Sin dalla sua ascesa nello scenario politico italiano, il Movimento 5 Stelle rappresenta una chimera misteriosa, fin troppo giudicata e mai compresa fino in fondo.
Dopo anni di studi politici sul “partito-non-partito” ci avviciniamo finalmente alle condizioni ottimali per la comprensione più piena di un’organizzazione complessa, nuova e non certo trasparente come l’M5S. Tale situazione si sta gradualmente realizzando in questo momento storico e politico di confusione e sostituzione delle élites dirigenti. Il centro-destra annientato, il PD in piena crisi d’identità, i pentastellati che sbancano le amministrative: il momento non potrebbe essere più propizio.
Facendo un passo indietro, possiamo affermare che la grande vittoria del Movimento è stata quella di concretizzare a livello politica l’utopia di rigeneramento morale tragicamente fallita con Mani Pulite. Il punto di forza del M5S è stato dunque la sua capacità di raggruppare organicamente legami e aggregazioni sociali trasversali intorno a un progetto di netta cesura politica col passato.
Tuttavia, come sempre succede in politica, è solo con una sana dose di realismo che si può mettere a confronto il programma statuario e politico di un partito con la sua realizzazione effettiva.
Già tre anni fa, con un articolo per Internazionale - “Il Movimento 5 Stelle ha difeso il sistema” -, il collettivo letterario Wu Ming, pur puntualizzando - “Tifiamo rivolta. Anche nel M5S”-, aveva denunciato l’ambigua doppiezza del Movimento 5 Stelle, presentatosi originariamente come massa di “incendiari” ma dimostratosi poi nel tempo il corpo dei “pompieri” dell’ordine politico.
In occasione delle elezioni amministrative, l’Istituto Cattaneo pubblicò un reportage nel quale si sottolineava la transizione del movimento pentastellato dalla sua fase “identitaria” a quella “politica”, nonché dall’isolazionismo politico del 2012-2013 ad un nuovo protagonismo sulla scena, ben più conscio di sé ed aperto alla pragmatica compromissioni con le forze “sporche” della vecchia politica.
Con lo stravolgente esito delle elezioni amministrative in primis, e dei ballottaggi di Roma e Torino poi, si può poi constatare la caduta quasi definitiva della conventio ad excludendum che ha tenuto per lungo tempo gli “impreparati” e “inaffidabili” grillini lontani dal potere.
In un certo senso, allora, ciò che sta accadendo a Roma in questi giorni dovrebbe essere inquadrato in un quadro più ampio delle analisi elaborate finora dagli interessati quotidiani nazionali. Innanzitutto, la crisi della neo-eletta giunta Raggi, tra dimissioni, pressioni mediatiche e destabilizzazioni dall’esterno, è sicuramente indotta in certa misura: si tratta della prima prova del M5S ai vertici del Paese, farla fallire significa compromettere significativamente le ambizioni governiste dei pentastellati sull’intero Paese.
In secondo luogo, la demonizzazione dello “scandalo” dell’assessore Muraro, indagata da aprile e non spinta forzosamente alle dimissioni da Virginia Raggi, viene perpetrata a mezzo stampa, sulle prime pagine (!) delle principali testate nazionali, secondo i termini e i canoni della convenzionale politica di palazzo.
Il fatto che il Movimento non rifugga in toto questo modus operandi, escogitando risposte “diplomatiche”, sottintende forse un’implicita strategia governista già a livello municipale. Questa non scontata opzione rivelerebbe con buona probabilità il mutamento morfologico – e tuttavia forse programmato da lungo tempo – del Movimento 5 Stelle da partito anti-sistema ed anti-establishment a nuovo amministratore di un sistema non radicalmente mutato.
Ciò non significa che “allora il M5S è come tutti gli altri partiti” tanto criticati; bensì, senza dimenticare che la giunta Raggi deve al contempo affrontare contemporanee emergenze amministrative create dalle precedenti gestioni figlie di “Mafia Capitale”, si potrebbe dunque affermare che dopo la fase della “rivolta” grillina è giunto il tempo della “normalizzazione”. II Movimento cercherà allora di consolidare un programma politico netto e distinguibile e un solido centro decisionale del potere.
Ci troviamo dinanzi ad anni interessanti, durante i quali il Paese sarà costretto a scegliere, dal referendum costituzionale sino alle elezioni del 2018, fra l’ipotesi di un cambiamento netto e radicale e la perpetuazione delle forme del reggimento politico finora dominanti. Aut aut, senza possibilità di confluenze centriste o compromissorie. Tenerlo a mente è fondamentale per comprendere come si determineranno i nuovi scenari politici, nazionali ed europei; dei quali, volenti o nolenti, gli interpreti pentastellati rappresenteranno a lungo un perno imprescindibile.