Il 12 luglio scorso l’Associazione per la ricostruzione del Partito Comunista, in occasione della sua prima partecipatissima assemblea nazionale, ha compiuto un passo impegnativo lanciando la Costituente delle comuniste e dei comunisti: un processo aperto di riunificazione delle forze in vista dell’obiettivo che ha dato nome e senso alla nascita dell’Associazione medesima. L'articolo illustra sinteticamente alcune delle ragioni di fondo che hanno convinto compagni di diversa collocazione e provenienza (tra cui chi scrive) a fornire il proprio contributo per un’ impresa politica così ambiziosa.
di Bruno Steri
Dunque, perché la Costituente comunista ora? L’urgenza di una tale iniziativa si è imposta a partire da una doppia constatazione: da un lato, la conclamata e crescente inadeguatezza delle forze comuniste presenti sulla scena politica del nostro Paese – forze generose ma oggi espressione di un ciclo politico pluridecennale che è andato esaurendo le sue risorse; d’altro lato – e nonostante ciò – la necessità di una forza comunista organizzata, di un partito comunista unificato e rigenerato che operi nel più ampio quadro di un pur auspicabile processo di convergenza della sinistra di classe.
In questi ultimi venticinque anni, quanti si sono opposti alla rottamazione del Pci, provando a ricostituire un riferimento comunista che offrisse un’alternativa politica al processo involutivo del Pds/Ds/Pd, non hanno saputo o potuto contrastare un percorso disgregativo specularmente opposto a quello di una sintesi dialettica: anziché procedere in avanti da tesi e antitesi contrapposte verso una sintesi superiore, si è di fatto prodotta una regressione da quello che avrebbe potuto e dovuto essere il luogo della ricomposizione di culture politiche diverse, indietro alle parzialità delle rispettive provenienze. E’ la storia all’indietro di Rifondazione Comunista, delle sue innumerevoli scissioni e della conseguente proliferazione di rami distaccatisi dall’unico tronco originario: quel che oggi sopravvive è la parzialità di gruppi dirigenti ridotti all’osso, lontani parenti di quell’originario concorso di forze che aveva dato vita al rifiuto della Bolognina. Il sostanziale fallimento di quella rifondazione comunista non può tuttavia oscurare il valore della sua opzione di fondo: oggi occorre una “nuova sintesi”, che faccia tesoro degli errori compiuti e metta capo ad un partito all’altezza dei compiti odierni. E’ evidente che, in una tale prospettiva, il tema “quale partito?” si rivela essenziale: questione decisiva per un’analisi soddisfacente degli errori passati e in vista di un cammino che riparta col piede giusto.
Costituente comunista e Costituente della sinistra
Paolo Ferrero (cfr. Un’alternativa europea in ogni singolo Paese) è tornato recentemente ad abbozzare quello che, a suo parere, dovrebbe essere l’approdo di una “Costituente della sinistra”: “non ci serve un partito tradizionale”, ma un “soggetto politico a bassa soglia di ingresso’”, una “sinistra unitaria” costruita dal basso, che decida non sulla base di “una logica pattizia di vertice” ma col metodo “una testa un voto”. Guardiamo con rispetto all’intento di raggiungere una massa critica che, a sinistra del Pd, consenta di dare efficacia all’azione politica (e di conseguire accettabili risultati elettorali); non riteniamo però che, in tale prospettiva, debba perdersi l’autonomia organizzata dei comunisti. Difficile dire, infatti, come quel che resta del Prc possa svolgere un ruolo autonomo e possibilmente rigenerarsi nel contesto di un processo decisionale come quello descritto, appaltato com’è a un “soggetto politico” già segnato da orientamenti diversi su questioni fondamentali. Non è sufficiente appellarsi alla partecipazione dal basso per costruire su basi politicamente solide, caratterizzate dall’omogeneità di culture politiche, valori, orientamenti strategici. Non è forse bastata la cronaca elettorale di questi ultimi anni, caratterizzata da uno spaventoso e inarrestabile crollo del consenso alle forze della sinistra? Gli elettori non sono poi così stupidi da non percepire se e quando un rassemblement elettorale costituisca una seria alternativa politica, mossa da limpide idee-forza, radicata socialmente e sorretta da una capacità di direzione non occasionale. Per questo occorre a nostro avviso smetterla di soggiacere all’assillo della prossima scadenza elettorale, metter nel conto che la ricostruzione ha bisogno di tempo ed evitare scorciatoie politiciste. Va quindi capovolta la tabella di marcia. E’ necessario da subito dare corpo ad una costituente delle comuniste e dei comunisti, capace di raccogliere organicamente le forze attorno a un progetto politico-organizzativo chiaro sul piano dell’identità, dei riferimenti internazionali, degli interessi di classe che intende rappresentare, dei simboli, delle opzioni strategiche dirimenti; su questa base (e solo su questa base) operare per trovare la più larga unità d’azione della sinistra di classe nel suo complesso. Sottolineo che non si tratta unicamente di fedeltà ai principi (per quanto questa istanza non debba essere derubricata), ma anche di praticabilità e pragmatica opportunità.
Ridare senso alla politica
L’assoluta urgenza di un tale progetto è oggettivamente data dal venire al pettine di nodi strutturali con conseguente progressivo restringersi delle vie d’uscita a disposizione delle classi dirigenti dell’odierno neoliberismo, in Italia e nel mondo. Su tre fronti principali: crisi del capitalismo e delle sue risorse egemoniche (con il riaffacciarsi della guerra quale estremo strumento per la definizione delle gerarchie internazionali), crisi dell’Unione Europea (drammaticamente riassunta nella vicenda greca), crisi della politica (precipitata in particolare nel nostro Paese con una preoccupante involuzione degli assetti istituzionali, nazionali e locali, e della tenuta democratica e civile). Davanti a tale quadro generale, avanza oggi un vuoto di senso - che va certo al di là della questione comunista - riempito sulla scena politica con soluzioni apparentemente “leggere” (di fatto eterodirette), che si presentano come legate alla post- modernità e che in realtà sono identificabili come schiettamente reazionarie e autoritarie. In proposito è emblematica la risposta che vien data alla crisi dei partiti tradizionali con la costruzione in provetta di “partiti del leader”, vincolati cioè alle provvisorie fortune di “un uomo solo al comando”: traiettorie personali confezionate ed esaltate dall’affinato uso dell’armamentario mediatico (in particolare dalla pervasività del mezzo televisivo che, nonostante il diffondersi della rete, resta il principale strumento di costruzione del consenso e dell’ “opinione pubblica”). Comunicazione al posto della politica. Gli esempi sono sotto i nostri occhi, a cominciare dalle ascese dei due Matteo (Renzi e Salvini), ma non solo (non sarebbe male riflettere su parabole concernenti il versante dell’opposizione e della stessa sinistra).
Forma partito e concezione del mondo
Alla base di tali degenerazioni c’è in generale il riflesso autoritario di una classe politica pressata dalla crisi e resa ancor più insofferente ai lacci e lacciuoli della dialettica democratica. La personalizzazione della politica è un sottoprodotto del cosiddetto “tramonto delle ideologie”; e non deve stupire se a tale supposto tramonto abbia fatto seguito l’alba della tecnocrazia. Da questo punto di vista, se è comprensibile che si sia sviluppata una critica dei “partiti tradizionali” e che si ragioni attorno ad una forma-partito all’altezza dei tempi, non è però tollerabile che, su questa via, si butti il bambino con l’acqua sporca (cioè lo strumento partito come tale e, segnatamente, il partito comunista). Nel merito, recentemente ci è capitato di leggere (non a caso sul quotidiano della Confindustria) un interessante argomentazione che tratteggia precisamente l’antitesi di quello che, a nostro avviso, si dovrebbe pensare e fare (cfr. Sergio Fabbrini, Elettorale e multilivello: questo è il partito che serve oggi, ‘Il Sole 24 Ore’, 7 giugno 2015). Davanti alla crisi dei partiti - è questo il ragionamento - “i più spaventati si fanno prendere dalla voglia di tornare indietro.
Che, a sinistra, vuol dire ritornare al vecchio partito strutturato, costituito di iscritti e guidato da un gruppo dirigente permanente”. L’idea che secondo l’articolo va rottamata è quella di voler “rappresentare una classe sociale e il suo sistema di valori”: idea considerata vecchia, dal momento che “la società è cambiata in modo radicale, non vi sono più gruppi sociali che fanno coincidere la propria condizione materiale con una prospettiva politica, essendo la volatilità divenuta la regola del mercato elettorale”. Conclusione: nelle “democrazie moderne”, i partiti “servono per governare e per controllare chi governa. I cittadini non hanno bisogno dei partiti per sapere chi sono e cosa debbono pensare”. Non si potrebbe essere più chiari di così: occorrono partiti a identità e ideologia debole (o semplicemente assente). Organismi che non sono portatori di concezioni del mondo, semplicemente votati al servizio dei cittadini (come in un condominio un po’ più grande, in cui quel che conta è che l’amministratore amministri bene e che, se non lo fa, sia sostituito alla prima elezione). E’ superfluo segnalare che in una tale concezione scompare qualsiasi punto di vista sulla totalità sociale e, soprattutto, sulla possibilità che vi siano gruppi sociali (e partiti) portatori di un’idea diversa di società, di una società che non sia quella vigente.
Partito comunista come partito strutturato
Non stupisce che una tale argomentazione sia ospitata su un giornale padronale. E’ bene comunque evitare che elementi dispersi di un tale orientamento “anti-partito” (o, se si vuole, di un tale pensiero indebolito di partito) possano inconsapevolmente circolare anche dalle nostre parti. Fa bene quindi Guido Liguori (cfr. “Tradurre” in italiano Syriza, ‘il manifesto’, 7 agosto 2015) ad auspicare che si profili a sinistra non semplicemente un “programma di governo” ma anche un “programma fondamentale”, proprio di un organizzazione politica organizzata che sappia interpretare al suo interno un “centralismo democratico 2.0”, capace di evitare le secche del “centralismo burocratico” (la distinzione è di Antonio Gramsci) così come quelle delle derive correntizie (in proposito suggeriamo la lettura della relazione Centralismo in movimento, presentata da Luca Cangemi al convegno di Bologna ‘La forma partito oggi’, promosso a gennaio scorso dall’Associazione ricostruirepc). Noi riteniamo che ad una tale impresa non possa che essere chiamato un Partito comunista.
Riconferire senso alla politica, recuperare la propria identità di classe, essere riconoscibili agli occhi dei soggetti sociali cui ci si rivolge. Questa è la priorità che anima l’impresa di una Costituente per la ricostruzione di un partito comunista all’altezza dei tempi, rigenerato dall’immissione di nuove risorse e dal contributo di nuove generazioni, capace di affrontare senza ambiguità le questioni dirimenti poste oggi dall’oggettività: antimperialismo e contrasto all’attuale pericolosissima escalation bellica di Usa/Nato, netta opposizione a questa Europa a trazione tedesca costruita sulla moneta unica e piegata agli interessi del capitale finanziario, difesa degli interessi delle classi subalterne, costruzione di una radicale alternativa ai balletti bipartisan (comunque diretti, dal centro-destra o dal centro-sinistra) e all’inarrestabile deriva del Pd. Non è affare di un giorno, ma il momento è ora.