Il responso delle urne è stato chiaro. Travolto da 19 milioni di NO, il Governo Renzi è stato costretto alle dimissioni. L’analisi del voto, terreno nel quale ricercare le direttrici politiche di questo “NO sociale”, ha dimostrato come l’elettorato antagonista si concentri prevalentemente nelle fasce statistiche che includono giovani, disoccupati e precari. La chiara configurazione del voto referendario quale voto di classe offre dunque una prospettiva interessante per la sinistra politica: ripartire dalla vittoria elettorale per costruire un’opposizione duratura e alternativa alle destre populiste.
Ma per comprendere quale sarà la traiettoria prescelta per questo percorso occorre anzitutto fare una premessa: è impossibile cambiare rotta senza che il vascello sia salpato. In parole povere, la sinistra deve prima avviare una fruttuosa semina nel sociale, riorganizzare le sue strutture di lotta e optare consensualmente verso strategie di lungo corso. L’ambiguità terminologica del termine “sinistra”, specialmente nell’accezione post-moderna che porta molti a sovrapporvi l’etichetta dell’anti-popolare partito democratico, impone inoltre la specifica che la ricostruzione dello schieramento si prefigga fin da subito una chiara collocazione nello spettro politico. In basso a sinistra, in alternativa all’establishment e in netta opposizione al centrismo istituzionale.
Se introduco questo discorso non è un caso. Un secondo dopo l’uscita dei primi exit poll referendari, gli analisti politici di tutta Italia si sono sbizzarriti nel dipingere nuovi scenari fantapolitici e rinnovati assetti interpartitici. Ebbene, non ve n’è uno in cui la sinistra, propriamente intesa, assuma un ruolo di seppur minima influenza. Indi per cui, nonostante sia possibile “prevedere” il comportamento a breve termine delle altre forze politiche (il M5S che spinge per le elezioni anticipate con l’Italicum, la destra che si polarizza), sarebbe assolutamente fuorviante abbozzare tattiche di partito laddove non v’è ancora il materiale per metterle in atto.
News dell’ultima ora. L’ex-sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha proposto di getto la fondazione di un nuovo partito “arancione”, “Campo Progressista”, con l’intenzione di ricomporre i frammenti di un centro-sinistra a pezzi da fuori, ma in collaborazione con il PD. L’appello, accolto con imbarazzante freddezza dalla sinistra radicale, ha trovato interlocutori disposti all’ascolto in altri due sindaci, Virginio Merola (PD, Bologna) e Massimo Zedda (ex-Sel, Cagliari). Ciò che li accomuna è il comune orientamento verso il centrismo filo-istituzionale e la propaganda smodata per il SÌ al referendum. Ciò, e specialmente quest’ultima clausola, ha già proiettato un futuro poco auspicabile su quello che è ancora un progetto sulla carta, ma che si rivelerà presto essere, nel caso avesse seguito, un partito di politici anziché un partito di popolo. E che invece di riorganizzare la sinistra in senso classista e ideologico, si limiterebbe a un ruolo d’ancella di scorta (al posto del Nuovo Centrodestra) nel grande gioco delle coalizioni di governo.
A fianco di “Campo Progressista” compaiono, in divenire, i percorsi costituenti di Sinistra Italiana, involucro più radicale e alternativo nato dalle ceneri di Sinistra, Ecologia, Libertà, Possibile e Act, che il 3 dicembre ha lanciato un ulteriore appello, intitolato “Costruire l’alternativa”. Il movimento, non intenzionato tanto alla rappresentanza immediata quanto alla riorganizzazione strutturale in senso stretto, si prefigge non la fondazione di un nuovo soggetto politico, bensì “la costruzione partecipata di un programma politico radicale e chiaro” dal quale far ripartire nuovi percorsi e nuove esperienze per la sinistra in Italia.
Vorrei infine specificare nel dettaglio una piccolezza, la quale, una volta contestualizzata, si rivela però assai eloquente. Quando affermo di auspicarmi una seria ed efficace riorganizzazione della sinistra politica, non intendo legittimare un qualsivoglia processo costituente della tanto declamata “unità della sinistra”. L’unità della sinistra non è mai esistita, e soprattutto, esperimenti meramente politicisti rischiano di non portare all’esito sperato. Con profano azzardo, vorrei tentare di mettere in luce una dinamica piuttosto consolidata in politica. Fingendo, mediante una metafora scientifica probabilmente impropria, che un atomo corrisponda a un partito e una molecola alla somma di più partiti o correnti all’interno di uno stesso soggetto politico, vorrei mettere l’accento sul fatto che, nonostante i processi di fissione nucleare scindano sempre un atomo in frammenti di minori dimensioni, non è assolutamente vero il contrario, ossia che dai fenomeni di fusione nucleare fuoriesca un nuovo nucleo di massa uguale o maggiore alla somma dei nuclei atomici coinvolti.
La fusione nucleare, così come le formulette su fusioni politiche e costituenti, sottende spesso e volentieri la dissoluzione di strutture organizzative più o meno solide in aggregati caotici, più piccoli e con minori prospettive. Senza trascurare poi il fatto che, sia a livello chimico che a livello politico, tanto la scissione quanto la fusione implicano una enorme dispersione di energia. Nel caso specifico della lotta politica, quest’energia equivale ad anni di radicamento, elaborazione e militanza scialacquati barbaramente in un tritacarne che non necessariamente porterà acqua al mulino della sinistra.
Quando affermo questa tesi, il mio pensiero corre a Rifondazione Comunista, al Pdci di Cossutta e Diliberto e alla dolorosa frattura fra Vendola e Ferrero. Corre a momenti di storia politica al contempo vicini e lontani, a frangenti di sperimentazione gioiosa e allo stesso tempo di cocente delusione per il fallimento. Penso alla Federazione della Sinistra, alla Sinistra Arcobaleno e a Rivoluzione Civile, sino all’esperienza troncata sul nascere de L’Altra Europa con Tsipras.
Ripercorrere le stesse tappe del passato significherebbe commettere nuovamente gli stessi errori di strategia. E perciò, lavorare per riorganizzare la sinistra deve essere anzitutto un imperativo morale metodologicamente determinato. Elaborare un programma comune è una delle prime urgenze a livello di contingenza, sicuramente preminente rispetto all’ansiogena volontà di costituire un nuovo soggetto proprio di certa sinistra troppo legata al palazzo e al potere. Proseguire la “semina sociale”, tornare in quelle periferie dimenticate dalle istituzioni che in massa hanno votato NO alle riforme del Governo Renzi, significa per me riorganizzare la sinistra politica nel nostro Paese. Ma dalle belle parole bisogna anche passare alla prassi, direbbe Gramsci. A partire dalle sensibilità soggettive e dalle tendenze correntizie, la sinistra radicale socialista e comunista, laica e popolare, deve tornare a dar voce ai milioni di espropriati che oggi rifuggono le decisioni prese dall’alto nel voto di protesta del populismo e nell’astensione. I punti fermi devono essere pochi, chiari, identitari. No al centrismo, no ai compromessi con la casta, no al capitalismo e al dogma del neo-liberismo europeista. Penso che questo sia l’unico modo di compattare le periferie sociali e ribelli nella lotta ai centri del potere egemonizzati dal capitale.
Ricostituire un blocco storico rivoluzionario fornendolo anzitutto di un megafono e di elaborazione ideologica. Dovrebbe essere questo, a mio avviso, il primo passo. Condensarne poi il consenso in un involucro adatto ai tempi e ai modi del reggimento politico, rendendolo infine dinamico ed influente con una densa dose di potenziale ricatto, potrebbe essere uno dei tanti modi per rilanciare con forza una prospettiva di sinistra, integerrima e antagonista, nel dibattito politico nazionale.
La riorganizzazione di classe è dunque una necessità fisiologica della sinistra politica nel nostro Paese; non darle ascolto e seguito significherebbe di conseguenza lasciarla all’annichilimento strutturale e alla morte. Non possiamo più permettercelo.