Ogni giorno leggiamo dalle cronache dei giornali notizie che ci riportano a una realtà ben diversa da quella enunciata nelle settimane antecedenti al referendum dall'ex premier Renzi.
Un'Italia a due o più velocità; e in coda ritroviamo le classi sociali meno abbienti, per le quali il diritto alla salute e all'istruzione è una variabile dipendente dalla carità di un sistema pubblico, sempre più inadeguato, e dal tabù del pareggio di bilancio.
Da anni si va al pronto soccorso perché non ci possiamo permettere un adeguato standard di cura. Tra i medici di base e le strutture diagnostiche e di cura sussiste un vuoto pressoché incolmabile, fatto di lunghe liste di attesa e di costi elevati, soprattutto se abiti nel sud e devi affrontare i viaggi della speranza nei nosocomi del Nord.
Un tempo ormai lontano si portava la sanità e l'istruzione laddove ci fosse un reale bisogno di cura e di cultura. Una vicinanza con i bisogni reali venuta meno sotto i colpi feroci dei tagli e delle privatizzazioni.
La sanità è un business, lo ha ben compreso la Troika che ne invoca la progressiva privatizzazione.
Sempre di questi giorni arriva il grido di allarme dei medici di base che criticano il modello delle case della salute (spesso gestite dal terzo settore che in alcune regioni italiane ha alimentato un lucroso business con ampio ricorso alla figura dei volontari e del lavoro semigratuito) che, a detta loro, sarebbero quasi inutili per come sono state pensate e realizzate.
In questo contesto di progressivo smantellamento del diritto alla salute, portato avanti dalle Regioni, arriva la nuova definizione dei livelli essenziali di assistenza (Lea), prestazioni che il Servizio sanitario nazionale dovrà garantire a cittadine e cittadini.
Nelle settimane scorse i Lea sono stati presentati come la conquista di nuovi diritti alla salute. A noi sembrano invece frutto di un'operazione demagogica, fuorviante e finalizzata a deviare l'attenzione dai problemi reali.
Proviamo allora a sviluppare un ragionamento. Intanto sono stati necessari più di 15 anni (dall'anno 2001) per aggiornare i Lea; se i governanti, nazionali e regionali, avessero avuto una reale sensibilità volta al riconoscimento di diritti negati o mai riconosciuti fino ad oggi, sarebbe stata possibile una procedura semplice e urgente. Insomma perché attendere tanti anni?
Il diritto alla salute, quale fondamentale diritto sociale, è stato gradualmente approcciato, dopo la prima fase della riforma sanitaria, con una logica sempre più da “diritto civile”, ovvero come un riconoscimento di un interesse legittimo, non di un diritto universale alla sanità, in un'ottica di equità sociale.
Non è casuale che molte prestazioni ricomprese oggi nel testo di decreto dei Lea fossero in realtà già offerte dal SSN, ovviamente senza quel carattere di universalità e gratuità che sarebbe necessario ma piuttosto dietro il pagamento di una compartecipazione rispondente alla logica di aziendalizzazione e mercificazione del diritto alla salute.
Questa logica ha imposto alle strutture sanitarie, che si finanziano in buona parte con il pagamento delle prestazioni, il pareggio di bilancio e il contenimento delle spese attraverso la cosiddetta spending review (e non solo).
Oggi il governo, rivedendo i Lea, agisce semplicemente a posteriori, utilizza le esperienze maturate dai diversi sistemi sanitari regionali che già riconoscevano le prestazioni, i cui costi, tuttavia, sono stati per anni scaricati su cittadini/cittadine con forme compartecipazione attraverso i tickets. Sfruttare competenze e capacità acquisite nelle prestazioni sanitarie per ridurre al minimo le risorse messe in campo con la legge di Bilancio (800 milioni) alzando al contempo al massimo il messaggio mediatico legato al nuovo decreto sui Lea, questo sembra essere l’ atteggiamento preferito dal Ministero per la Salute.
Definire le regole in ritardo giova al Governo, che così, impiegando solo un quarto degli oltre 3 miliardi necessari, scarica ogni ulteriore onere sulle Regioni, le quali a loro volta, nonostante l’intesa, sembrano molto scettiche e giudicano insufficienti le risorse stanziate per garantire il nuovo pacchetto di prestazioni.
Una cosa è certa: nel caso dei Lea, trattandosi di cure e prestazioni garantite ai cittadini gratuitamente o con il pagamento di un ticket, sappiamo verso quali scelte si orienteranno gli enti locali e regionali per scaricarne a catena gli effetti.
Sicuramente, il primo banco di prova in ordine all’accertamento della sostenibilità dei Lea sarà rappresentato dalla verifica se il loro riconoscimento effettivo potrà essere garantito con l’attuale entità del Fondo Sanitario Nazionale.
Non vorremmo che i conti siano stati fatti semplificando senza tener conto delle implicazioni organizzative ed occupazionali. Si è tenuto conto, per esempio, delle risorse necessarie a garantire il rinnovo dei contratti collettivi di lavoro del comparto Sanità e delle convenzioni, ma anche a garantire un programma di assunzioni straordinario capace di compensare gli effetti del turnover e superare le condizioni di precarietà in cui si trovano migliaia di operatori sanitari?
Affermare solo in astratto il diritto sociale alla salute per poi negarlo nei fatti, scaricandone i costi su cittadine e cittadine, considerati alla stregua di “consumatori”, sembra essere una costante abitudine dei governi nazionali e locali.
Non vi è infatti alcuna certezza che la ridefinizione dei livelli essenziali di assistenza comporti la gratuità di prestazioni per le classi sociali meno abbienti. Gli scenari possibili potrebbero essere invece ben altri: limitare l’integrazione fra socio-sanitario territoriale e sanità pubblica, favorendo le strutture private e depotenziando le strutture ospedaliere e sanitarie pubbliche. È infatti innegabile che i nuovi Lea possano anche essere utilizzati in forma distorta quale strumento per un passaggio da prestazioni rese con ricovero ospedaliero a day hospital e da day hospital a prestazioni ambulatoriali rese dietro pagamento, ovvero erogate in strutture del socio sanitario e quindi a carico delle comunità locali. Nel caso si verifichi questo, verrebbe meno la condizione di garantire alle persone assistenza e cure adeguate sul territorio ma al contempo si continuerà invece a incentivare la privatizzazione di un bene comune inalienabile come la salute.
Non possiamo neppure ignorare le implicazioni organizzative che costituiscono la condizione di effettiva erogabilità, in quanto l'appropriatezza e la qualità delle prestazioni rese non possono essere separate da adeguati livelli di organizzazione e di dotazioni organiche di personale.
Un governo non in grado di assicurare la stessa qualità delle cure su tutto il territorio nazionale, in termini di organizzazione del sistema e di qualificazione del personale sanitario, renderà debole ogni riconoscimento di maggiori prestazioni a garanzia del diritto alla salute.
Se poi a questo aggiungiamo l’ incertezza determinatasi anche per il comparto Sanità in conseguenza del mancato rinnovo ormai da otto anni dei contratti pubblici, che il protocollo d’intesa nella sua vaga indeterminatezza non ha per niente risolto, risulta del tutto evidente come l’allargamento dei nuovi Lea sia al momento, un'enunciazione mediatica priva di certezze ed effetti in termini di prestazioni reali, quali riconoscimento effettivo di diritti sociali, in un'ottica di una maggiore equità che la crisi ha reso ancor più indifferibile.
Un caso emblematico del degrado dei servizi pubblici è quello Toscano. La Regione, all'indomani dell'istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, fu fra le più solerti a mettere in piedi un'organizzazione dei servizi effettivamente universali, gratuiti e posti sotto il controllo popolare. Per anni il “modello toscano” è stato preso ad esempio come caso di eccellenza.
A partire dall'ultima decade del '900 la regione iniziò a “cambiare verso”. Agli strumenti di governo locale vennero sostituiti i super pagati manager. Le Usl, diventate Asl, quindi “aziende”, furono ridotte di numero allontanando le zone più periferiche e socialmente più sofferenti dai centri decisionali. Le strutture, gli organici ecc. vennero via via ridimensionati, soprattutto nelle zone a bassa densità abitativa. Furono introdotti, e via via elevati, i ticket. Tutti i risparmi vennero realizzati a scapito dei servizi, senza tagliare la burocrazia e gli evidenti sprechi. Anche in Toscana, come altrove, aumenta il numero di cittadini che rinunciano alle cure perché non dispongono di mezzi economici per sostenerne i costi, oppure che si rivolgono al privato spesso poco più costoso dei ticket, allo scopo di evitare le infinite liste di attesa.
Una recente legge regionale, la n. 28 del 2015 prevedeva un ulteriore accorpamento e tagli dei servizi. Contro questa legge fu promosso un referendum, con una raccolta di 56 mila firme. Pochissimi mesi dopo la pessima “riforma”, il 15 dicembre dello stesso anno, al fine evidente di impedire la consultazione referendaria il Consiglio regionale iniziò a discutere una nuova legge regionale di riordino sanità basata sugli stessi principi della precedente. I manifestanti contro questa iniziativa antidemocratica, davanti alla sede del Consiglio, furono manganellati e fu impedito con la forza l'accesso ai locali regionali perfino a una loro delegazione.
Mentre è in corso un'altra raccolta di firme per abrogare anche la nuova legge regionale, il Governatore Rossi e l'Assessore Saccardi hanno organizzato per il 28 gennaio a Campi Bisenzio una giornata di autocelebrazione in perfetto stile Minculpop con una propaganda da far invidia all'Istituto Luce o, se preferite, alle slide di Renziana memoria. Nella stessa data, nella stessa ora, nello stesso luogo i cittadini, i comitati dei servizi pubblici, le associazioni, i partiti, i movimenti organizzeranno una manifestazione per testimoniare la loro netta contrarietà e la loro disapprovazione con un'azione di protesta e contestazione.
Come in Toscana, ovunque i tagli e le politiche privatistiche stanno affossando il servizio sanitario pubblico e i principi di quella Costituzione che pure, con il referendum del 4 dicembre, i cittadini hanno voluto difendere da una manomissione dettata dai grandi poteri economici. Per questo, dopo la vittoria del referendum, urge una mobilitazione generale per invertire il trend degli ultimi 25-30 anni, pretendere un servizio sanitario degno di questo nome, pubblico, universale, gratuito, con al centro il principio di prevenzione, attuando così pienamente il dettato costituzionale.