Persino un intellettuale, come Massimo Cacciari, in sintonia sostanziale con questo sistema economico-sociale ed ospite costante delle più svariate trasmissioni televisive per il suo sostanziale “conformismo democratico” [1], si scandalizza dell’attuale campagna elettorale, che giudica non solo fondata su antiche promesse mai realizzate e ripetute come “chiacchera”, ma anche – fatto ancor più grave – su una totale mancanza del principio di realtà. Egli considera tale situazione frutto della grave crisi dei partiti e della classe politica, iniziata negli anni ’90 con Tangentopoli, che ha ridotto questi ultimi in apparati più o meno potenti di propaganda per il sostegno a un leader “carismatico”, si fa per dire. Ma credo si possa affermare anche qualcosa di più: tale crisi delle organizzazioni politiche è dovuta al fatto che esse sono sostanzialmente supine all’esistente e non solo perché fanno parte di consorterie interessate esclusivamente alla gestione del potere, ma anche perché, nonostante la parola “cambiamento” sia tra le più ripetute, sono fortemente ostili ad un mutamento reale, che chiamerebbe in causa non solo i twitter di Renzi, le dichiarazioni di Fontana sulla razza bianca, ma i reali rapporti di potere a livello internazionale. Insomma, gli attuali partiti sono privi di una visione totalizzante della società contemporanea, se non quella dell’identificazione con l’esistente, magari con qualche piccolo ritocco. Muovendosi in questa medesima direzione, Cacciari si limita a restare sul livello più visibile e quotidiano, auspicando che si affacci un leader (per es. Renzi), che ci dica come stanno effettivamente le cose e che, in questo contesto di analisi realistica, ci comunichi quello che sarà in grado di fare; ossia, farci ascoltare con qualche piccola variante la stessa musica che stanno suonando dall’inizio della crisi, la cui natura profonda e sistemica naturalmente viene occultata.
Se estendiamo il nostro sguardo ad altri temi della campagna elettorale, vedremo che un altro costante tratto comune è rappresentato da quelli che dovrebbero essere i caratteri della classe politica, che di fatto si autocandida a dirigere il paese nei prossimi anni, limitandosi a rappresentare se stessa: onesta, competente, affidabile. Anche in questo caso abbiamo uno spostamento dalla sfera politica alla dimensione personale: il problema non è più rappresentato dai diversi progetti politici, nei quali si esprimono gli interessi conflittuali delle diverse classi, interessi che se in contraddizione con quelli della maggioranza non debbono mai essere esplicitati. Ma a tale considerazione bisogna aggiungere una domanda: chi verifica l’onestà, la competenza, l’affidabilità dei politici? Ovviamente il sistema vigente è quello già menzionato della consorteria, che non prevedendo nessun controllo dal basso, se non le sceneggiate delle primarie o delle consultazioni via web, non può che fondarsi sulla procedura della cooptazione, in cui un gruppo non fa che rigenerare e riprodurre se stesso e purtroppo in forma sempre più scadente.
Questo richiamo, in particolare, alla competenza costituisce una delle ragioni per le quali i docenti delle università rappresentano per i politici gli “esperti” per antonomasia di un certo settore, e ciò anche senza tenere conto delle loro scelte politiche di fondo, come se conoscenze “tecniche” e concezione della società fossero del tutto separati. Il presupposto di tale atteggiamento sta ovviamente nella cosiddetta neutralità della scienza, che è in grado di stabilire per esempio, senza esplicitare il proprio punto di vista politico di partenza, che è opportuno anzi indispensabile rimanere nell’eurozona. A questo proposito, c’è anche chi tira in ballo Benedetto Croce, il quale riteneva che non sono assolutamente necessarie l’onestà e la probità nella propria vita personale per essere degli uomini competenti del proprio mestiere, sbeffeggiando coloro che vanno ricercando tale combinazione, a suo parere del tutto inutile, nell’uomo politico.
Prima di analizzare il richiamo esplicito fatto da alcuni gruppi politici al problema dell’università, vorrei sottolineare che in generale tutte le proposte elaborate da questi negli ultimi tempi hanno un carattere meramente demagogico e - cosa ancor più grave - mostrano la loro irrealizzabilità nell’attuale quadro, perché non fanno parte mai di un progetto coerente di società, fondato su un’analisi realistica delle sue contraddizioni. Essi mirano semplicemente ad attrarre l’elettore confuso dalla massa delle informazioni, che colpiscono nella misura in cui ripudiano con vigore qualcosa di accettato fino poco tempo fa come ineluttabile e necessario. Si pensi, per esempio, alle critiche oggi rivolte da Berlusconi al Job Acts, successivamente ridimensionate o al dichiarato appoggio ai pensionati di Giorgia Meloni, che a suo tempo (nel 2011) votò a favore della legge Fornero.
Il tema “Ricerca & Università” in questa bagarre di proposte naturalmente non poteva mancare dalla campagna elettorale e ciò per varie e importantissime ragioni, che tuttavia non si fondano su un’analisi approfondita di questo importantissimo comparto, ma consistono in una serie di boutade, che inoltre danno una perfetta idea di come funziona la contesa politica nei “paesi democratici”, mostrando per di più il livello di “competenza” (scarsissimo) dei vari leader politici. D’altra parte, i docenti universitari non hanno mai fatto mancare il loro appoggio ai vari partiti, cui forniscono la giustificazione ideologica alle loro scelte politiche e, fatto ancora più importante, trasformano con i loro discorsi ciò che scaturisce da una “teoria scientifica” in senso comune, facilmente recepibile. Per esempio, il tema dell’anti-assistenzialismo, con l’accento messo sulla valorizzazione dell’individuo, è stato astutamente combinato con l’anti-statalismo spontaneo delle classi popolari, le quali hanno così creduto che indebolire alcune istituzioni statali avrebbe costituito solo un vantaggio. Il bisogno dei docenti universitari o di intellettuali di vario livello per portare avanti questo lavoro ideologico è confermato dal fatto che attualmente 62 di essi siedono in parlamento dividendosi tra i vari partiti.
Ci sono tre specifici eventi su cui mi soffermerò che nella campagna elettorale hanno tirato in ballo il problema dell’università ormai in processo di dissoluzione per i tagli, ai finanziamenti, il blocco del ricambio generazionale, il diffuso precariato, il disfacimento delle strutture, il basso numero di laureati, l’orientamento della loro preparazione in vista delle richieste del mercato del lavoro e della ricerca per le necessità della piccola industria italiana non in grado di investire nell’innovazione tecnologica.
Il primo evento è rappresentato dall’uscita di Pietro Grasso, il quale ha detto testualmente che il suo partito (Liberi e Uguali) avrebbe abolito le tasse universitarie, come se con una semplice mossa si potessero risolvere i problemi degli atenei e del sistema educativo. Anche se nel programma di Liberi e Uguali si possono leggere anche altre cose che sembrerebbero in linea con una visione democratica della funzione pubblica dell’università, come non sottolineare le ambiguità di questi personaggi, che si sono messi dietro un altro leader “carismatico” (a dire il vero un po’ sbiadito) e che quando si è trattato di votare contro la legge sulla cosiddetta Buona Scuola (Bersani, Speranza e Fassina per esempio) non si sono nemmeno presentati.
Ma c’è di più. Come è stato osservato a proposito delle differenze tra il programma di Liberi e Uguali e quello di Jeremy Corbyn, da cui è tratto lo slogan “Per i molti, non per i pochi”, il primo sarebbe sempre imperniato sulla concezione aziendalistica e subalterna all’economia dell’università, nella quale ognuno deve trovare la sua collocazione per dare il suo contributo. Nel programma di Corbin, invece, il rapporto è rovesciato: qui l’accento è posto sulle potenzialità dell’individuo cui il sistema sociale ed economico, adeguatamente strutturato, deve dare impulso, favorendone lo sviluppo e la valorizzazione. D’altra parte, non mi risulta che Liberi e Uguali o M5 stelle, anch’essi fervidi fautori del “cambiamento”, abbiano pensato ad abolire l’art.2 i della legge Gelmini, che inserisce due o tre membri esterni nei consigli di amministrazione degli atenei, con la scusa che le università non debbono essere autoreferenziali e debbono aprirsi alle richieste provenienti dal mercato e dall’economia.
Quanto, invece, alla campagna elettorale del Movimento 5 stelle, è interessante osservare un altro esempio di voltafaccia, cui questo gruppo ci ha abituato. Dopo aver criticato non tanto l’istituzione dell’Istituto Italiano di tecnologia, creato da Tremonti nel 2003 e posto sotto il controllo del Ministero Economia e Finanze, quanto l’attribuzione ad esso di ingenti fondi, senza prevedere un bando pubblico con il quale si sarebbero dovuti valutare i vari progetti presentati dalle istituzioni universitarie e di ricerca e sostenere i più validi. I 5 stelle nella persona di Gianluca Vacca hanno denunciato l’oscurità della procedura e dei criteri utilizzati per l’attribuzione di tali risorse, cosa d’altra parte fatta da tutto il mondo scientifico italiano. Ma solo pochi giorni fa Luigi di Maio ha visitato l’Istituto, più volte criticato anche per la sua scarsa produttività scientifica, e ha dichiarato “noi lo sosteniamo senza se e senza ma, questo è il nostro modello di paese”, consapevole o meno che esso sia la realizzazione renziana di una proposta della Confindustria interessata a che vi siano istituzioni pubbliche controllabili che facciano la ricerca per le imprese, scaricando i suoi costi su di noi (V. al proposito il documento dell’Associazione nazionale docenti universitari).
L’ultimo evento significativo che vorrei ricordare è rappresentato dall’idea dei grillini di candidare i rettori dell’università di Torino e di quella di Milano, Gianmaria Ajani e Gianluca Vago, che potrebbero apportare prestigio, una verniciatura di competenza e di serietà e potrebbero anche attrarre una parte consistente dell’elettorato di centrosinistra ormai sfiduciato e votato all’astensione.
Tutti questi eventi mostrano come la politica abbia bisogno dell’università e viceversa in un intercambio che punta alla formazione elitaria della classe dirigente: la politica, diretta dall’economia, vuole stringere sempre più i legami tra quest’ultima e gli atenei, servendosi di personale affidabile; i docenti universitari, molti non lontani dalla massoneria, entrano in un circuito che apre loro grandi opportunità non solo offrendo loro cariche di alto prestigio, ma anche la possibilità di dirigere pezzi importanti del potere economico internazionale. Si realizza così il trionfo della logica della consorteria, che vede legati gruppi che si scambiano favori e sostegno, ma che possono conoscere anche aspri conflitti interni.
Note
[1] Una buona definizione di quello che definisco “conformismo democratico” la troviamo su un editoriale di Angelo Panebianco su cui si è dibattuto in questi giorni: “Essendo la democrazia rappresentativa l’unica possibile democrazia “superarla” significa sostituirla con un regime autoritario, nella quale per giunta gli incompetenti occuperebbero le leve del potere”. Inaccettabile per Panebianco, dato che l’unica vera democrazia già tollera l’incompetenza dell’elettore, cui lui stesso e i suoi simili danno un notevole contributo per la loro opera di disinformazione.