I Care a Lot di J. Blakeson, drammatico, Gran Bretagna 2020, voto: 6,5; il film contiene una denuncia estremamente significativa della gestione privatizzata della terza età nei paesi anglosassoni, che il governo Draghi d’accordo con l’Unione europea intenderebbe introdurre anche in Italia. Vediamo così, una spregiudicata imprenditrice farsi dare in affido dal medico curante corrotto e da un giudice ingenuo persone anziane prive di parenti o con parenti non in grado di farsi valere, per saccheggiarne gli averi, grazie alla collaborazione del dirigente di un ospizio. Nel film vi è anche una magistrale demistificazione del sogno americano, per cui l’idea che si possa aver successo grazie al duro lavoro viene giustamente presentata come un mito dei ricchi per mantenere i propri privilegi. Dunque, la protagonista è realisticamente convinta che l’unico modo per emergere nella società capitalista, nella fase in particolare dell’accumulazione primitiva, sia divenire uno squalo, anche perché l’unica alternativa per chi non è ricco di famiglia sarebbe rimanere una preda. Peccato che tale sacrosanta critica dell’avidità e della sete di potere finisca, almeno in parte, per giustificarle entrambe, nel momento in cui si trovano a scontrarsi con i consueti supercattivi, cioè i russi, al solito presentati come mafiosi. Egualmente deprecabile è il consueto individualismo sfrenato della protagonista, che viene presentata come una superdonna, senza quel necessario effetto di straniamento indispensabile allo spettatore comune per poterne considerare in modo realmente critico i crimini necessari a emergere in una società solo apparentemente e ipocritamente meritocratica.
Hollywood è una miniserie televisiva statunitense drammatica e storica del 2020, creata da Ryan Murphy e Ian Brennan, pubblicata su Netflix, voto: 6,5; l’episodio pilota è significativo in quanto fa emergere tutto il marcio che si nasconde dietro lo splendore di Hollywood, ovvero i lavori più sporchi e degradanti che devono svolgere, in particolare gli immigrati da altri Stati degli Usa e gli afroamericani, per poter avere un impiego nel mondo del cinema. Peccato che la serie non denunci tali occupazioni degradanti, ma le presenti, addirittura, come una buona occasione da non lasciarsi sfuggire.
Nel secondo episodio emerge più distintamente lo sfondo storico, che rende certamente maggiormente significativa la serie. Viene fuori nel modo più evidente l’ipocrisia puritana, per cui il cinema hollywoodiano estremamente moralista è opera di persone spesso e volentieri decisamente “epicuree”. Con la “buoncostume” intenta a perseguitare i precari di Hollywood costretti a prostituirsi per sbarcare il lunario e non i ricchi “consumatori” o gli imprenditori che sfruttano la prostituzione. La serie, fin troppo improntata al politically correct, mette in evidenza le diverse forme di discriminazione, tranne la più sostanziale, che è alla base di tutte le altre, ossia la discriminazione di classe e politica nei confronti di chi si oppone da sinistra al regima capitalista e patriarcale.
Nel terzo episodio emerge in modo più evidente come nella prostituzione, quale gavetta sostanzialmente necessaria per i lavoratori che ambiscono affermarsi a Hollywood, vi sia una peculiarità in quella praticata dagli omosessuali. In questo caso il rapporto servo-padrone che si instaura contiene al contempo un momento, per quanto paradossale, di emancipazione nei confronti dell’ipocrita moralismo puritano dominante. In tal modo, però, si rischia di perdere, come nel caso della prostituzione maschile a beneficio di donne avanti con gli anni, l’aspetto comunque violento e inaccettabile di un tale rapporto. Per il resto rimane significativa la ricostruzione storica di cosa si celi dietro l’apparente perbenismo del mondo hollywoodiano, mentre lascia completamente a desiderare la totale censura verso il clima di caccia alle streghe che di lì a poco avrebbe investito Hollywood.
Nel quarto episodio si affronta seriamente il problema del razzismo. È la stessa Eleanor Roosevelt a denunciare che le condizioni reali degli afroamericani nel Sud non sono cambiate dai tempi dello schiavismo. Emerge il potere di ricatto degli Stati razzisti, che avrebbero impedito la distribuzione di un film con una protagonista afroamericana e il potere di ricatto del Ku Klux Klan verso chi si fosse assunto un tale rischio. Abbiamo inoltre il tipico grande produttore hollywoodiano che accusa, significativamente, di essere divenuti comunisti i suoi più stretti collaboratori che non lo avevano avvisato che stava per produrre un film con uno sceneggiatore afroamericano. Significativa anche la lezione che il tentare da parte degli afroamericani di venir accettati dalla società razzista statunitense, mantenendo sempre una attitudine subalterna, non paga, mentre è essenziale la solidarietà con gli altri che subiscono analoghe discriminazioni razziali.
Da una parte la serie si concentra positivamente in una lotta contro ogni forma di discriminazione, a eccezione, naturalmente, di quelle strutturali di classe, dall’altra cerca comunque di salvare il sedicente “sogno” americano e il suo vergognoso interclassismo. Per cui persino il grande sfruttatore della prostituzione e il padrone di una major hollywoodiana si scoprono improvvisamente pronti a sacrificarsi per i diritti civili.
La serie ha un finale consapevolmente hollywoodiano in cui tutte le discriminazioni, tolte quelle strutturali, sembrano cancellate negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, cioè proprio mentre stava per scatenarsi una delle più famigerate caccia alle streghe della storia. Naturalmente, in tal modo, il film finisce con l’essere una vera e propria apologia degli Stati Uniti, facendone sparire, per magia, tutte le contraddizioni. D’altra parte il sostenere la lotta contro le discriminazioni di genere, razziali o omofobe resta, comunque, l’aspetto più significativo della serie.
The Human Voice di Pedro Almodóvar, drammatico, Usa, Spagna 2020, voto: 6,5; Almodóvar fa di necessità virtù e durante il covid realizza un bel film sulla base di un monologo di Cocteau, già alla base di una pellicola di Rossellini. Al posto di Anna Magnani, abbiamo qui un’ottima Tilda Swifton e a fare da scenografia la casa dello stesso regista. Il mediometraggio è certamente magistralmente realizzato, anche se il monologo del collaborazionista Cocteau, con il suo pesante maschilismo, non consente di realizzare una vera e propria opera d’arte, per quanto il regista cerchi di rimediare a un plot non all’altezza con una modifica del finale, che appare più che una reale soluzione catartica, un tentativo di mettere all’ultimo momento una pezza a una vicenda che oggi, fortunatamente, non può che apparire arcaica.
Ted Lasso 2x10, voto 6,5; se si ragionasse secondo la logica del “basta che funzioni”, la prima puntata della seconda stagione funziona senz’altro, è brillante, divertente, piena di buoni sentimenti, non scade mai nel volgare. È indubbiamente godibile, è utile per scaricare lo stress accumulato durante la giornata e ti aiuta a pensare positivo, prendendo la vita con filosofia come fa il protagonista della serie. Certo, senza dubbio, la serie è davvero poco ricca di problematiche sostanziali e anche come satira sociale lascia alquanto a desiderare.
Il secondo episodio, come di consueto, ridimensiona decisamente le speranze suscitate dall’episodio pilota. Ci sono troppe battute sostanzialmente incomprensibili per il pubblico italiano. La puntata resta troppo interlocutoria e apre fin troppe tracce di sviluppo. Il tentativo di recuperare in termini drammatici i colpi che si sono persi nel brio e nella brillantezza della commedia lasciano alquanto a desiderare.
Il terzo episodio, come generalmente avviene, segna una ripresa rispetto al secondo, anche se non raggiunge le vette del primo. Viene introdotto un tema sostanziale, come la necessità di prendere posizione contro il proprio sponsor, per i suoi comportamenti criminali, e contro la corruzione nel governo del proprio paese. In tal modo la serie riprende quota, in quanto il suo stile comico, senza questo passaggio eroico e melodrammatico, rischiava di rimanere troppo leggero.
Con il quarto episodio la serie perde quota concedendosi un detour natalizio molto ricco esclusivamente di buoni sentimenti. Certo questi ultimi, in un’epoca come la nostra, non fanno mai male, ma il tutto appare quanto mai inverosimile. Così, per quanto nel suo genere possa essere gradevole e ben confezionato, come episodio di una serie comica appare privo di mordente e lascia alquanto a desiderare.
Il giovane Wallander, serie svedese per Netflix, voto: 6,5; ancora una storia che ha come protagonista un uomo impegnato negli apparati repressivi di uno Stato caratterizzato dalla dittatura della borghesia. Abbiamo così un punto di vista e una visione del mondo che nasce da chi ha scelto di divenire un agente impegnato nella difesa dell’ordine costituito, fondato sulla salvaguardia degli individui (proprietari) e della loro proprietà privata. Nel caso specifico non abbiamo una denuncia degli apparati repressivi dello Stato, ma al contrario il tentativo di reinterpretare in una prospettiva democratica. Con un protagonista recluta che svolge con estrema meticolosità la sua professione. È molto legato a un suo collega afrodiscendente, vive in una banlieue, fa passare un guaio a un ricco proprietario che pretenderebbe, irrealisticamente, di umiliarli per le loro basse paghe. Si preoccupa anche di cercare di aiutare un suo vicino di casa, in quanto potrebbe essere fra i pochi a poter uscire da quel quartiere-ghetto. Infine vediamo la polizia insultata dagli antirazzisti, perché assicurano la libertà di manifestare ai razzisti e che poi interviene anche duramente contro i fascisti che vorrebbero aggredire gli immigrati. Certo, probabilmente, la polizia svedese non sarà così terribile come quella statunitense, ma questa sua rappresentazione così apologetica appare francamente del tutto irrealistica e omissiva.
Nonostante le apparenze socialdemocratiche nordiche, il film dimostra come i paesi scandinavi siano ormai subalterni al modello fascistoide americano, per cui si esalta come vero uomo il membro degli apparati repressivi dello Stato che è pronto a infrangere qualsiasi norma legale, etica e morale pur di combattere il nemico terrorista che è sempre esterno, piuttosto che occuparsi del nemico fascista interno. Così Wallander diviene responsabile del coma del suo collega e amico, sotto la sua diretta responsabilità, che abbandona a una carica di una masnada di nazisti locali, per inseguire contro ogni logica un sospettato colpevole di un altro delitto. Così, in nome della guerra di civiltà al terrorismo internazionale tutto diviene lecito, anche la trattativa con il boss mafioso locale.
La serie si riprende sensibilmente già nel terzo episodio, in cui il protagonista, dopo aver compreso che l’immigrato clandestino è stato costretto a compiere il delitto, intuisce che l’assassinio del giovane era funzionale ai disordini creati dall’estrema destra contro gli immigrati nei giorni immediatamente successivi. Resta l’apologia, assolutamente irrealista e tutta volta a confondere l’eccezione con la regola, della giovane recluta idealista che sarebbe entrata in polizia esclusivamente per poter sostenere i giovani nelle banlieue.
Nel quarto episodio, dopo l’assassinio a sfondo razzistico dell’immigrato clandestino coinvolto nel delitto, emerge come anche in Svezia a tutti i livelli si stia diffondendo, con la scusa della guerra al terrorismo, un razzismo diffuso, anche fra la classe dirigente, nei riguardi degli immigrati. Ancora più interessante è l’emergere del ruolo probabilmente pesantemente negativo nella vicenda di un giovane miliardario che si sarebbe fatto benefattore degli immigrati clandestini. Emerge, inoltre, che i vertici della polizia sembrano voler chiudere il caso, dopo aver sbattuto il mostro in prima pagina, senza voler risalire ai mandanti. Anche in questo caso, del tutto irrealisticamente, emergono almeno tre poliziotti intenzionati ad andare fino in fondo nella questione anche a loro rischio e pericolo.
Nel quinto episodio emerge il ruolo sempre più criminale della più ricca e potente famiglia svedese, che sembra coprire i propri delitti con attività di beneficenza a favore degli immigrati clandestini di cui, peraltro, le imprese per prime hanno bisogno. Resta l’inverosimiglianza del poliziotto idealista, che fa di tutto per cercare di dare una prospettiva da calciatore a un ragazzo del suo slum, senza rendersi conto che ce ne sono a centinaia di miglia nelle banlieue di tutto il mondo e che impegnando tutte le proprie energie per salvarne uno, non si fa nulla per mettere in discussione un sistema che crea centinaia di migliaia di giovani senza prospettive. Anzi, il protagonista ritiene di potersi giustificare nel proprio ruolo di difensore armato di tale sistema, con la scusa che potrebbe essere utile per salvare un singolo giovane in difficoltà, solo perché abita nello stesso suo palazzo ed è in confidenza con la madre.
L’ultimo episodio, al solito, recupera in senso conservatore la serie, inserendo una improbabile differenziazione tra miliardari buoni e cattivi. Tanto che il cattivo appare quasi una mela marcia, mentre il buono diviene quasi un paladino della lotta al razzismo. Rimane, comunque, che il crimine sfrutta i richiedenti asilo e si rifornisce di armi grazie a immigrati provenienti dalla ex Jugoslavia, anche se esisterebbero immigrati criminali buoni, in quanto collaborano con l’eroe sbirro. Il suo conclusivo abbandono della polizia non sembra nascere da una reale presa di coscienza. Anzi, sembra più condizionato dal fatto che la polizia avrebbe le mani legate da leggi garantiste che impediscono una reale persecuzione dei crimini.
La strada dei Samouni di. S. Savona, Palestina, Striscia di Gaza, dic. 2008 - genn. 2009, DocuFilm, Italia e Francia 2018, voto: 6,5; importante documentazione degli spaventosi crimini contro l’umanità portati a termine dalle truppe sioniste ai danni di povere e pacifiche famiglie di contadini palestinesi. Questi ultimi – essendo apolitici, molto religiosi, avendo lavorato per anni in Israele e avendo mantenuto rapporti pacifici anche con i coloni – non immaginavano che l’esercito occupante li avrebbe massacrati come monito per tutti i palestinesi. Molto efficaci le ricostruzioni dei tragici eventi, oltre che mediante testimonianze dirette, con efficaci inserti di animazione, molto suggestivi, e attraverso le riprese dirette realizzate da aerei e droni sionisti. Peccato che il film risulta gravemente deturpato dall’ideologia postmoderna che porta il regista a uno sguardo puramente naturalistico che resta necessariamente alla superficie dei fenomeni affrontati e pretende di narrare la storia dal punto di vista del cameriere. Tutto ciò rende insostenibile tutta la prima parte del documentario, con il risultato di allontanare anche i pochi spettatori che avrebbero potuto avere accesso a questa importante documentazione dei crimini di guerra sionisti. Particolarmente negativo è anche il punto di vista, altrettanto ideologico, delle vittime, che vengono spesso – in modo decisamente reazionario – contrapposte alle forze della resistenza.
Ma Rainey’s Black Bottom di George C. Wolfe, drammatico, Netflix, Usa 2020, voto: 6,5; film interessante ma non riuscito cinematograficamente, in quanto trattasi della trasposizione di una pièce teatrale. Al centro del film vi è lo sfruttamento della cultura musicale afroamericana, in particolare del blues, da parte della classe dominante caucasica. Il film allarga la sua denuncia alle condizioni di vita in cui erano costretti a sopravvivere gli afroamericani nel vero e proprio stato di apartheid vigente negli Stati Uniti negli anni trenta, anche nei confronti delle star musicali, con significativi riferimenti ai linciaggi di afroamericani ancora in voga negli anni venti. Nel film emerge anche la grande difficoltà degli afroamericani ad assumere coscienza di classe e a organizzarsi e battersi per la propria emancipazione collettiva, in quanto spesso prevale il tentativo individualista di fare carriera scendendo a compromessi con i dominatori caucasici. Il limite contenutistico del film è che tende a far apparire superiore proprio l’afroamericano che arriva a uccidere un suo compagno di lavoro, per sfogare la rabbia repressa per lo sfruttamento del suo genio musicale da parte dei caucasici. Mentre l’unico afroamericano dotato di un barlume di coscienza collettiva di classe è rappresentato da un vecchio e stanco personaggio di secondo piano. In tal modo, la pretesa di un sguardo “realistico” sulle contraddizioni interne ai subalterni, finisce per trasformarsi in una quasi “naturalizzazione” della loro condizione di subalternità.
Elegia americana di Ron Howard, drammatico, Usa 2020, voto: 6,5; il film descrive con sano realismo le drammatiche condizioni di vita delle classi popolari statunitensi e le enormi difficoltà di ascesa sociale, naturalmente molecolare, di chi viene da famiglie di lavoratori a causa della privatizzazione del sistema dell’istruzione. Peccato che, nonostante tutto, il film provi a rilanciare il sogno americano, ossia nel caso specifico la possibilità che avrebbe un proletario di poter accedere alle classi medie. Peraltro nel film non si mostra come per poter raggiungere tali obiettivi i figli delle classi popolari sono costretti a indebitarsi fino al collo, svolgendo così mansioni da colletti bianchi pur continuando ad avere un reddito da proletari a causa degli interessi sul debito. Inoltre si presenta in modo sostanzialmente acritico la necessità dei figli delle classi popolari, per poter accedere alle grandi università, di farsi sfruttare in lavoretti precari sin da minorenni e di volersi arruolare e prendere parte alle pericolose e criminali aggressioni imperialiste all’estero dei marines. Anzi, questa opportunità viene presentata come un mezzo quasi provvidenziale che consentirebbe ai figli del popolo di potersi pagare almeno in parte gli studi. Infine il film, non sottolinea a sufficienza che il caso in questione non è altro che l’eccezione che conferma la regola, ovvero che il sedicente sogno americano non è altro che un mito politico reazionario.
Minari di Lee Isaac Chung, drammatico, Usa 2020, voto: 6,5; film minimal ma non noioso, affronta con acutezza e delicatezza i rapporti interfamiliari e inter generazionali, in particolare fra le vecchia nonna vissuta sempre in Corea e il nipote bambino da sempre vissuto negli Stati uniti d’America. Il film tocca anche le difficili condizioni di vita della classe operaia, che aspira a divenire piccola borghesia. Siamo di nuovo dinanzi al sogno americano raccontato in tanti Western, anche se, almeno in questo caso, non ci sono autoctoni da massacrare. La conclusione del film da una parte apre la prospettiva di una riconciliazione, fondata sul reciproco riconoscimento all’interno della famiglia, anche se è poco verosimile dal punto di vista economico della società civile e finisce con il sembrare un rilancio, fuori tempo massimo, dell’american dream.
State a casa di Roan Johnson, commedia, Italia 2021, distribuito da Vision Distribution, luglio 2021, voto: 6,5; film italiano senza pretese, fatto con un budget minimo in piena pandemia, risulta decisamente migliore rispetto alle critiche che lo hanno snobbato. Il film riesce a tenere bene insieme l’aspetto della commedia e quello della tragedia, ci presenta dei personaggi realistici e procura un inaspettato godimento estetico, lasciando al contempo qualcosa su cui riflettere allo spettatore. Rispetto a tanto cinema italiano che ama rimestare nel torbido, il film rappresenta un sano esempio di discreta commedia nera.
The Dissident di Bryan Fogel, documentario, Usa 2020, voto: 6,5; significativo e anche coraggioso film di denuncia di uno degli Stati più oscurantisti e reazionari del mondo, da sempre fidato alleato dell’imperialismo occidentale, che considera questa tirannia assolutistica come capofila dei paesi arabi “moderati”. La sua influenza sui paesi imperialisti e sugli Stati Uniti ha fatto sì che, nonostante abbia barbaramente assassinato il più noto giornalista del paese – al lavoro per il Washington Post, proprietà dell’uomo più ricco del mondo – non ha dovuto subire alcun tipo di conseguenza sul piano dei rapporti internazionali. Così, sebbene l’omicidio costituisce un lampante caso di avvertimento di tipo mafioso nei confronti di qualsiasi “cittadino” osi esprimere opinioni non in linea con la monarchia assolutistica, quest’ultima non è ancora posta in questione. Peraltro, con l’aiuto dell’israeliano Pegasus, il regno è riuscito a ricattare pesantemente l’uomo più ricco del mondo e “datore di lavoro” del giornalista massacrato. Peccato che il film dal punto di vista formale sia piuttosto debole e, a tratti, finisca con il risultare alquanto noioso.
La regina degli scacchi, miniserie televisiva drammatica statunitense creata da Scott Frank e Allan Scott, distribuita in streaming il 23 ottobre 2020 su Netflix, voto: 6,5; la serie, in sette episodi, è basata sull’omonimo romanzo del 1983 di Walter Tevis. La regina degli scacchi mostra l’eccezionale determinazione di una bambina che, nonostante le gravi disgrazie che ha vissuto, riesce a emergere e imporsi in un mondo, quello degli scacchi, fino a quel momento essenzialmente maschile. Le sue capacità sono legate a una mentalità estremamente analitica e sembrano in qualche modo connesse agli psicofarmaci che usavano nell’orfanotrofio, in cui è costretta a crescere, per sedare i bambini, secondo una pratica negli anni cinquanta piuttosto diffusa negli Stati Uniti. Tanto che non si capisce quanto le sue eccezionali doti in questo gioco dipendano dagli psicofarmaci di cui, fin da piccola, abusa. Interessante il ritorno in auge di un gioco che aveva conosciuto un eccezionale successo ai tempi della guerra fredda, per poi dissolversi come neve al sole insieme al blocco sovietico dove aveva conosciuto la sua massima fioritura.
Nel secondo e nel terzo episodio crescono i dubbi sul messaggio della serie e sulla sua costruzione formale che mira a l’immedesimazione dello spettatore con la protagonista. Quest’ultima rappresenta il mito americano, ossia il mero sogno che anche il più povero possa, con l’impegno, scalare rapidissimamente la scala sociale. Tanto più che passa anche il concetto che pur di arricchirsi al più presto i giovani impegnati ad affermarsi nel mondo del lavoro facciano bene a cercare, con ogni mezzo anche illecito, di sottrarsi al diritto all’istruzione. Dando l’idea che solo una preparazione ultraspecialistica e del tutto improntata alla sua spendibilità immediata nel luogo di lavoro possa permettere un’ascesa sociale dei ceti subalterni. I quali, per non perdere tale opportunità di riscatto sociale, farebbero bene a rinunciare del tutto alla socialità, alla libido e persino a sentimenti e passioni. Anzi, per riuscire a realizzare il sogno americano, sarebbe del tutto lecito servirsi di stupefacenti che consentirebbero al lavoratore di raggiungere standard di produttività sovrumani che gli permetterebbero di vincere la concorrenza. Peraltro questa balorda idea è del tutto irrealistica e inverosimile per il caso in questione, in quanto nel gioco degli scacchi è particolarmente essenziale la lucidità e, da questo punto di vista, alcol e psicofarmaci non sono di nessunissimo aiuto. Peraltro, il far credere il contrario, favorisce l’utilizzo del doping anche tra i più giovani per prevalere nelle gare agonistiche. Infine si fa passare la balorda rappresentazione per cui la donna, per poter superare il proprio gap di genere, in una società patriarcale e maschilista, dovrebbe sviluppare sino alle estreme conseguenze gli aspetti più negativi del maschio.
Nel quarto e quinto episodio emerge come la mania per gli scacchi sia una sorta di alienazione, utile per un asociale, ma che impedisce di stabilire rapporti reali con le persone. Inoltre, emerge anche come chi dedica tutte le proprie energie agli scacchi e non conduce una vita sana e saggia rischia di bruciarsi troppo presto. Tanto più che resta l’interrogativo di fondo, ovvero una volta che si è raggiunta la vetta a cosa altro si può aspirare se si è fatto solo il giocatore di scacchi? Infine emergono i soliti pregiudizi tipici degli americani verso i sovietici, i quali non sarebbero liberi, vivendo in uno Stato di polizia, dal quale i campioni dovrebbero essere sempre controllati per non fuggire. Senza contare che questi ultimi sarebbero delle macchine, ossia degli esseri disumani. Peraltro anche l’eroina ci viene presentata come una sorta di macchina. In tal modo la rappresentazione si problematizza e diviene anche più significativa, anche se non si capiscono realmente i reali motivi di interesse della serie.
Nonostante tutto proceda abbastanza prevedibilmente verso l’hollywoodiano lieto fine, bisogna dire che inaspettatamente il film, a differenza dei consueti prodotti statunitensi, non solo non disumanizza l’avversario, ma finisce per riconoscerlo per diversi aspetti come addirittura superiore. Un vero e proprio miracolo, come il rilancio dello sport tipico dei sovietici, il gioco degli scacchi, proprio a partire dagli Stati Uniti che, vincendo la guerra fredda, lo avevano sepolto apparentemente per sempre. Molto significativo il fatto che, per poter vincere, gli statunitensi debbano seguire il modello di civiltà offerto dai sovietici, abbandonare l’individualismo e fare gioco di squadra. Quasi commovente la sportività e l’eleganza con cui i sovietici accettano la sconfitta e si complimentano con la rappresentante del paese nemico. Significativo il fatto che il Dipartimento di Stato statunitense invii, esattamente come aveva fatto precedentemente l’Urss, un rappresentante della Cia per evitare che la campionessa potesse avere qualsiasi rapporto con il “nemico”. Interessante, infine, come la protagonista non accetti in modo opportunistico di divenire strumento della guerra fredda, per poter avere dei vantaggi personali. Anzi si sfila completamente da ogni tentativo di utilizzare la sua vittoria come una prestigiosa affermazione indiretta nella guerra contro l’impero del male”, che appare molto più umano sotto diversi aspetti di quello occidentale. Resta, però, il fatto che il film dia troppo per scontato e non evidenzi a sufficienza che solo una volta, in realtà, un sovietico fu sconfitto in una finale da uno statunitense. Evento che è divenuto storico proprio perché è avvenuto un’unica volta.
I Am Greta – Una forza della natura di Nathan Grossman, documentario, Svezia 2020, voto: 6,5; un buon documentario che mostra come l’impegno di un singolo, se riesce a cogliere e interpretare un bisogno reale collettivo, è in grado di innescare una poderosa mobilitazione, come quella per il clima, purtroppo finita in secondo piano con lo scoppio della pandemia. Colpisce, inoltre, la forza e il coraggio di questa giovane adolescente che, senza mezzi termini, mette dinanzi ai “grandi” della terra le loro enormi responsabilità e le continue menzogne sul loro presunto impegno nel contribuire alla lotta per i cambiamenti climatici. Il limite del documentario è la prospettiva acritica e di fatto apologetica nei confronti di questa adolescente diversamente abile. In effetti, per quanto per molti versi ammirevole, colpisce anche negativamente l’impostazione moralista, volta a responsabilizzare il singolo, piuttosto che comprendere che si tratta di cambiare radicalmente il modo di produzione. A tratti si rischia così di scadere nel sotto consumismo e di farsi – per quanto involontariamente – strumentalizzare da personaggi molto poco raccomandabili, dal momento che manca completamente anche la più basilare conoscenza del materialismo storico.
Rocca cambia il mondo di Katja Benrath, commedia, avventura e drammatico, Germania 2019, voto: 6,5; discreto film per bambini godibile e al contempo abbastanza istruttivo. A tratti può essere apprezzato anche dai più grandi. Valido come riscatto per i kazaki pesantemente attaccati, con toni decisamente razzisti, nel vergognoso film Borat. Lo spirito della bambina e il suo modo rivoluzionario di rapportarsi al mondo a tratti è notevole. Peccato che, come spesso accade nel cinema borghese, l’impegno sociale è considerato a favore del sottoproletariato, nel caso specifico proprio del Lumpenproletariat, e mai a vantaggio della classe operaia e dei lavoratori salariati sfruttati.
Music di Sia, drammatico e musical, Usa 2021, voto 6,5; discreto film che unisce, come raramente avviene, il musical a una trama drammatica. Protagonisti sono una bambina autistica che perde improvvisamente la nonna, unico suo sostegno; una sorella alcolizzata, tossicodipendente e spacciatrice che finisce per prendersene cura, innamorandosi di un afroamericano malato di Aids, abbandonato dalla moglie che ha spostato il fratello del marito. Abbiamo infine un ragazzo obeso e presumibilmente anche lui diversamente abile, maltrattato dal padre adottivo. Nonostante tutto ciò il film riesce a essere un inno alla gioia di vivere e all’amore, imparando a prendere con filosofia le avversità della vita. Certo il buonismo finisce per trasformare il dramma in commedia, i problemi economico-sociali restano troppo sullo sfondo e, dal punto di vista del contenuto, non si va al di là dell’eticità primitiva e naturale della famiglia.
The Undoing – Le verità non dette di Susanne Bier, miniserie tv in 6 episodi, Usa 2020, distribuita in Italia su Sky, voto: 6,5; decisamente ben confezionata e ricca di suspense, a tratti tocca aspetti sostanziali, come l’ipocrisia e la totale spietatezza della classe dominante e degli avvocati che la difendono e l’estrema difficoltà a condannarne un membro, anche quando si è coperto del più spaventoso delitto. Peccato che questi aspetti sostanziali finiscano per venire, in buona parte, meno con la conclusione della serie, che cerca di far rientrare i sospetti sulla classe dominante, scaricando tutta la colpa su uno psicopatico a essa, di fatto, esterno. Il che sembra dimostrare come anche in una serie sia difficilissimo condannare la classe dominante anche quando appaiono nel modo più evidente le sue imperdonabili colpe.
Il barbiere di Siviglia di Mario Martone, Orchestra e Coro dell’Opera di Roma, Direttore Daniele Gatti, voto: 6,5; messa in scena ripensata per la televisione, vista l’impossibilità di una esecuzione dal vivo. Si tratta di una messa in scena certamente superiore al livello generalmente molto mediocre del Teatro dell’opera di Roma. Il regista sfrutta bene lo spazio della platea e non sacrifica il canto al teatro, come spesso avviene con un regista teatrale e cinematografico, con l’eccezione forse dell’interprete di Bartolo, inchiodato sulla sedia a rotelle. Peraltro questa scelta è fra le meno riuscite perché rende ancora più inverosimile e poco significativa quest’opera comica, in quanto ancora più assurda appare la pretesa di Bartolo di sposare la propria pupilla. Anche gli inserti cinematografici introdotti in due soli momenti dell’opera risultano delle trovate piuttosto estemporanee, che soprattutto nel primo caso tendono a distrarre dalla celeberrima aria con cui entra in scena Figaro. In generale la messa in scena di Martone è senza infamia e senza lode; senza infamia perché non appesantisce l’opera con il gusto reazionario postmoderno dominante, ma al contempo non è in grado di darne una interpretazione produttiva e progressiva all’opera. Quest’ultima resta così uno splendido divertissement privo degli elementi rivoluzionari presenti non solo nel romanzo di Beaumarchais, da cui è tratto Il barbiere di Siviglia, ma anche nella – decisamente più profonda – opera di Mozart: Le nozze di Figaro.
Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, drammatico, Italia 2021, Vision Distribution ottobre 2021, voto: 6,5; film indubbiamente godibile esteticamente e ben realizzato, curato nei particolari, ben recitato e piuttosto raffinato. Resta il problema di un plot troppo poco sostanziale e universalizzabile, anche se c’è un tentativo di riumanizzare i detenuti, non considerandoli astrattamente come dei meri criminali. D’altra parte non è per niente analizzato il retroterra socio-economico dei reati puniti con il carcere, né emerge come la sua popolazione sia composta quasi esclusivamente da povera gente, in larga parte tossici o immigrati. L’aspetto repressivo e fascistoide dei secondini scompare quasi completamente nella raffigurazione dell’ormai scontato poliziotto buono, una sorta di despota illuminato, di cui non si critica a sufficienza l’intollerabile paternalismo.
Il primo anno di Thomas Lilti, drammatico, Francia 2018, voto: 6,5; buon film di denuncia dell’assurdo sistema del numero chiuso nelle facoltà universitarie, in particolare a medicina. Sistema che inevitabilmente favorisce non chi è veramente appassionato e interessato, ma chi è avvantaggiato dalla famiglia di provenienza. Per cui spesso i più meritevoli, nonostante gli enormi sacrifici sono tagliati fuori, mentre i figli di papà hanno accesso alla professione anche senza avere nessuna vocazione per essa. La catarsi, comunque salutare, risulta purtroppo alquanto idealista, poco verosimile e del tutto atipica, con il figlio di papà che cede volontariamente il proprio posto a chi è più interessato, ma ha condizioni di partenza maggiormente svantaggiate.
Mr. Klein di Joseph Losey, drammatico, Italia 1976, voto 6,5; il film merita di essere visto per conoscere la profonda infamia della Repubblica di Vichy e il collaborazionismo delle classi dominanti francesi con i nazisti. In effetti la classe dirigente francese si era alleata, in funzione subalterna, con la Germania nazista pur di non rischiare un nuovo governo del Fronte popolare. Il film è intrigante, bel realizzato e lascia qualcosa di alquanto di significativo su cui riflettere allo spettatore. Peccato per il finale, in cui manca una catarsi all’altezza e una reale prospettiva di superamento. Abbiamo così l’ennesima “tragedia” priva di conclusione, tanto cara all’ideologia dominante per il suo carattere sostanzialmente conservatore, in quanto non lascia aperta nessuna prospettiva di superamento.
Challenger è una mini serie documentaria statunitense (1x4), voto: 6+. Si tratta di un ben fatto, interessante e al contempo avvincente documentario sul più tragico incidente nei viaggi spaziali statunitensi. Il film è un interessante saggio storico sui devastanti anni Ottanta, funestati dalla presidenza Reagan, alle cui origini vi è la svolta conservatrice, dopo due decenni di lotte sociali, che ha portato alla piena affermazione egemonica dell’ideologia neoliberista. Così, da una parte vediamo che, per la prima volta, la Nasa è stata costretta ad aprire ad astronauti donne, afro discendenti o di origine asiatica, quale riforma imposta dai movimenti rivoluzionari degli anni Settanta. Si tratta, comunque, di una riforma improntata all’ideologia neoliberale, per cui le concessioni sono funzionali a dividere il movimento e a portarlo a non essere caratterizzato da grandi obiettivi universalisti – in grado di parlare alla maggioranza del paese e del globo. In tal modo il grande movimento di contestazione è stato frammentato in tanti piccoli movimenti particolaristici, che si rivolgono a minoranze e tendono a isolarsi. Inoltre emerge la spettacolarizzazione e mercificazione dello spazio, per imporre a livello internazionale il modello statunitense. Così “la conquista dello spazio” si è rivelata una micidiale arma di distrazione di massa dinanzi alle precedenti lotte sociali e come compensazione dinanzi alle controriforme portata avanti dal neoliberismo. Così la moltiplicazione dei viaggi spaziali riesce al prezzo di utilizzare – per risparmiare – dei razzi propulsori estremamente pericolosi che, non a caso, i sovietici non si erano mai sognati di utilizzare. Per cui la tragedia non poteva che risultare decisamente prevedibile all’interno dell’insana logica del rischio calcolato che si era adottata. Così, dopo aver sfiorato più volte la tragedia – senza rendere pubblici questi potenzialmente decisivi campanelli d’allarme – il disastro già a lungo dilazionato non poteva che esplodere. Anche in questo caso, naturalmente, tutto verrà insabbiato, per impedire che si individuino le reali responsabilità, che debbono essere ricercate nella smania di apparire, più che di essere, e nella volontà di risparmiare per massimizzare i profitti.
Il secondo episodio risulta un po’ noioso e ripetitivo, in quanto non aggiunge nulla di veramente significativo al precedente. Anche se si accentua il fatto che, nella società capitalista, per realizzare i viaggi nello spazio sia necessario corrompere i parlamentari, che li finanziano, e mantenere alto l’interesse dell’opinione pubblica, con il mito che si starebbero gettando le condizioni per cui anche l’uomo comune potrà, in un futuro prossimo, viaggiare nello spazio. In tal modo, nei viaggi spaziali vengono introdotti personaggi non qualificati, come appunto congressisti o il rappresentante dell’uomo qualunque. Inoltre l’esigenza di tagliare i costi e di spettacolarizzare le missioni spaziali ha portato ad aumentare sempre più il rischio calcolato, il quale finisce necessariamente per comprendere l’incidente mortale. Infine, significativo come nella società di allora fosse ancora molto elevata, grazie alle lotte dei decenni precedenti, la considerazione dell’insegnante, della cui centrale funzione sociale parla con toni quasi apologetici persino Ronald Reagan. Se pensiamo all’attuale discredito di tale funzione sociale, ci rendiamo anche conto di come siano cambiati in modo drastico i rapporti di forza fra le classi sociali anche sul piano sovrastrutturale della battaglia delle idee.
Il terzo episodio conferma che il materiale significativo poteva essere tranquillamente rappresentato in un documentario di due ore, piuttosto che in una diluita e alquanto noiosa serie di 4 puntate. Inoltre il solito metodo postmoderno che esclude il narratore esterno – entro una certa misura onnisciente – non consente di farsi un’idea determinata di quanto è avvenuto, né soprattutto di esporre e poter cogliere l’essenziale della vicenda. Così le poche notizie significative sono mescolate ad altre del tutto superflue e alquanto avvilenti, visto che spesso mostrano parenti delle vittime raccontare tutti eccitati i loro ricordi e la loro felicità per un’avventura conclusasi in modo tanto drammatico. Colpisce la totale impreparazione della Nasa, incapace di prevedere il meteo, anche da un giorno all’altro, e di sistemare in tempi non biblici dei malfunzionamenti del tutto prevedibili. L’impressione è che le varie attività necessarie alla missione siano state date in appalto a una serie di imprese private che, per risparmiare sui costi e massimizzare i profitti, offrono servizi incredibilmente inefficienti. Significativo anche lo strutturale malfunzionamento di un ente pubblico, di importanza strategica, gestito secondo la logica privatistica, tipica del capitalismo, per cui le ultime parole non spettano a esperti e scienziati, ma a general manager e, anzi, si invitano gli ingegneri nel dare i loro pareri a ragionare da manager, per cui l’essenziale è che lo “show must go on”, anche perché vengono pagati proprio a tale scopo.
La quarta puntata affronta, infine, le responsabilità del disastro. Emerge evidentemente la totale reticenza e impunità dei vertici della Nasa, che ancora oggi giustificano il loro criminale “rischio calcolato”. Decisamente omertoso e in fondo connivente appare il presidente degli Stati uniti Reagan che spinge il presidente della commissione d’inchiesta parlamentare a difendere a priori la Nasa, in quanto si tratterebbe di eroi nazionali e poi, in ogni caso, “the show must go on”. Sfortunatamente per la classe dirigente repubblicana fra i membri della commissione vi era anche uno spirito libero, nobel per la fisica, che dimostra con un semplice esperimento la colpevole scelta della Nasa di far partire – nonostante la gelata notturna, e il parere contrario della ditta appaltatrice dei missili – la missione. Tanto che uno degli esperti, chiamati a testimoniare nel documentario sostiene che più che un incidente si sia trattato di un omicidio colposo. Al fondo della questione vi erano le menzogne della Nasa che, per farsi finanziare le costosissime missione, aveva promesso un numero di voli assolutamente irrealizzabile, che ha costretto a far partire molte missioni in assenza delle necessarie minime condizioni di sicurezza.
The Cave – Acqua alla gola di Feras Fayyad Danimarca, Germania, Francia, Gb, Usa, Qatar 2019, voto: 6,5; film ben fatto che mostra l’indispensabilità della cooperazione internazionale per la soluzione di situazioni particolarmente complesse e, al contempo, come le potenze ex colonialiste e neocolonialiste ne approfittino per i loro fini imperialisti. Emergono anche le assurde debolezze democratiche della dittatura militare thailandese e il ruolo deformante della realtà dei media. Per cui per salvare 13 persone, i contadini che hanno visto i loro campi devastati, arrivano a rinunciare ai rimborsi loro dovuti, credendo in tal modo di rafforzare il ruolo, sostanzialmente inesistente, dello Stato nell’opera di salvataggio. Manca del tutto il motivo per il quale l’allenatore avrebbe condotto, in modo così sconsiderato, dei bambini in una situazione tanto pericolosa e come hanno fatto a sopravvivere tutti, nonostante la tragica vicissitudine affrontata.
Un volto, due destini – I Know This Much Is True miniserie televisiva statunitense del 2020, tratta dal romanzo del 1998 La notte e il giorno di Wally Lamb, trasmessa su Sky Atlantic, voto: 6,5; intrigante, dura e realistica, la serie nel primo episodio ci fa assistere a come il fratello con problemi psichici del protagonista, seguendo la tradizione del pacifismo religioso integralista statunitense, arriva a sacrificarsi una mano per cercare di impedire la Guerra del Golfo. Per la società imperialista è solo un matto pericoloso, da rinchiudere in un manicomio privato, per il fratello che conosce la loro tragica vita infantile è, invece, il segno che il fratello per la prima volta ha superato la propria costante incertezza e ha portato a termine un’azione, con cui ha comunque affermato la propria libertà. Naturalmente l’oppressiva società imperialista non la vede così e dopo aver tentato invano di riattaccare all’uomo la mano sacrificata, lo considera un pericolo pubblico, rinchiudendolo in un manicomio criminale dove rischia di perdere completamente il senno e la dignità.
Purtroppo già nel secondo episodio e ancora più nel terzo gli spunti significativi e le contraddizioni reali che sembravano manifestarsi dal primo episodio vengono meno. L’opposizione alla guerra del fratello viene ridotta a un puro atto di follia, di una persona che pensa solo a se stessa. La critica al manicomio criminale come istituzione totale rientra anch’essa nelle paranoie di un folle. Peraltro, poi, è tutt’altro che una istituzione totale, visto che vi si trovano una valida assistente sociale e una disponibilissima e materna psicologa che si fanno in quattro per aiutare i protagonisti. Senza contare che il protagonista, su cui è essenzialmente incentrata la serie, si rivela gratuitamente crudele. In tal modo la vicenda perde sempre più di interesse, venendo meno tutti i temi sostanziali. Resta solo l’abilità dell’attore protagonista a rappresentare al contempo i due fratelli così diversi e così eguali, una notevole abilità, ma del tutto fine a se stessa.
Fortunatamente nel quarto episodio la serie si riprende. Alcuni aspetti che apparivano gratuitamente crudeli del protagonista trovano una spiegazione, per quanto non sempre verosimile. Le critiche del fratello matto alla guerra appaiono, comunque, decisamente più sensate delle posizioni filo imperialiste e improntate al fascismo quotidiano dell’americano qualunque. Per quanto assistente sociale e psicoanalista siano inverosimilmente in gamba e a completa disposizione del protagonista, il manicomio criminale, almeno per il fratello riassume i suoi connotati di istituzione totale. Inoltre nell’accanimento della corte, che appare pronta a tutto pur di corrispondere alle aspettative dell’opinione pubblica – coinvolta nel caso attraverso la stampa – riemerge un po’ di sana critica sociale. Infine, i comportamenti un po’ inverosimili del protagonista, a tratti eccessivamente altruista a tratti spietatamente individualista, finiscono per trovare un equilibrio, nella tragica situazione familiare in cui i fratelli sono cresciuti e dai sensi di colpa, che insorgono nel protagonista quando comprende di essere corresponsabile del tragico destino suo e del fratello, con il suo darwinismo sociale che, peraltro, diviene verosimile considerando quanto tale posizione ideologica sia diffusa negli Stati Uniti.
Com’era prevedibile la serie tocca il fondo, almeno per il momento, con il quinto episodio, dove emerge il profondo razzismo ancora esistente nei confronti degli italiani emigrati negli Stati Uniti, soprattutto se meridionali. La rappresentazione che si dà dei siciliani emigrati negli Stati Uniti tre generazioni fa è davvero insostenibile. Non ci sono soltanto i soliti luoghi comuni e pregiudizi, mai i siciliani solo completamente disumanizzati. Peraltro si accentuano i tratti positivisti già presenti in nuce negli episodi precedenti, per cui gli attuali drammi della famiglia deriverebbero da una maledizione lanciata contro i discendenti da una donna siciliana, ridotta addirittura a una strega.
La serie si salva nell’ultimo episodio, grazie alla capacità egemonica statunitense, che li porta, al contrario degli europei, a ricordare che la tragedia è tale solo se si conclude con la catarsi. Anzi più esplodono le contraddizioni, più l’inattesa catarsi è liberatoria. Sulla superstizione si afferma la visione scientifica del mondo della psicologa, il fratello malato è in parte redento dalla violenza machista che non ha dato spazio alla sua omosessualità. Infine, viene meno finalmente la spiegazione positivista e il mistero si scioglie in senso progressista. Sono i pregiudizi razziali, anche se vengono fondamentalmente confinati alla comunità italoamericana, e in particolare l’oppressione degli amerindi a costituire il rimosso che tante contraddizioni ha aperto nel processo di formazione del protagonista. Peccato che, come di consueto, nella catarsi ci sia una caduta ideologica, che porta acqua al mulino della reazionaria concezione mitologico-religiosa del mondo.
La volta buona di Vincenzo Marra, drammatico, Italia, Uruguay 2019, voto: 6,5; discreto film italiano che, senza scadere nel postmoderno o nel grottesco, narra una storia minimal, ma non qualunquista, in cui presenta in modo fra il realista e il naturalista dei personaggi piuttosto dialettici e complessi, anche nella loro semplicità. Sfiora anche temi abbastanza significativi, come i meccanismi di sfruttamento che dominano sul gioco del calcio in una società capitalistica e che rendono sempre più difficile a un futuro Totti o Maradona di poter emergere.
Il collezionista di carte, di Paul Schrader, Usa, Gran Bretagna, Cina 2021, valutazione 6,5; un film estremo, che testimonia la profondissima crisi che cova fra i subalterni negli Stati Uniti, ora che hanno dovuto rinunciare all’ideologia – funzionale ai privilegi dell’aristocrazia operaia – che giustificava le proprie aggressioni (imperialiste) all’estero, come necessarie a esportare libertà e democrazia. Riemergono allora i fantasmi del passato, ovvero le atrocità del dominio imperialista, dal Nicaragua, fino a Iraq e Afghanistan. Al solito a pagare sono solo i pesci piccoli, individuati come le poche mele marce che si devono sacrificare, per mantenere vendibile e appetibile tutto il resto. Bisogna dare atto al regista di aver messo il dito nella piaga, generalmente pudicamente occultata, delle terribili malefatte dell’imperialismo statunitense. Peccato che manchi una qualche prospettiva, se non il riconoscimento della giustizia della pena che le poche mele marce debbono pagare, mentre chi le addestrava e impartiva gli ordini se la gode, o almeno così pare.
The Shift di Alessandro Tonda, thriller, Italia e Belgio 2020, voto: 6,5; film realizzato con pochi mezzi, ma certamente efficace e godibile. The Shift lascia anche alquanto da riflettere su come trattare i minorenni radicalizzati dal terrorismo islamico. In casi del genere è essenziale non pensare astrattamente, come tendono a fare gli apparati repressivi di sicurezza e spesso anche i mezzi di comunicazione di massa che vedono solo il terrorista e non, al contempo, la vittima. Peccato che il film non sia in grado e non abbia il coraggio di indagare le ragioni economiche e sociali che fanno sì che un minorenne oltre che terrorista debba anche essere considerato una vittima, da curare piuttosto che da uccidere seduta stante – come purtroppo generalmente avviene – impedendo così di comprendere più a fondo un fenomeno tanto tragico quanto sconcertante.
Succession (2x10) serie televisiva statunitense ideata da Jesse Armstrong e prodotta da Will Ferrell e Adam McKay, su Sky Atlantic, premiatissima, voto: 6,5; nella seconda serie emerge con maggiore chiarezza la natura decisamente berlusconiana del vecchio magnete che diviene decisamente il protagonista. La questione della successione pare rinviata sine die. La serie resta una descrizione molto significativa e critica di tutte le bassezze, vigliaccherie, crudeltà e cinismi da cretino che caratterizzano la classe dominante nei paesi a capitalismo maturo. Resta il grave limite di non riuscire a immaginare nessuna uscita in senso progressivo, tanto che sembra di assistere a una rappresentazione da tardo impero. Significativa la metafora del vecchissimo padrone che, per quanto malato e indebitato, mantiene nelle sue mani tutto il potere, anche perché non ha nessuno di sensato e capace cui lasciarlo. In seguito la serie sembra aver esaurito ciò che di sostanziale aveva da comunicare e comincia a divenire noiosa e soporifera, con episodi che sembrano fatti quasi solo per allungare il brodo. Questa vera e propria fiera del cinismo da cretino, per quanto possa essere una decisa critica della classe dominante, finisce in qualche modo con il naturalizzarsi, dando l’impressione che in un tal mondo si possa solo essere un predatore o una preda, e dal momento che queste ultime appaiono ingenue e sciocche si finisce con il giustificare il grande predatore, sempre pronto a giocare al gatto con il topo anche verso i suoi figli.
Dopo aver raggiunto il fondo con l’ottavo episodio la seconda serie dà un sussulto di vita, non solo portando sino alle estreme conseguenze l’homo homini lupus della società capitalista, ma facendo finalmente emergere una voce fuori dal coro, quella del fratello del grande impresario, l’unico che ha il coraggio di dire la verità sulla micidiale fabbrica del falso messa in piedi da Logan.
Con il nono episodio la serie riprende decisamente quota. Molto significativo è il confronto davanti alla commissione di indagine del senato in cui, dinanzi agli attacchi dei democratici radicali per i gravi abusi subiti dai lavoratori e alla denuncia dello sfruttamento e della ricerca esclusiva del profitto, gli imprenditori rispondono che proprio su questo si fonda il sistema statunitense e che per avere un’informazione pubblica bisognerebbe andare in Russia o in Cina. Paradossalmente, proprio questa presa di posizione si rivela vincente e spinge i repubblicani a prendere le difese della grande impresa sotto accusa per i gravissimi abusi sui lavoratori più deboli, dalle donne agli immigrati. Significativo anche il dialogo – che mostra tutta la spietatezza del padronato – fra la rappresentante della grande impresa e la povera vittima che si era decisa a denunciare i gravissimi delitti compiuti dall’azienda contro i lavoratori.
Anche l’ultimo episodio è di buon livello. Significativo il rimprovero del padre al figlio, il quale non sarebbe mai stato un buon imprenditore in quanto non sufficientemente killer. Inoltre abbiamo infine una sana catarsi, in quanto il cinismo del vecchio padrone è così disumano, da spingere qualcuno del suo cerchio magico a denunciarne i terribili crimini compiuti a danno dei lavoratori.
Space Sweepers di Jo Sung-hee azione, avventura, drammatico, Corea del Sud 2021, voto: 6,5; disponibile su Netflix, il film presenta il solito futuro catastrofico, in cui a causa della crisi climatica la vita sulla terra è divenuta disperante. Si crea un mondo migliore su Marte per i soli ricchi, spacciati per i migliori, mentre gli altri sulla base del peggiore darwinismo sociale sono condannati a morte. Al solito abbiamo un futuro ancora più nero del già tragico presente e nessuna speranza. D’altra parte vi sarà una reazione significativa di ecologisti radicalizzati e di altri proletari che si ribelleranno. Il primo aspetto è decisamente negativo, mentre il secondo è significativo. Peccato per il finale che sa un po’ troppo del solito lieto fine hollywoodiano un po’ scontato.