Perché in Italia non si fa prevenzione? Qualcuno sostiene che il problema sia culturale, altri incolpano i vincoli di spesa europei. Ma i motivi sono altri.
di Alessandro Bartoloni
Ci risiamo. Ancora una volta l’ennesimo terremoto – imprevedibile ma tutt’altro che inaspettato – ha distrutto centinaia di vite umane, infrastrutture pubbliche e private, beni culturali unici al mondo e messo in ginocchio migliaia di persone. Eppure in Italia ci sono centri di eccellenza e ricercatori di fama mondiale che si occupano di studiare questi fenomeni h24. Lo Stato italiano ha addirittura adottato come suo documento ufficiale la mappa della pericolosità sismica, dove per ogni luogo è indicato il relativo grado di pericolo. Autorità ed esperti, poi, sanno perfettamente quanti e quali sono le infrastrutture che dovrebbero essere adeguate alla normativa anti-sismica e addirittura quanto ci costerebbe (circa 100 miliardi), cifra alla portata sia dello Stato che dei cittadini. È ampiamente noto, infine, se non altro perché ce lo dice la pubblicità, che prevenire è meglio che curare. Dunque, sappiamo tutto quello che c’è da sapere per evitare che eventi naturali come quello appena accaduto si trasformino in tragedia.
Ma allora perché la prevenzione tarda a metter radici qui da noi? Qualcuno sostiene che il problema sia di natura culturale. Ma come potrebbe la cultura dominante essere diversa da quella che è, e privilegiare il rinforzo dei solai alla costruzione delle verande, il montare tiranti al cambiare la caldaia, se poi la casa deve essere commercializzata? Chi ha vissuto l’esperienza di una compravendita o anche solo di una locazione o di una ristrutturazione, sa benissimo quali sono le caratteristiche che danno all’immobile maggior valore di mercato e quali, invece, comportano costi che gli conferiscono solo valore d’uso.
Qualcun altro, al contrario, sostiene che sono i vincoli di spesa europei a bloccare gli investimenti necessari a prevenire queste tragedie. Ma questi vincoli sono relativamente recenti e, soprattutto, non impediscono ai proprietari di case e alberghi di intervenire sui propri stabili per renderli più sicuri.
Dunque perché non si adegua almeno il patrimonio immobiliare privato?
Come già evidenziato in precedenti articoli, il privato investirà nella ricerca e nello sviluppo di conoscenze e tecniche che migliorano la prevenzione unicamente nella misura in cui la vendita della merce-prevenzione gli consente di accumulare profitto e nulla più, senza che ciò aumenti di per sé la ricchezza sociale prodotta. Al più questa potrà meglio conservarsi se le migliori tecniche venissero adottate. Il che avviene sulla base della comparazione, effettuata dall’acquirente della merce-prevenzione, tra le risorse da investire a tale scopo e il danno da evitare: se i beni da preservare sono cari, di difficile o costosa riproducibilità o si valorizzano cospicuamente converrà investire nella loro protezione e salvaguardia più di quanto non convenga nel caso opposto.
Questo perché l’acquisto della merce-prevenzione, né aumenta il fatturato, né diminuisce i costi di produzione ma anzi li aumenta. Fatta da pubblici poteri, invece, la prevenzione conserva unicamente la sua utilità che, per quanto alta, però non aumenta le risorse di cui lo Stato dispone né, soprattutto, modifica gli scopi comuni della classe dominante che l’azione pubblica mira a tutelare e sviluppare e che non consentono di spendere nell’ottica di salvare vite umane prive di valore perché inutili ai fini dello sfruttamento o facilmente sostituibili.
Si pensi ora alla situazione della Penisola, caratterizzata da pochi grandi impianti produttivi, tante piccole imprese, innumerevoli borghi, beni culturali e paesaggistici scarsamente valorizzati e valorizzabili, crescente dequalificazione della forza-lavoro, massiccio uso di lavoro nero e clandestino, e, soprattutto, inarrestabile e inevitabile declino economico e geo-politico internazionale.
È chiaro che i valori da tutelare sono piuttosto bassi e dunque il business della prevenzione e del restauro non può minimamente competere con quello della costruzione e della ricostruzione. Non a caso, al fondo per la prevenzione del rischio sismico lo Stato italiano ha dedicato 965 milioni negli ultimi sei anni, meno dell’uno per cento del necessario, mentre al solo Tav Torino-Lione questo stesso Stato promette almeno 3 miliardi.
Prevenzione e ristrutturazioni, poi, lasciate all’arbitrio del singolo proprietario privato, comportano tanti piccoli interventi spesso scollegati l’uno dall’altro, dunque estremamente sconvenienti rispetto alla costruzione di grandi opere infrastrutturali o di interi quartieri e alle ricostruzioni post-tragedia. Ricostruzioni spesso effettuate in deroga alle normative e gestite da commissari con poteri speciali, in modo da permettere un’accumulazione straordinaria di capitale ma comunque mai per far rivivere quei territori che spesso, già prima dell’evento calamitoso, hanno vissuto o stanno vivendo il declino economico e demografico, abbandonati a sé stessi da un sistema i cui interessi dominanti sono il vero motivo di questa ennesima tragedia.