Una cosa è certa: la nostra Costituzione non piace proprio alle oligarchie politiche ed economiche. Mentre si sente ancora l’eco della banca di affari JP Morgan, che in un documento del 2013 sosteneva la necessità di modifiche costituzionali, l’ambasciatore statunitense John Phillips afferma ora che “La stabilità dei governi è fondamentale”, perciò respingere quella che dai suoi oppositori è stata giustamente definita una controriforma costituzionale “Sarebbe un passo indietro per gli investimenti stranieri in Italia”. Manco a dirlo, pure l’agenzia di rating americana Fitch è dello stesso parere e se vogliamo la dice in maniera più esplicita: “Se la riforma costituzionale venisse bocciata il rischio politico aumenterebbe in modo rilevante e alcuni degli sforzi fatti per aumentare la produttività e rafforzare la crescita economica di lungo termine potrebbero subire una battuta d’arresto”.
Se volessimo fare una sintesi delle considerazioni di JP Morgan, di Phillips, di Fitch e con loro di Renzi, della Merkel, dell’Ue e via elencando centri di potere politici e finanziari, è che la natura della crisi non va ricercata nelle contraddizioni economiche. Pertanto, se la crisi deve essere superata occorre intervenire sul piano politico: sulla Costituzione e sull’assetto istituzionale. JP Morgan lo scrisse in maniera chiarissima nel 2013: “Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica […] Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica.” [1] Come a dire: il capitalismo, bellezza, sta bene! Meglio per te che ti adatti alle sue esigenze. Ed il capitale, oggi, esige il Jobs act e l’Ape, la riforma Costituzionale e l’Italicum.
La stabilità politica che viene sbandierata come necessaria al superamento della crisi, è quella di un’autorità politica che sia espressione dei ceti dominanti. L’azione congiunta delle riforme costituzionale ed elettorale distorce la rappresentanza politica. Quando ciò è avvenuto, è sempre stato a danno della rappresentanza dei ceti più deboli. [2]
L’analogia con il tentativo democristiano di approvare la Legge Truffa, che l’Italicum, soprattutto congiuntamente alla controriforma costituzionale, supera in atidemocraticità, dovrebbe insegnare qualcosa. Si era nel periodo della cosiddetta “democrazia protetta”, avviata nel 1950 con la discussione di leggi eccezionali come quella antisciopero e di cui la Legge Truffa era l’asse portante necessario a dare stabilità politica al centrismo degasperiano. Diversamente da oggi, in quel caso la Cgil non mostrò alcuna timidezza, tanto che, quando la legge truffa fu portata in Senato il 29 marzo del 1953, il sindacato guidato da Di Vittorio proclamò quella notte stessa uno sciopero generale per l’indomani. [3] Anche in quel caso intervenne l’ambasciatrice Usa in Italia, Clara Boothe Luce per ammonire circa le terribili conseguenze in caso di sconfitta democristiana e perciò di dare corpo al progetto di “democrazia protetta”. [4] Fu soprattutto la mobilitazione di massa promossa da Pci, Psi, Cgil a fermare quel tentativo.
Oggi, la democrazia protetta è chiamata – ad esempio nelle parole del presidente di Confindustria, Boccia - “democrazia moderna”, “istituzioni moderne”. [5] Ma sotto il velo del modernismo si nascondono le solite intenzioni: riforma della Costituzione e Italicum rappresentano il combinato disposto in campo politico-istituzionale perché si possano imporre con più facilità quei provvedimenti che dovrebbero, come richiesto esplicitamente da Fitch, aumentare la produttività e favorire la crescita economica, ovviamente secondo i dettami padronali.
Ma non è stato forse questo il paravento dietro il quale sono stati approvati leggi, contratti collettivi e accordi di questi anni, che non hanno mosso nulla (se non qualche insignificante decimale) in termini di crescita e occupazione, ma con il drammatico risultato di aver cancellato diritti dei lavoratori, ridotto le tutele sociali, generalizzato la precarietà, aumentato il potere padronale sui lavoratori? Non è per caso né per un esercizio da salotto intellettuale che il Consiglio generale di Confindustria si sia espresso in maniera unanime a favore della controriforma; non è casuale nemmeno che il presidente degli industriali, Boccia affermi che “lo spirito della riforma è nel dna di Confindustria”: con questa riforma, i desiderata dei centri di potere economico potranno diventare più immediatamente esecutivi.
Per questo l’opposizione sociale a questa controriforma non può limitarsi a dichiarazioni di contrarietà, all’organizzazione di convegni, all’invito a votare No. Queste iniziative, seppure necessarie, non bastano, anche perché, anche se sconfitti con il referendum, i centri di potere che sostengono la controriforma torneranno all’offensiva e non è escluso che lo facciano in maniera più determinata. Per questo l’opposizione alla controriforma costituzionale deve essere forte e deve pesare sulla mobilitazione di massa.
Note:
[1] J.P. Morgan, Europe Economic Research, 28 May 2013
[2] Vedi L. Canfora, La Democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, 2004
[3] S. Turone, Storia del sindacato in Italia 1943-1969, Laterza, 1974
[4] P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, 1989
[5] V. Boccia, Relazione del presidente, Assemblea di Roma del 26 maggio 2016