In Abruzzo, quando si parla di Ombrina, ci si riferisce ad un progetto petrolifero che prevede di trivellare 4-6 pozzi a 7 km dalle spiagge. È forte la consapevolezza dell’impatto che questo scellerato progetto può avere sull’ambiente e sulla popolazione. Occorre però mettere in discussione complessivamente il modello di sviluppo che vive anche della assurda «proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui.
di Carmine Tomeo
Per un abruzzese Ombrina non è solo un buon pesce dell’Adriatico. In Abruzzo, quando si parla di Ombrina, ci si riferisce ad un progetto petrolifero che prevede di «trivellare 4-6 pozzi di fronte alla costa di S. Vito Chietino (Ch), a 7 km dalle spiagge». Non solo, il progetto, proposto dalla società inglese Rockhopper (ex Medoilgas) prevede «il posizionamento a circa 11 km di una grande nave raffineria FPSO per il primo trattamento del greggio (desolforazione). Piattaforma e nave saranno collegate da oleodotti e gasdotti. La durata prevista del progetto è di 25 anni. Una volta al mese una petroliera affiancherà la nave FPSO per caricare il greggio, in un’operazione piuttosto pericolosa chiamata allibo durante la quale possono verificarsi frequentemente perdite di greggio» [1].
In Abruzzo la battaglia No Triv è cominciata qualche anno fa e l’ultima manifestazione si è tenuta a Roma lo scorso 14 ottobre, davanti al ministero dello Sviluppo economico, con un sit-in di circa 500 persone che hanno gridato la loro contrarietà ad Ombrina mentre era in corso la Conferenza dei servizi che avrebbe completato il procedimento per la concessione di coltivazione del petrolio, poi slittata di 3 settimane. Una battaglia, quella No Triv ed in particolare contro il progetto di Ombrina Mare, che è esplosa in una maestosa manifestazione lo scorso maggio, quando nelle strade di Lanciano, in provincia di Chieti, hanno sfilato 60 mila persone provenienti da diverse parti d’Italia. A dimostrazione che la questione Ombrina Mare ha assunto, nel contesto più ampio della lotta No Triv, della tutela del territorio e della democrazia, una dimensione che si può dire nazionale.
È forte la consapevolezza dell’impatto che questo scellerato progetto può avere sull’ambiente e sulla popolazione. La pericolosità del progetto è dovuta principalmente alle emissioni in atmosfera di agenti fortemente inquinanti durante il processo di desolforazione del greggio. Il petrolio presente in Adriatico, infatti, è di scarsa qualità e pertanto si prevede che saranno rilasciate nell’aria gradi quantità di acido solfidrico (un gas tossico per la salute umana) durante il processo di raffinazione. Senza dimenticare, inoltre, i rilasci di inquinanti in mare che normalmente avvengono durante le fasi di estrazione del greggio, oltre che, naturalmente, la possibilità di gravi incidenti con pericolosi sversamenti di petrolio e altri inquinanti in mare. [2]
Ovviamente la Rockhopper minimizza la questione ambientale. E questo è un atteggiamento più che scontato: si rassicurano le popolazioni che “gli impianti sono sicuri”, poi capitano disastri irreparabili come quello avvenuto nel 2010 nel Golfo del Messico. In Adriatico, mare piccolo e chiuso, basterebbe uno sversamento molto minore di quello del Golfo del Massico distruggere l’ecosistema. Ma può, questo aspetto, preoccupare i petrolieri, una delle peggiori specie tra i capitalisti? No, certo. E questo, perché i petrolieri sono cinici ed insensibili di fronte all’ecosistema? Certo, ma è inutile stare a ragionare sulla sensibilità di quelli che potremmo definire neo-colonizzatori.
David Harvey spiega molto bene che «è perfettamente possibile che il capitale continui a circolare e accumularsi nel mezzo di catastrofi ambientali. I disastri ambientali creano ampie opportunità di profitto per un “capitalismo dei disastri”» [3]. Una definizione raccolta da Naomi Klein, che nel suo Shock Economy definisce “capitalismo dei disastri”, quei «raid orchestrati contro la sfera pubblica in seguito a eventi catastrofici legata a una visione dei disastri come splendide opportunità di mercato» [4]. In sostanza, nel modello di sviluppo presente, cioè quello capitalistico, un danno ambientale, anche una catastrofe ambientale, rappresenta un modo per far crescere il Pil; un’occasione di accumulazione capitalistica, un modo per fare profitto. Può, quindi, un rischio ambientale, pure fosse di ampie proporzioni, come potenzialmente potrebbe avvenire con Ombrina Mare, intimorire cinici neo-colonizzatori in cerca di profitto? Certamente no.
Né la tutela ambientale risulta essere una preoccupazione di governi come quello Monti prima e Renzi oggi, espressione, entrambi, del modello di sviluppo condiviso con i petrolieri. Non è casuale la linea di continuità tra la Strategia Energetica Nazionale approvata dal governo Monti e lo Sblocca Italia del governo retto dal segretario del Pd, Matteo Renzi. Basti notare che per la Strategia Energetica Nazionale, seppure «Il petrolio sta progressivamente perdendo importanza relativa», occorre tenere presente che «il suo consumo in termini assoluti è comunque atteso in crescita» e soprattutto che «è improbabile» che tecnologie in grado di sfruttare fonti energetiche alternative «abbiano un impatto stravolgente entro i prossimi 20 anni». Pertanto, dal momento che l’Italia «dispone di ingenti riserve di gas e petrolio», al governo Monti risultava «doveroso fare leva (anche) su queste risorse» [5]. Una strategia incentrata sullo sfruttamento petrolifero non modificata dall’attuale governo (nonostante il Pd si riempia spesso la bocca con termini quali “green economy”), dal momento che lo Sblocca Italia non è altro che una risposta politica alle esigenze di un capitalismo che si arricchisce con lo sfruttamento del territorio, anche devastandolo. Tanto che nel decreto Sblocca Italia, il governo Renzi ha tenuto a precisare che «si è proceduto anche rispetto alla valorizzazione dei non trascurabili giacimenti di idrocarburi presenti sul territorio nazionale» [6].
Il petrolio, come qualsiasi risorsa naturale, nell’attuale modello di sviluppo, non è altro che un valore d’uso da capitalizzare, da scambiare come merce, da cui estrarre profitto. Pertanto, per dirla di nuovo con Harvey, il fatto che lo sfruttamento del territorio crea danni ambientali qui o lì, può «gettare benzina sul fuoco di un movimento di giustizia ambientale, ma almeno per il momento le proteste sociali risultanti non costituiscono una minaccia grave per la sopravvivenza del capitale», che continuerà a fare i suoi sporchi affari sullo sfruttamento delle risorse.
Occorre, perciò, mettere in discussione complessivamente il modello di sviluppo che vive anche della assurda «proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui», sviluppando la consapevolezza che «anche un’intera società, una nazione e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive» [7].
Per fare questo, ovviamente, le varie lotte non possono rimanere vertenze isolate, ma devono essere unite da una comune prospettiva di lotta contro l’attuale modello di sviluppo. Esperienze come la lotta contro Ombrina Mare, così come, ad esempio, quelle No Tav o No Muos, vanno in questa direzione e non bisogna abbandonarle.
Note:
[1] Una descrizione più completa sul progetto è reperibile qui: https://stopombrina.wordpress.com/ombrina/
[2] a questo link è possibile leggere considerazioni più dettagliate sui motivi per cui è necessario opporsi ad Ombrina Mare: http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/19/trivellazioni-in-abruzzo-10-motivi-per-dire-no-a-ombrina/631026/
[3] DAVID HARVEY, Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo
[4] NAOMI KLEIN, Shock Economy - L'ascesa del capitalismo dei disastri
[5] A questo link è consultabile la Strategia Economica Nazionale del marzo 2013: http://www.sviluppoeconomico.gov.it/images/stories/normativa/20130314_Strategia_Energetica_Nazionale.pdf
[6] http://www.governo.it/Governo/ConsiglioMinistri/dettaglio.asp?d=76561
[7] KARL MARX, Il Capitale – libro III – sezione VI