Messaggio ai medici e infermieri oltre la pandemia

Non è lo spirito di sacrificio che il sistema premia con i centesimi e loda con lusinghiere parole, ma è l’accoglimento forzato e inconsapevole del destino liberista che rende la professione medica un martirio e l’etica sociale una pratica straordinaria.


Messaggio ai medici e infermieri oltre la pandemia

Al posto dell’occhiello, la citazione di una parte finale della poesia di B. Brecht, intitolata “Messaggio” [1] viene qui riportata all’inizio di queste brevi osservazioni sull’andamento della pandemia in atto, data la stretta attinenza ai problemi che ognuno di noi sta vivendo, quotidianamente assillati da informazioni contrastanti, in un disorientamento forse non voluto e comunque di impianto istituzionale assolutamente nuovo.

III “Messaggio a medici e infermieri”

«Ora a voi, medici e infermieri. Pensiamo
che anche fra di voi ci debba essere qualcuno,
pochi forse, ma qualcuno sì, che
si rammenti dei doveri verso quelli
che hanno, come loro, apparenza umana. Invitiamo
costoro a sostenere i nostri ammalati
nella loro lotta contro le Mutue e le consuetudini ospedaliere
che riguardano la classe oppressa.

Impegnarvi in lotta con altri, con gli strumenti compiacenti
dello sfruttamento e dell’inganno. Vi chiediamo che questi
voi li consideriate come nemici vostri. Facendo questo
voi combattete solo la vostra propria battaglia contro i vostri sfruttatori
che ora vi minacciano di quella medesima fame
che ha fatto cadere il nostro compagno.
Lottate con noi!»

Il «compagno» della poesia riguardava un comunista ammalato di tubercolosi, abbandonato alla fame e all’umidità, cui giunge l’esortazione a lottare sia contro la malattia sia contro l’oppressione, che l’«hanno fatto ammalare». Oggi la tubercolosi, flagello durato fino al secondo dopoguerra, è stata confinata e quasi debellata nei Paesi sviluppati, mentre è ancora una delle prime cause di morte nei paesi più poveri dell’Africa e dell’Asia con circa 2 milioni di morti l’anno. Ora è invece in pieno corso non più il bacillo di Koch, ma un coronavirus altrettanto se non più pernicioso e meno riconoscibile del mycobacterium ormai individuato, nuovo esito anch’esso della continua guerra di classe, non più necessariamente ovunque sempre armata, ma agita tramite patogeni. L’eccezionale diffusione di questo virus è dovuta proprio all’interconnessione dei profitti confliggenti e indifferenti ai pericoli reali dell’economia integrata, all’inquinamento planetario, all’impoverimento – e quindi alla maggiore vulnerabilità – della maggior parte della popolazione mondiale, quali concause ancorché indirette ma compresenti. Le migliaia di morti in tutto il mondo, con certezza stimate per difetto, quelle dei contagiati e il rischio per la popolazione restante fanno correre ai ripari i rispettivi governi nell’applicazione di misure restrittive e di chiusure nazionali parziali, con risultati differenziati per zone territoriali. Il generoso tentativo di virologi e scienziati di tutto il mondo per diminuire almeno «di un millimetro cubo» [2] l’attuale ignoranza (nonostante alcune previsioni da parte anche di scienziati!) che vela il comportamento di questo virus, non ha per ora fornito risultati definitivi e si brancola tra prove sperimentali di terapie da adattare.

In tale situazione di incertezza l’escamotage di distogliere l’attenzione dalla realtà di effettiva minaccia generale, si avvale di due elementi distorsivi principali: a) inoculare paure legandole alla cosiddetta “emergenza”, peraltro leit-motiv di ogni crisi, ed b) esaltare retoricamente il già bistrattato personale sanitario , decurtato di 8.000 medici e 13.000 infermieri soprattutto nel sud italiano, dato il taglio di ben 37 miliardi di euro tra il 2010 e il 2019 (da Berlusconi a Monti di 25 miliardi, e di 12 miliardi da Letta, Renzi, Gentiloni, Conte). Le paure si sversano ora nel contenitore dell’obbedienza coatta alle restrizioni sociali, e i sanitari vengono celebrati come eroi in prima linea. Lo stato di guerra poi è così materialmente e forzatamente rivolto contro il virus, mentre non si fa menzione di quella precedente condotta contro la sanità e per l’impoverimento della popolazione, ridotta nelle condizioni di degrado sociale e ambientale dall’esazione forsennata dei profitti in preda alla loro crisi, ormai da decenni sì pandemica. L’esorbitante numero dei morti nel nord Italia avrebbe potuto essere molto inferiore, ma tanto ormai non se ne tiene neppure più il conto nemmeno nei necrologi [3] per non dare consapevolezza dell’entità del disastro umanitario, controproducente realismo a smentita dell’immagine di una edulcorata pace sociale.

L’attualità drammatica di questo poetico appello brechtiano ce lo fornisce casualmente una lettera di un’infermiera diretta al presidente Conte e pubblicata da Il Fatto Quotidiano (22.03.2020). Per chi non l’avesse letta se ne riporta una sintesi sostanziale. La lettera si inizia con il rifiuto dei 100 euro premio stanziato per i lavoratori sanitari, in quanto – si dice nella conclusione – il lavoro svolto da tutti vale infinitamente di più e condotto in condizioni personali gravosissime, di cui negli spalti del potere si ignora tranquillamente ogni dettaglio. Il rifiuto poi, riguarda sia l’apprezzamento sia l’elemosina riservati a questi lavoratori, implicitamente motivato dalla necessità di sottrarsi a forme ipocrite di copertura di ciò che da anni è stato realizzato nella sanità, finora considerata un “bancomat dei governi”. La condizione di “PAURA” del contagio cui sono stati inoltre abbandonati, è data dalla carenza di dispositivi di protezione che dovrebbero essere d’obbligo, sia da un punto di vista specifico del settore sia da quello genericamente umano. Lo stato di sofferenza individuale, poi, cui questi lavoratori sono sottoposti, non avendo prezzo – si può aggiungere qui, – non viene contabilizzato da un governo prono ai comandi della lucrabilità privata, che dovrebbe invece – riprende la lettera – rimettere mano al contratto di tutti quei lavoratori del settore che sono stati dirottati in convenzione, a partite Iva, a tempo determinato, a chiamata, all’estero, senza specializzazione, ecc.

L’appello alla lotta di Brecht – per chi lo vuole e lo sa leggere - è come recepito internamente a ogni riga di questa lettera scritta a ben 81 anni di distanza, appassionata e drammatica, forse anche inconsapevole di essere stata preceduta negli stessi contenuti. Vengono denunciati infatti tanto «gli strumenti compiacenti dello sfruttamento» ideologici e pratici, quali i ringraziamenti – non della gente comune più che confortanti e graditi invece! – e la definizione “eroica” della dedizione profusa, quanto la miseria di quel centinaio di euro, rispetto ai milioni annui sottratti e sottaciuti. “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi” sosteneva il Galilei brechtiano a fronte della costrizione all’abiura! E gli eroi sono sempre quelli negati o mandati a morire e che inaspettatamente sono riusciti a sopravvivere, salvando anche altri. E sventurati siamo anche noi che, data la carenza di forze per combattere in tempo il depredamento del settore sanitario nazionale, siamo stati costretti a riversare la nostra mancanza collettiva su quella esigua parte di noi che deve così rischiare vita, affetti, energie, equilibrio psicofisico, ecc., perché condannata alla precarizzazione estrema che, grazie solo ad un virus micidiale, emerge in tutta la sua distruttività sociale ora sotto gli occhi di tutti.

Questa precarizzazione sanitaria poi è la stessa che porta i contagiati ai loro ospedali, dove non solo le fasce più deboli della popolazione cedono all’infezione, ma anche – forse soprattutto – quelle impoverite e perciò obbligate a lavorare in qualunque condizione di ricatto, affinché si perpetui il dominio dei profitti. Quella «medesima fame», che condanna ad ammalarsi, è quindi il motore ricorrente della necessità di una lotta comune ancora sempre più attuale, contro sfruttatori e ingannatori per «combattere la propria battaglia» in modo unitario, così solo potenzialmente efficace.

Non è allora lo “spirito di sacrificio” che il sistema premia con i centesimi e loda con lusinghiere parole, ma è l’accoglimento forzato – e per lo più inconsapevole – di questa sorta di destino liberista etero-pilotato dai signori delle cliniche private e delle privatizzazioni ed esternalizzazioni-finché-si-può, che rende la professione un martirio e l’etica sociale una pratica straordinaria. I governanti – anch’essi inconsapevoli delle ripercussioni di questa crisi – stanno esponendo intanto alla visibilità generale l’esistenza di un valore d’uso coincidente con la serietà professionale tutt’uno con la com/passione e solidarietà umana, insospettabile per i mercanti del plusvalore dannati invece a inseguire il valore di scambio spazzato via dai monsoni della crisi.

Bando alla retorica dell’eroismo, la capacità concreta di svolgere il proprio lavoro di sanitario è indistinguibile dal sentirsi membro di una umanità sofferente cui ci si prodiga come unica identità possibile. L’essere umani, di cui i mistificatori dell’eroismo si meravigliano, comporta il possedere un’etica che impone la cura della vita, l’uso della propria competenza finalizzata a salvare la vita altrui quale specchio di sé stessi. È un uso sconosciuto a chi rincorre la valorizzazione appropriabile del lavoro eseguito nella normale mortificazione di chi lo ha effettuato, come è sconosciuto a chi usa la professione per ricavarne denaro come unico fine.

I rapporti materiali dominanti, rispecchiati nelle forme politiche e giuridiche che ci governano e che hanno depredato la sanità pubblica – quale ocus specifico in questo frangente –, fanno apparire le relazioni umane non come immediatamente sociali fra persone all’interno dei loro lavori concreti, ma come rapporti sociali tra cose che si scambiano. Per questo sistema la sanità – e quindi tutti i suoi operatori – non produce salute o salvezza di vite umane, ma profitti e compromesso sociale per il mantenimento dei capitali sovraordinati. Questa apparente dicotomia, frutto della coincidenza del dominio transitorio e di questo modo di produzione reale, fa emergere oggi la superiorità oggettiva dell’abnegazione di lavoratori che hanno rimesso al loro posto i valori materiali ed essenziali della vita in genere, come primato assoluto del proprio lavoro il cui uso precipuo è ricerca, solidarietà, aiuto reciproco tra umani che si riconoscono come specie naturale e come società reale nella storia. L’alienazione capitalistica del modo di produzione di questa epoca storica non cancella l’oggettivazione concreta delle sue innovazioni, conquiste sociali e coscienziali, valori umani e civili, ecc. La loro distorsione non ne implica necessariamente la distruzione materiale.

La sanità pubblica residua, peraltro una delle voci del salario indiretto, risulta così inadeguata a fronteggiare la pandemia che non solo scoperchia il bottino della inestinguibile guerra di classe perpetrata, ma fa risuonare l’allarme dell’effetto guerra dirottato sul solo virus. Dalle accuse piovute facilmente a pioggia, il sistema prova a difendersi nascondendo il numero dei morti, dei necrologi, dei contagiati, dei lavoratori obbligati al lavoro causa di contagi incontrollabili, evitando i tamponi, ecc.

Il bollettino soltanto indicativo di questa guerra ormai da aggiornare: il 73% delle aziende medio-grandi della bergamasca hanno continuato a lavorare coinvolgendo 500.000 lavoratori su 2.500.000, ripartiti tra tessile, metalmeccanico, chimico, gomma, contoterzisti per la Germania. In una fabbrica di ingranaggi sono stati considerati malati solo quelli cui viene fatto il tampone, gli altri non vengono contati. Le aziende non sono messe in quarantena se non hanno contagi interni. Chiusura dopo 20 giorni di prosecuzione del lavoro. Alcuni lavoratori si dichiarano malati per avere diritto alla quarantena. Il 27% ha chiuso l’attività. I morti sono 5 o 6 volte superiori alle stime ufficiali. Anche col moltiplicatore fino a 10. Formigoni ha chiuso 28 ospedali. Dirottamento sui privati con un livello qualitativo inferiore al pubblico. Chiusi ospedali nella Val Brembana. Il S. Giovanni Bianco è stato dichiarato antieconomico. Il business ha riguardato anche le residenze degli anziani, ora le più colpite. Siccome le strutture sono state ridotte, si muore a casa. La terapia intensiva non rende, quindi la riforma sanitaria ha privatizzato i cronici ma non per tutte le patologie. Analisi più rapide. L’inefficienza pubblica è stata così pilotata, rendendo anche “necessario” l’accorpamento dell’intramoenia. I morti sono in casa, in ogni famiglia.

Molti si chiedono quale sarà l’esito di questa sconvolgente esperienza, cosa cambierà e cosa rimarrà nelle nostre istituzioni, nella nostra società, nelle nostre coscienze, abitudini, ecc. Al momento non ci sono risposte, solo possibili ipotesi, tranne quella che ormai tutti sanno: l’uscita dall’incubo sarà la messa a punto del vaccino da estendere universalmente. Se il sistema di capitale sopravvivrà al Covid-19 – come è purtroppo presumibile – se ne rafforzerà anzi la gestione anche di questa ricerca, che sarà appropriata da qualche laboratorio della Big Pharma o da qualche altro colosso farmaceutico traducendolo in benefici profitti. La ossessiva conta dei morti quotidianamente avviata, si concluderà con dei numeri così alti da costituire una necessità inderogabile ad acquistare l’agognato vaccino, riconquistando così gli stati più deboli da indebitare ulteriormente, o ricattando quelli cosiddetti alleati o concorrenti con “accordi bilaterali” o scambi vantaggiosi.

La scienza, va rammentato, è solo una branca di questo modo di produzione e il suo uso politico diventa un’arma a disposizione di chi ne gestisce il dominio. Sulle popolazioni decimate, non importa se da guerre, fame, inquinamenti, malattie, ecc., si può sempre contare che siano accondiscendenti se non addirittura grate di esser sopravvissute e poi curate. La guerra di classe contro le popolazioni continua anche sotto queste insospettabili forme, addebitando alla “natura” sfuggita al controllo il disastro umanitario e avocando al proprio magnifico e munifico potere la scoperta del vaccino anelato. La condizione degli scienziati potrà anche essere migliorata con qualche briciola in più di reddito, ma la loro subalternità e dipendenza specialistica rimarrà intatta al servizio del capitale, libero di sfruttarli apparentemente per il bene della “comunità” umana, da cui intascare i miliardi dovuti.

La poesia che B. Brecht ci ha lasciato in eredità non è solo una poesia, è un’analisi del funzionamento di questo sistema finché non sarà superato da un altro. È soprattutto un’analisi di quello che deve e può essere il contributo a questo superamento da parte di chi ne rimane subalterno o vittima, anche quali loro sostituti e successori. Riconquistare la priorità del valore d’uso, della materiale concretezza del nostro lavoro e del nostro ruolo sociale, non lasciandocelo capovolgere o ipocritamente glorificare, significa non solo prendere coscienza di una realtà finalmente visibile, ma anche sviluppare da questa la capacità di lotta necessaria a che la spoliazione della maggior parte della popolazione mondiale abbia termine. Accumulare forze e lottare contro questo sistema tendenzialmente sempre più distruttivo ha come corollario lottare anche contro questo e i prossimi virus che si abbatteranno sulle vite di tutti, secondo previsioni scientifiche già effettuate.

Tassare per ora i capitali a favore della sanità mondiale: questo il nostro obiettivo, cerchiamo insieme le forme politiche minime, ma concrete, con cui realizzarlo.


Note:

[1] Bertolt Brecht, Poesie di Svendborg, pubblicate nel 1939. Traduzione di Franco Fortini, Einaudi, 1976, Torino.

[2] Geniale, ironica unità di misura di B. Brecht in Vita di Galileo, Traduzione di Emilio Castellani, Einaudi, 1963, Torino.

[3]  Francesco Macario, segretario provinciale di Rifondazione comunista di Bergamo e provincia ha contrastato (27.03.2020) il numero dei contagi e dei morti dichiarati da Borrelli, capo della Protezione Civile, che fornisce un numero di decessi e di contagi inferiore alla realtà. Macario sostiene infatti che all’anagrafe i morti sono molti di più di quelli che risultano per effetto del coronavirus. Ai deceduti in casa, o nelle rsa per anziani, non viene effettuato il tampone e quindi non sono conteggiati tra quelli dichiarati. Il rapporto tra quelli dichiarati e quelli reali sembra essere anche più elevato di uno a dieci sia per occultamento dei contagi e dei decessi sia per impossibilità di calcolare l’effetto contagio che dai luoghi di lavoro si estende ai familiari e conoscenti dei lavoratori, non risultando perciò mai responsabile il datore di lavoro. I lavoratori continuano ad andare al lavoro – in nero o meno - e il numero degli ospedalizzati si arricchisce di persone più giovani e sane.

04/04/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Carla Filosa

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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