successo riesce a essere decisamente migliore del precedente. Gli aspetti più gretti e quasi razzisti restano qui sostanzialmente sullo sfondo, mentre si mediano messaggi progressisti piuttosto avanzati per un film di cassetta. Resta il consueto problema della commedia moderna in cui la conciliazione è piuttosto scontata e la prospettiva che si apre appare poco realistica. Spicca, anche in questo caso, la cura formale nel montaggio.
Euphoria è una serie televisiva statunitense creata e scritta da Sam Levinson e distribuita in Italia da Sky Atlantic in 8 episodi e 2 special, voto: 6; la serie rappresenta, in modo molto diretto e crudo, la vita travagliata di un gruppo di adolescenti statunitensi. Affronta in maniera aperta le problematiche della droga e del sesso fra gli adolescenti, senza però un reale approfondimento dal punto di vista economico e sociale.
La serie prosegue con la crudezza che la contraddistingue. Inquadra bene, dal punto di vista psicologico i personaggi, mettendone a nudo le debolezze. Denuncia il maschilismo e il machismo quotidiano e le diverse forme di violenza che subiscono le donne. Ma mostra anche, in modo significativo, la volontà di riscatto dalla subalternità. Significativa anche la denuncia di come l’industria della pornografia tenda a naturalizzare la violenza nei confronti delle donne. Resta il dubbio che, mostrando tanti adolescenti così problematici e nessun caso realmente alternativo, si finisca – magari involontariamente – per normalizzare e naturalizzare questa situazione di disagio giovanile, talvolta, peraltro, anche molto accentuato.
Il terzo episodio non delude le aspettative, la serie prosegue il suo corso, approfondendo la denuncia delle perversioni maschili, il fascismo e sessismo quotidiano, la discriminazione dei transgender, il dramma della droga e i problemi di una generazione di adolescenti privi completamente di spirito dell’utopia e della stessa speranza in un mondo migliore. Perciò vivono completamente schiacciati nella tenebra del quotidiano, dominati dalle apparenze e convinti che si possa essere felici anche disinteressandosi dei problemi politici e sociali. SI tratta, in effetti, di adolescenti del tutto privi di grandi ambizioni, come quella di contribuire alla lotta per l’emancipazione umana. In tale quadro sconfortante non sembrano esserci reali vie di uscita, se non in una storia d’amore adolescenziale magari interrazziale.
Nel quarto episodio emerge ulteriormente la violenza connessa alla sfera della sessualità, legata al permanere della struttura patriarcale e machista all’interno di una società maschilista. Per cui se da un lato la repressione della sessualità sembra ormai del tutto superata, rimane ancora un radicato pregiudizio moralistico che tende a colpevolizzare la ricerca del piacere da parte della donna. Significativo anche il perverso rapporto fra una sessualità distorta e tutta l’ipocrisia tipicamente puritana. Egualmente degna di nota è la rappresentazione realistica del fascismo quotidiano, espressione tipica della classe dominante. Colpisce, infine, come le tendenze transgender di un bambino siano cercate di curare dalla madre facendolo rinchiudere in un ultrarepressivo ospedale psichiatrico. Resta in definitiva ancora molto valida la critica di Marcuse alla desublimazione repressiva caratteristica della società a capitalismo maturo, che tende a ridurre l’individuo, come gli adolescenti della serie, a un uomo a una sola dimensione.
Nel quinto episodio vediamo come una storia d’amore, per quanto non tradizionale, possa dare la forza sufficiente per uscire dal tunnel della droga. Dall’altra parte abbiamo l’esempio negativo di una storia “d’amore” fra due opportunisti, la prima che intende fare la mantenuta, il secondo che mira a instaurare l’unico rapporto che conosce, quello fra servo e padrone. Quest’ultimo è dominato come il tiranno dal desiderio sessuale, il che gli rende difficile mantenere le apparenze di ben pensante alto-borghese. Anche in questo episodio non usciamo da relazioni di coppia, d’amore o di sesso che, per quanto ben descritte, rendono un po’ asfittico il respiro della serie.
Nel sesto episodio la serie diviene più cruda che mai. Emerge chiaramente la violenza maschilista e del fascismo pariolino che si impone sul diritto all’emancipazione anche sessuale della donna e approfitta dell’oppressione dei più deboli, come la giovane transgender. Anche in questo caso c’è indubbiamente del realismo, anche se si tratta di un realismo assolutamente non socialista, in quanto non si palesano significative reazioni all’affermarsi della volontà di potenza del più forte e più violento.
Il settimo episodio è piuttosto soporifero, non aggiunge nulla di sostanziale ai precedenti, anche se continua nell’indagine attenta delle turbe psicologiche di alcuni rappresentanti, più o meno tipici, dei moderni adolescenti. Significativa la denuncia di tutte le malefatte del principale rappresentante tipico delle classi dominanti, che finisce per essere ben peggiore degli stessi piccoli trafficanti di droga e riesce a utilizzare per i propri loschi fini anche le leggi e le forze dell’ordine (borghese).
L’ottavo episodio si chiude un po’ sottotono, troppe questioni restano irrisolte, per lasciare spazio a una seconda serie, poi bloccata dalla pandemia. L’ultimo episodio è più ricercato dal punto di vista formale, con un significativo montaggio parallelo, che però finisce per non essere realmente funzionale dal punto di vista della storia, rischiando di apparire un po’ superfluo. Per quanto riguarda la catarsi in alcuni casi si realizza, nella forma di commedia, in altri, più realisticamente avviene solo in parte in modo più drammatico e realistico. Il problema è che rimanendo tutto sostanzialmente incentrato sui rapporti di coppia, considerati in modo sostanzialmente astratto dalle problematiche politiche e sociali, la serie conferma di avere un difetto strutturale di spessore, per quanto possa apparire a tratti anche decisamente cruda.
Nel primo episodio speciale tutto è ridotto al minimo per rispettare i protocolli durante la pandemia. La serie subisce un profondo mutamento, abbandona il suo frizzante, ma un po’ troppo superficiale, mix di adolescenti, sesso e droga, per divenire un decisamente più profondo, ma altrettanto nettamente più noioso teatro filmato, peraltro ridotto a un interminabile dialogo fra la protagonista – sempre afflitta dalla dipendenza della droga e dal mal d’amore – e un maturo ex tossicodipendente afroamericano. Quest’ultimo ha superato la dipendenza dalla droga, è decisamente più maturo, ha vissuto in anni certamente più rivoluzionari e non è meticcio come la protagonista. Ha le idee decisamente più chiare e per la prima volta introduce nel film una discussione più approfondita e critica sulla dipendenza dalla droga e, altrettanto per la prima volta, riflessioni più elevate dal punto di vista sociale e politico. Ma su questo piano il dialogo con l’adolescente completamente spoliticizzata e di fondo inconsapevole non può svilupparsi e peraltro, per quanto decisamente più avanzato, l’afroamericano ha diverse contraddizioni, a partire da quella religiosa, che lo rendono meno credibile ed efficace e lo rivelano, nonostante la buona volontà, un socialconfuso.
La serie è seriamente compromessa dal secondo e ultimo episodio speciale. Perciò consiglio, a chi la volesse vedere, di evitare i due episodi “speciali”. Si tratta sostanzialmente di un lunghissimo e molto monotono monologo dell’altra protagonista, Jules, tutto incentrato su amore e sessualità e poco significativo anche dal punto di vista dell’indagine psicologica, oltre che decisamente soporifero.
Happy Together di Wong Kar-Wai, drammatico, Hong Kong 1997, voto: 6; uno dei risultati prodotti dalla dissoluzione del blocco sovietico è il predominio sostanzialmente incontrastato, anche a sinistra, del formalismo. In realtà la sconfitta sul piano politico era stata già anticipata e preparata sul piano del conflitto delle idee – nel corso della guerra di logoramento per conquistare l’egemonia sulla società civile. In tale scontro ideologico, già nel corso degli anni sessanta, aveva iniziato a prevalere la concezione ideologica del formalismo da sempre cavallo di battaglia di conservatori e reazionari. Tale posizione negli anni Novanta si è imposta a livello internazionale come pensiero unico. Solo così si spiega il grande successo di critica e la sua riproposizione come se fosse un grande classico del cinema di un film alquanto modesto che lascia davvero ben poco su cui riflettere allo spettatore. Del resto è evidente che tanto il regista che la critica, senza sostanziali differenze fra destra e sinistra, hanno dato la completa prevalenza agli aspetti formali, snobbando decisamente la necessaria dialettica fra forma e contenuto.
Hunters, serie statunitense del 2020, 1x10, scritta e ideata da David Weil, voto: 6; la serie è sicuramente godibile e tocca una questione significativa, il fatto che gli ebrei siano stati costretti a farsi giustizia da soli nei confronti di diversi criminali nazisti. Significativo anche come diversi di questi ultimi abbiano vissuto tranquillamente, avendo posti di tutto rilievo, ai vertici degli Stati Uniti. Altrettanto significativo è che gli organi repressivi degli Stati Uniti siano scarsamente interessati a ricercarli. Anzi, come osserva un nazista infiltrato ai vertici dello Stato, gli statunitensi sono troppo impegnati a combattere gli afroamericani, che non si occupano minimamente del riorganizzarsi delle forze naziste. Peccato che non emerga il motivo perché ciò è avvenuto, ovvero in primo luogo grazie all’intervento del Vaticano e, in secondo luogo, con la guerra fredda, che ha portato gli antisovietici ad arruolare nazifascisti in funzione anticomunista. Inoltre, nel film si dà a intendere che i nazisti agissero organizzati, come uno Stato nello Stato, mentre in realtà si erano perfettamente integrati nei paesi imperialisti e nei loro alleati, per portare avanti la loro politica reazionaria e anticomunista. Infine, nella serie ci sono aspetti piuttosto pericolosi, ossia che gli ebrei sono da sempre stati perseguitati e, quindi, sarebbero costretti a portare avanti una guerra preventiva, con tutti i mezzi necessari, contro i loro nemici.
Il secondo episodio, come spesso accade, mette in evidenza i principali difetti della serie. Innanzitutto emerge il suo essere, in realtà, l’ennesima merce dell’industria culturale, ideata al solito su dei supereroi in lotta contro mostri adialettici che incarnano il male radicale. D’altra parte, nel caso specifico, sembrano combattere per una questione sostanziale, ovvero punire i criminali nazisti impuniti e sventare i loro piani. In entrambi i casi però si occulta la causa della loro impunità, che così serve solo per giustificare il solito copione fascista per cui, dal momento che gli apparati polizieschi non sarebbero sufficientemente repressivi con coloro che incarnano il male radicale, i cittadini dovrebbero imparare a farsi giustizia da sé, peraltro utilizzando gli stessi metodi razzisti e le stesse torture che imputano ai loro nemici. Abbiamo così un ulteriore sdoganamento della tortura e del principio barbaro per cui non si fanno prigionieri. Tanto più che a capo dei cacciatori non ci poteva che essere un magnate miliardario, necessario per non mettere in discussione gli irrazionali e più ingiusti privilegi dei monopolisti sfruttatori. Anche perché, al solito, non emerge che milionari si diventa essenzialmente sfruttando il lavoro altrui. Infine abbiamo una completa apologia della religione ebraica anche nei suoi aspetti più arcaici e retrivi. Per cui, ad esempio, svolgerebbe una funzione essenziale una sensale, che organizza matrimoni fra ebrei che metterebbero al mondo tanti bambini per ripopolare il popolo di dio sterminato dai nazisti.
Il terzo episodio è senza infamia e senza lode. Vengono, per il momento, messi da parte i metodi nazisti degli antinazisti. Emergono le contraddizioni interne dello Fbi, che emargina una valida agente, solo perché afroamericana e donna. Le discriminazione che subisce la portano a nascondere la propria omosessualità. Appare, inoltre, come i nazisti abbiano complicità significative dentro lo Fbi che, da questo punto di vista, non appare un pericolo per loro. D’altra parte il rovescismo storico, per cui tutta una serie di attentati, a partire da quello di Robert Kennedy, sarebbe stato organizzato da una fantomatica rete di nazisti, quasi tutti tedeschi o di origine germanica, rimane il modo migliore per mondare le colpe dell’imperialismo americano. Ciò è reso possibile dalla linea rovescista dominante secondo la quale l’imperialismo a stelle e strisce non avrebbe nulla a che vedere con il nazifascismo, anzi avrebbe dato un contributo essenziale alla sconfitta di quest’ultimo.
Il quarto episodio ha un buon ritmo, è certamente piacevole, anche perché meno lungo dei primi due, ma non bello. Significativa la denuncia che emerge dall’episodio del banchiere svizzero che nasconde le ricchezze derubate dai nazisti agli ebrei e, più in generale, la denuncia delle ricchezze prodotte in modo sporco. Restano due problemi di fondo: innanzitutto il dare a intendere che il pericolo per l’umanità sia costituito dal residuo di vecchi nazisti e non dall’imperialismo, in primo luogo anglosassone, europeo e giapponese e dai loro reazionari alleati. In secondo luogo vi è una mistificazione negazionista per cui pare che i nazisti sarebbero da punire quasi esclusivamente in quanto hanno perseguitato gli ebrei, tacendo tutte le altre nefandezze e genocidi di cui sono macchiati. Allo stesso tempo si dà l’idea che i campi di concentramento fossero riservati ai soli ebrei, senza minimamente menzionare tutti gli altri detenuti. Così si finisce con il presentare il conflitto contro il nazifascismo come un regolamento dei conti fra ebrei e nazisti, quasi si trattasse di una vendetta personale e non di un problema che riguarda chiunque si opponga alla forze che si battono per la de-emancipazione del genere umano.
Il quinto e sesto episodio sviluppano un tema importante, ovvero come gli Stati Uniti, sotto il governo democratico di Carter, siano stati influenzati da elementi dell’estrema destra per eliminare ogni forma di embargo alle dittature fasciste del Sudamerica. La scusa – presa sostanzialmente per buona dalla serie – è che altrimenti, isolando tali paesi, sarebbero potuti entrare nell’orbita comunista. Siamo, dunque, ancora in pieno rovescismo storico, con un’apologia indiretta dell’imperialismo. Stesso discorso vale per l’altra grande rivelazione del film, ossia il fatto che gli Stati Uniti abbiano fatto ponti d’oro a quadri nazisti affinché si trasferissero negli Usa e, anzi, lo stesso programma spaziale sarebbe stato un vero e proprio covo di nazisti. Anche in questo caso, per giustificare l’imperialismo a stelle e strisce, si presenta tale piano come una sorta di azione bellica preventiva, per evitare che gli ex nazisti fossero arruolati dai comunisti. Naturalmente si omette che gli imperialisti tedeschi erano portati a cooperare in funzione anticomunista con gli imperialisti statunitensi, in quanto generalmente condividevano le stesse idee classiste, razziste ed eugenetiche. Nell’episodio, inoltre, si denunciano gli esperimenti sugli esseri umani portati avanti in Sud America, in particolare sotto la dittatura di estrema destra del Paraguay. Per il resto l’episodio riprende in pieno il ragionamento caro ai sionisti della destra radicale, da anni al potere in Israele, per cui gli ebrei sarebbero stati massacrati perché non avrebbero usato la stessa attitudine spietata dei loro nemici nazisti. Perciò tutta la serie è improntata su un gruppo che si organizza per rendere pan per focaccia ai nazisti, in nome della legge del taglione: occhio per occhio. In tal modo, si giustifica ogni forma di guerra sporca e di tortura, in quanto realizzate in nome, di una presunta, giusta causa. Interessante nell’episodio la sostanziale rivalutazione, anche se molto sullo sfondo, delle pantere nere, anche se i reduci da queste ultime sono posti sullo stesso piano dei Rambo di ritorno dal Vietnam. Inoltre nell’episodio vi è una posizione favorevole al mantenimento delle tradizioni anche più antiche e irrazionali dell’ebraismo, in quanto abbandonarle significherebbe darla vinta ai propri nemici. Significativa anche la critica ai religiosi cattolici, pronti ad accogliere i bambini ebrei a patto che si convertissero forzatamente al cattolicesimo, abbandonando qualsiasi legame, persino il proprio nome, con la cultura e la famiglia di provenienza. Emergono inoltre inquietanti dubbi sul miliardario a capo dei cacciatori di nazisti, che ammazza per puro istinto omicida una presunta nazista, senza aver appurato la sua effettiva identità, nel momento in cui prova a smascherarlo in quanto impostore.
Il settimo episodio comincia, finalmente, a problematizzare la semplicistica ottica della legge del taglione. D’altra parte a impedire realismo e verosimiglianza e far perdere valore conoscitivo alle serie è il dipingere adialetticamente i nemici come dei puri mostri, l’esatto contrario di tutto quell’essenziale filone di ricerche che ha al suo centro la banalità del male. Ora sarebbero i nazisti, essenzialmente tedeschi, a svolgere anche la funzione dei terroristi, pronti a far esplodere bombe biologiche. Pure in tal caso questa trovata finisce con il distogliere l’attenzione dai reali terroristi e dalle cause che li hanno prodotti. Ancora una volta scaricando tutto il male sui vecchi nazisti tedeschi, si finisce per occultare le ragioni e i modi per contrastare il male oggi preminente. Infine, dipingendo i nemici come il male radicale, qualsiasi rispetto delle norme viene presentato come un impaccio, da cui i superuomini dovrebbero liberarsi per realizzare il loro alto compito.
L’ottavo episodio prosegue sulla falsariga dei precedenti. Da una parte c’è la sacrosanta denuncia di come gli Stati Uniti abbiano riciclato il personale nazista, anche se non si dice che era in funzione anticomunista, allo scopo di non mettere in discussione gli enormi privilegi dei più ricchi. D’altra parte, si continua a esaltare la necessità per gli ebrei di vendicarsi, utilizzando gli stessi metodi dei nazisti. Significativo anche, a questo proposito, il confronto-scontro con Wisenthal che, giustamente, trova riprovevoli i mezzi utilizzati dalla sporca dozzina protagonista della serie.
La nona puntata resta interessante per lo sfondo storico, ovvero per il pronto arruolamento in snodi fondamentali dello Stato statunitense di nazisti, in funzione della guerra fredda. La solita giustificazione addotta, ossia che altrimenti lo avrebbero potuto fare i comunisti, è un mero sofisma e anche nella serie finisce per essere una debole e poco credibile copertura. Peraltro i vertici degli apparati repressivi dello Stato che portano avanti l’operazione, sono gli stessi che proseguiranno questa delicatissima operazione negli anni seguenti, continuando così a coprire l’operato dei nazisti prontamente arruolati, dopo le sole dodici condanne a morte da parte del tribunale di Norimberga. Per il resto la serie segue la sua strada sempre più fascistoide, con metodi di tortura sempre più efferati, che sarebbero però indispensabili per far fronte al male assoluto. Anche se resta aperta la lotta fra l’agente del Fbi e il miliardario a capo dei “cacciatori” per la formazione del ragazzo, che è anche il protagonista della serie.
Nel decimo episodio si mostra come i liberatori dei campi di concentramento siano i sovietici, al contrario del rovescismo storico di Benigni che li fa liberare dagli statunitensi. Inoltre, mentre i sovietici arrestano i criminali nazisti, gli statunitensi li mettono in salvo nel loro paese e il sistema impedisce anche a volenterosi e un po’ ingenui agenti di indagare sul loro passato e presente. Inoltre con un colpo di scena, per quanto inverosimile, si scopre che i più sanguinari e senza scrupoli cacciatori erano in realtà nazisti travestiti; in particolare, i personaggi più ambigui, ovvero il miliardario e la suora cattolica. Si approfondisce anche la riflessione sulla legittimità di farsi giustizia da soli; il protagonista scegliendo tale strada sembra essersi fatto egemonizzare dal modo di ragionare del miliardario. Mentre il solerte agente della polizia afroamericano, dinanzi al muro di gomma delle autorità, finisce per prendere in considerazione la proposta di una parlamentare ebrea di costituire un corpo separato per portare avanti le indagini.
Sound of Metal di Darius Marder, drammatico, musicale, Belgio, Usa 2019, voto: 6; film toccante sulle difficoltà di chi diviene diversamente abile e sui problemi nel dover ricostruire la propria vita. Il film tende a sostenere la tesi che la disabilità non debba esser considerata un caso clinico da curare, pretendendo così di riprendere la vita precedente, come se si trattasse di un handicap da superare quanto prima, ma di una nuova possibilità di vita all’interno di una comunità dove valorizzare il proprio essere diversamente abile. La contrapposizione troppo netta fra integrazione in una comunità e soluzione chirurgica appare troppo manichea, come altrettanto discutibile è la prospettiva di tenere il più possibile separati dai normodotati la comunità dei diversamente abili, invece di cercare di operare in vista della loro integrazione. Questa attitudine manichea rende il film troppo deterministico e a tesi, con una conclusione già scritta, priva di qualsiasi significativa catarsi. Il film colleziona davvero troppe candidature ai premi Oscar, fra cui – davvero ingiustificata – la candidatura a miglior film.
La traviata di Mario Martone, Italia 2021, voto: 6. La scommessa dell’autore era ripensare l’opera in un film per la televisione in era covid e rilanciare un grande spettacolo popolare del passato. Si può dire che entrambi questi ambiziosi tentativi sono sostanzialmente falliti. L’opera resta sotto tutti i punti di vista piuttosto tradizionale, non riesce a sfruttare a dovere la maggiore libertà nella messa in scena, né riesce a rendere La traviata popolare per l’odierno grande pubblico. Detto questo resta una discreta messa in scena e in più ha la lodevole funzione didattica di avvicinare l’opera lirica a un pubblico non di nicchia.
Malvagi di Dan Berk e Robert Olsen, commedia, drammatico e thriller, Usa 2019, voto: 6; film senza grandi pretese fatto con un budget decisamente limitato, dimostra ancora una volta la grande abilità dei lavoratori del cinema statunitense. Anche perché non hanno quegli aspetti decadenti, grotteschi e postmoderni così caratteristici del cinema europeo. Il film è costruito molto bene, vi sono diversi colpi di scena. Si tratta di un filmetto godibile, che riprende adeguatamente la struttura tragica, rimanendo comunque brillante. Contiene anche elementi sostanziali, come la efficace critica della brutalità del ceto medio statunitense dell’interno del paese, che cela dietro il proprio perbenismo puritano dei veri e propri scheletri negli armadi. Così riescono decisamente più umani i due giovani scapestrati rapinatori, che hanno una morale decisamente superiore all’etica della middle class Wasp. Peccato che resti questa sostanziale apologia, tipicamente piccolo-borghese, del piccolo criminale, un po’ anarcoide, che ancora crede al sogno americano e non riesce ad aspirare a niente altro che a una vita – del tutto inverosimile – da piccolo imprenditore dal volto umano.
Weekend di Riccardo Grandi, thriller, Italia 2020, voto: 6; prodotto di buona qualità dell’industria culturale italiana. Thriller ben costruito, senza cadute ideologiche nel postmoderno, anzi il film demistifica il perbenismo del ricco uomo d’affari e dell’affermato medico, padre di famiglia, come del figlio dell’industriale tutti, in modo più o meno diretto, corresponsabili della morte del loro ricco amico, anche lui e la madre tutt’altro che degli stinchi di santo. Resta purtroppo la quasi completa assenza di un personaggio positivo, che possa in qualche modo indicare una possibile catarsi, un qualche riscatto. In tal modo, il film resta privo di principio speranza e di spirito d’utopia, dimostra un buon pessimismo della ragione a cui purtroppo non si accompagna l’egualmente necessario ottimismo della volontà.
David Attenborough: una vita sul nostro pianeta di Alastair Fothergill, Jonathan Hughes, Keith Scholey documentario, Netflix, Regno unito 2020, voto: 6; tipico documentario di denuncia della devastazione dell’ambiente, ricco di immagini molto suggestive. Al solito la denuncia dei rischi che la distruzione dell’habitat naturale dell’uomo sta provocando è molto efficace. D’altra parte, come di consueto, chi finanzia il film è parte delle cause di tale situazione e, perciò, è del tutto assente una critica al modo di produzione capitalistico e la necessità di superarlo in senso socialista. Per cui i rimedi proposti sono spesso peggiori del male che si denuncia e vanno dalla ripresa delle tesi reazionarie di Malthus a quelle, ancora più reazionarie, del secondo Heidegger.
Agatha e la verità sull'omicidio del treno di Terry Loane, giallo, Gran Bretagna 2019, voto: 6; classico giallo in stile Agatha Christie con annessa storia romantica d’amore. Rimarrebbe un discreto prodotto dell’industria culturale, se non sfiorasse alcune questioni sostanziali, quali l’emancipazione della donna, le ragione imperialiste che spingevano gli inglesi a depredare i protettorati del Medio Oriente delle loro ricchezze archeologiche, salvo poi utilizzare i mezzi anche più sporchi per prendere il controllo dei pozzi di petrolio. Interessante anche l’ambiguità dei funzionari coloniali, che nella loro attività criminale fondevano gli interessi della potenza imperialista, con la propria volontà di potenza e di depredare i popoli coloniali per arricchirsi anche personalmente alle loro spalle.
Better Days di Derek Tsang, drammatico, Hong Kong – Cina 2019, voto: 6; film indubbiamente magistralmente confezionato. Contiene una dura e sacrosanta critica della assoluta disumanità, del cieco egoismo, dell’arrivismo, del darwinismo sociale presente nelle società liberali. Peccato che esattamente come la spia anticomunista al servizio dell’imperialismo Orwel, invece di ambientare tale netta critica nel tempio del liberalismo internazionale, ossia nella sua Hong Kong, il regista lo ambienti nella Repubblica Popolare Cinese che al momento costituisce la più credibile alternativa al pensiero unico neoliberista dominante. Non a caso il film è esaltato in tutti i paesi imperialisti, che vorrebbero far credere che gli aspetti negativi del liberismo si manifesterebbero proprio in un paese guidato dal Partito comunista e non nei paesi imperialisti guidati dai neoliberisti. Una completa mistificazione ideologica della realtà resa quanto mai pericolosa dall’abilità del regista di riprodurre, nel modo più realistico, le aberrazioni del neoliberismo, per poi metterle sul conto del “comunismo”.
Sono la tua donna di Julia Hartm, drammatico e thriller, Usa 2020, voto 6; film decisamente sopravvalutato da certa critica sedicente comunista è in realtà opera sostanzialmente culinaria, una merce di media qualità dell’industria culturale. Per quanto priva di cadute nell’ideologia più becera e abbastanza ben confezionata risulta sostanzialmente priva di contenuti sostanziale, né assicura un sufficiente godimento estetico, anzi per l’eccessiva lunghezza risulta, a tratti, soporifera.
La vita che volevamo di Ulrike Kofler, drammatico, Austria 2020, voto: 6; tipico film europeo sopravvalutato sebbene non abbia fondamentalmente nulla di significativo da comunicare. Vi è una approfondita analisi entomologa dei problemi di una coppia che non riesce ad avere figli, secondo il consueto noiosissimo taglio naturalistico, messa a confronto con il dramma di una famiglia che, all’opposto, sulla base del dogma cattolico, ha messo al mondo dei bambini che poi non è in grado di formare, tanto che il più grande, in modo fin troppo scontato, tenta il suicidio. Non a caso si tratta di un film tratto da una breve novella, utile tutt’al più per realizzare un buon cortometraggio o forse un passabile medio metraggio.
La vita nascosta – Hidden Life di Terence Malick, biografico, drammatico, storico, Usa, Germania 2019, voto 6; tratto da una storia vera, narra la resistenza di un contadino austriaco alla banalità del male dello Stato totalitario nazista. Finalmente qualcuno che pensa con la sua testa e, per quanto viva in una situazione molto arretrata, riesce a comprendere che combattere per la Germania nazista significa partecipare alla lotta contro l’emancipazione del genere umano. Per questo considera nel giusto chi combatte per difendersi dall’aggressione del Terzo Reich. Peccato che il film sia pieno di cadute nel postmoderno, come l’esaltazione della vita agraria in mezzo alle montagne, separando la bellezza della natura, dalla tragica limitatezza della natura umana che la abita e in cui, al contrario, trionfa la banalità del male. Significativa anche la contrapposizione fra l’eccezione, di un cristiano che prende sul serio la sua fede, e la massa dei fedeli e dei loro stessi direttori spirituali che si adagia sulla banalità del male. Peccato che il film, intriso di religiosità, sembri incapace di distinguere l’eccezione dalla regola.
They Shall Not Grow Old – Per sempre giovani di Peter Jackson, documentario, Usa 2018, voto: 6; documentario sulla Prima guerra mondiale, molto curato dal punto di vista formale, anche se sia il colorare le immagini di repertorio in bianco e nero risulta un enorme lavoro sostanzialmente fine a se stesso, sia il montaggio delle testimonianze è decisamente discutibile tanto dal punto di vista strutturale che contenutistico. Innanzitutto è assolutamente intollerabile il vezzo postmoderno di presentare dei documenti senza analizzarli e interpretarli, secondo il pregiudizio religioso per cui l’interpretazione invece di arricchire il mero documento lo tradisce e ne impone didatticamente una lettura. In tal modo apparentemente non si spiega nulla, lasciando del tutto abbandonato a se stesso lo spettatore, cui si dà a credere di avere dinanzi documenti oggettivi, anzi la “cosa stessa”, mentre in realtà si tratta di una necessaria selezione del tutto soggettivistica e, nel caso specifico, decisamente rovescista. Innanzitutto non si specifica da chi provengono le testimonianze che commentano le immagini, non si distingue, dunque, minimamente sul piano economico, politico, sociale e di classe l’essere sociale dei diversi testimoni. Per cui ogni testimonianza sembra riferita al fatidico uomo qualunque che si ritrova in prima linea. Al contrario, le testimonianza sono radicalmente selezionate per far passare un’immagine sostanzialmente apologetica della prima guerra imperialista mondiale, di cui si cancellano tanto le cause quanto gli effetti. Cosa ancora più grave, questa selezione improntata alla peggiore Kriegsideologie (esaltazione ideologica della guerra), non è opera di un autore convintamente e consapevolmente della destra radicale. In tal caso, per quanto si tratterebbe della peggiore scelta, ci si sarebbe assunti quanto meno la propria responsabilità. Al contrario, si tratta proprio di quella totale mancanza di pensiero critico, non a caso individuato come base del totalitarismo, che porta ad aderire autonomamente, naturalmente, all’ideologia dominante, come se si trattasse dell’unica possibile interpretazione.
Ve ne dovevate andare di David Koepp, thriller, Usa 2020, voto 6; per essere, di fatto, un film horror, è decisamente superiore alla media. Gli aspetti irrazionali finiscono per assumere un certo senso, all’interno della tragica storia del protagonista. Anzi, nella tragedia vi è anche una non disprezzabile catarsi. Per il resto rimane un pregevole B movie, con un budget molto limitato e senza grandi ambizioni, al di là della ripresa, in tono minore, del capolavoro del genere: Shining di Stanley Kubrick.
Ted Lasso, serie comica nominata ai Golden Globe, voto: 6; nel primo episodio emerge la trama: protagonista è uno statunitense che si trova catapultato in un contesto europeo che non conosce e dove è assunto come allenatore per far perdere, a sua insaputa, la sua squadra. Appare subito evidente la difficoltà di tradurre e ricontestualizzare le serie comiche, che sono generalmente un’autocritica di una certa società. In particolare si dimostra estremamente arduo comprendere e saper rendere in italiano tutta una serie di battute e giochi di parole che fanno spesso riferimento a un contesto e sono strettamente connesse a un’attualità della quale non conosce praticamente nulla lo spettatore straniero. Dunque si sconta la necessaria difficoltà, per chi è estraneo a quel contesto, di intendere le battute e di coglierne l’aspetto ironico o satirico. Tanto più se, come sempre più spesso avviene, o i traduttori sono pagati troppo poco o non hanno le necessarie competenze per poter ricontestualizzare la commedia, in quanto si assumono lavoratori non specializzati per pagarli di meno. Perciò diversi aspetti di una società che ride di se stessa, in quanto in essa ci si riconosce, per chi è estraneo a quel contesto rischiano di apparire grotteschi, superficiali o insensati.
Il secondo episodio, Biscotti, conferma l’aspetto migliore di questa commedia, ovvero la grande umanità del protagonista e la sua capacità di cercare di risolvere gli enormi problemi che si trova ad affrontare, reagendo sempre senza perdere la calma e la gioia di vivere.
Il terzo episodio, Trent Crimm: The Independent, conferma i punti di forza e debolezza della serie. Da una parte la traduzione che non riesce a tenere il ritmo delle battute e a farne intendere in pieno il significato, insieme alla profonda umanità e altruismo del protagonista, sempre pronto a capire gli altri e a incassare, nel modo migliore, anche i colpi più bassi che subisce.
Nel quarto episodio, intitolato Per i bambini, la serie rischia di divenire al quanto ripetitiva e un po’ stucchevole con il suo buonismo troppo poco realistico e la presenza di troppi personaggi stereotipati. La commedia, poi, non affronta contraddizioni sostanziali e mantiene la struttura essenzialmente conservatrice del genere. Anche la critica sociale non va mai realmente a fondo.
Il segno dell’abbronzatura: nel quinto episodio la serie riprende un po’ quota, anche per la vena drammatica e al contempo elegiaca della crisi del matrimonio del protagonista, che al contempo con coraggio e determinazione, puntando sul gioco di squadra e l’altruismo, comincia a rimettere in sesto una situazione generalmente data per spacciata.
I due assi, sesto episodio decisamente sottotono, o si tratta del classico espediente per allungare il brodo, oppure la serie ha essenzialmente terminato il poco di sostanziale che aveva da comunicare. Peraltro una parte significativa del senso della serie è stupidamente maschilista, in quanto è tutta costruita sul fatto che una donna tradita dal marito, invece di costruirsi una nuova vita, pensa solo a fargliela pagare, operando in modo meramente distruttivo nei riguardi della società di cui è padrona. Il che dà un’idea della donna come totalmente succube del marito, senza il quale si comporta come un bambino.
Make Rebecca great again, settimo episodio, rilancia la serie introducendo alcuni elementi melodrammatici che la rendono meno noiosa e scontata. Certo si resta sempre nell’ambito dell’eticità naturale e immediata della famiglia, ma i personaggi divengono un po’ più sfaccettati e dialettici.
Diamond Dogs, ottavo episodio, segna un’ulteriore ripresa della serie, con dei buoni spunti da racconto morale e alcuni sviluppi interessanti, anche se sempre nell’ambito dei rapporti fra singoli individui.
Gli ultimi due episodi sono sostanzialmente in linea con i precedenti. Il buonismo, l’altruismo, il saper prendere la vita con filosofia, il gioco di squadra, il rispetto per l’avversario etc. sono tutti dei validi elementi, in particolare per il mondo del calcio dove tende sempre più a dominare l’individualismo, la partigianeria, l’odio per l’altro, il razzismo, etc. D’altra parte, è quanto meno singolare che tutti questi valori progressisti, antitetici di fondo al pensiero unico neoliberista, siano esportati in Europa da un allenatore statunitense di football americano.
Trash – La leggenda della piramide magica di Luca Della Grotta e Francesco Dafano, animazione, Italia 2020, voto: 6; dal momento che è stato di fatto considerato il miglior film di animazione italiano dell’anno, era certo lecito aspettarsi qualcosa di più. Indubbiamente nel film ci sono delle trovate significative, a tratti i personaggi sono emozionanti e riesce a mediare in modo semplice, immediato e divertente qualche nozione base di educazione civica. Resta, dall’altra parte, la dimensione minimale che non può che lasciare l’amaro in bocca, visto che lo spirito dell’utopia si riduce alla raccolta differenziata dei rifiuti. Peraltro, con un contenuto sostanziale così scarno, sarebbe bastato un mediometraggio; in effetti, il formato standard del lungometraggio dopo un po’ diviene sostanzialmente noioso.