Il Piano dell’offerta formativa (POF) è l’elemento cardine della privatizzazione della scuola, lo specchietto per le allodole, mutuato dalle scuole private, diverse l’una dall’altra, dove i genitori pagano e dettano legge. Non dobbiamo stupirci se la logica conseguenza dei POF sono divenuti premi, valutazioni e, oggi, la chiamata diretta dei dirigenti.
di Antonia Sani
Gli Organi Collegiali
I primi vagiti dello storico parto del nostro Parlamento, ( Legge n.477/1973 “delega per l’emanazione di norme sullo stato giuridico del personale docente,direttivo, ispettivo della scuola materna, elementare, secondaria e artistica dello Stato”), sono apparsi subito alquanto flebili. La delega al Governo metteva al centro la rivisitazione dello stato giuridico del personale docente e amministrativo della scuola, fermo a una norma del 1954 (che però già affermava “l’autonomia dello stato giuridico del personale della scuola rispetto ad altri pubblici impieghi”).
Solo l’ultimo punto riguardava “ l’istituzione e il riordino degli Organi Collegiali della scuola”, quale risposta ineludibile alle istanze di partecipazione emerse dai movimenti del ’68, ma anche quale attuazione altrettanto ineludibile del dettato costituzionale che all’art.5 “riconosce e promuove le autonomie locali.....adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. Erano trascorsi più di 20 anni dall’entrata in vigore della Costituzione.
Si trattava di uniformare la scuola a quel processo democratico che avrebbe dovuto tenere insieme decentramento, partecipazione e autonomia nel mondo della scuola, senza lederne il carattere di istituzione dello Stato in cui l’attuazione di quella particolare autonomia funzionale avrebbe dovuto avvenire nel rispetto dell’unitarietà del sistema formativo su tutto il territorio nazionale.
In realtà difficoltà e contraddizioni si manifestarono subito. L’art.5 della Legge delega, poi passato nel DPR 416/74, indica le finalità dell’istituzione degli OO.CC. “al fine di realizzare la partecipazione nella gestione delle scuole nel rispetto degli ordinamenti della Scuola dello Stato e delle competenze e responsabilità ( n.d.r. di docenti e dirigenti precisate nel precedente art.4), dando ad essa il carattere di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica.”
Di autonomia si parla solo due volte :
- all’art.4 la garanzia della libertà di insegnamento è intesa come “ autonomia didattica e libera espressione culturale dell’insegnante nel rispetto dei principi costituzionali e secondo gli ordinamenti della Scuola dello Stato nonché nel rispetto della coscienza morale e civile degli alunni”, ribadendo quanto affermato all’art.2 a proposito del “continuo autonomo processo di elaborazione culturale in stretto rapporto con la società”.
- all’art.6, in cui si sostiene che “ i circoli e gli istituti saranno dotati di autonomia amministrativa per quanto concerne le spese di funzionamento amministrativo e didattico mediante “appositi stanziamenti attribuiti annualmente”. (O bella età dell’oro).
Da nessuna parte si parla di “autonomia scolastica”. Il termine autonomia viene presentato semplicemente come tutela della libertà d’insegnamento del singolo docente (che peraltro di nessuna nuova tutela necessita essendo tale libertà sancita nell’art.33 della Costituzione), o come competenza amministrativa.
I decreti delegati nel 1974 aprono quindi la strada a una gestione partecipata della scuola, definita pomposamente autogoverno, senza che per questo autogoverno si siano volute definire le reali condizioni, ossia la reale autonomia del sistema scolastico dalle burocrazie ministeriali.
Sono almeno tre le spie di questa pervicace volontà:
- Il potere decisionale rimasto nelle mani del Capo d’Istituto . Basti ricordare che nei primi anni dell’entrata in vigore dei Decreti Delegati la decisione sulla formazione delle classi, la formazione dell’orario e l’attribuzione dei docenti alle cattedre, si trovava solo menzionata nelle prerogative del dirigente (DPR 417/74,art.3), benché il testo normativo reciti esplicitamente “ sulla base dei criteri generali stabiliti dal Consiglio d’Istituto”. Solo negli anni successivi e in seguito a lotte sostenute dai Consigli più avveduti si è riusciti a far inserire la disposizione anche tra le prerogative del Consiglio d’Istituto. (DPR 416/74,art.6).
- Il conflitto, a bella posta suggerito tra l’ordinamento scolastico vigente e le nuove attribuzioni ai Consigli, era frequente riscontrabile, tanto che in ogni ordine di scuola vi sono genitori e docenti pronti a soccombere in nome dell’autorità riconosciuta al Capo d’Istituto dichiarando di intendere il loro ruolo soltanto come “servizio di supporto” .
- La conflittualità – anche questa a bella posta prevista – tra Consiglio d’Istituto e Collegio dei Docenti relativamente alla distinzione tra criteri e proposte, meccanismo di fatto spesso incompreso, trascurato o capovolto. Veniva così tradito, spesso inconsapevolmente da parte di eletti e elette, uno dei capisaldi della democrazia scolastica.
Fu esclusivamente merito delle liste di sinistra se in una parte, purtroppo non maggioritaria degli istituti scolastici, l’ottica di una partecipazione non familistica, ma di impegno civile e democratico continuò a resistere e a sostenere posizioni inedite sul tema della laicità e della lotta contro nuove forme di discriminazione. Nella maggior parte degli istituti l’entusiasmo iniziale si logorò a causa degli ostacoli descritti, e tutto tornò di fatto a concentrarsi nelle mani del dirigente, riconosciuto il legittimo rappresentante del MIUR in una scuola rimasta lontana dall’autonomia del sistema scolastico.
Il 1994. Una nuova idea per la scuola
Fu nell’estate del 1994 che il concetto di autonomia scolastica imboccò la via che vede oggi il suo epilogo nel ddl di Matteo Renzi. Responsabilità anche nostra?
Abbiamo veramente compiuto tutti i passi più proficui per impedirlo? Lotte ne sono state fatte tante, da associazioni, sindacati ( non sempre questi ultimi tutti sufficientemente decisi nella denuncia del danno),e da soggetti politici di sinistra.
Il documento “Una nuova idea per la scuola” di area centrosinistra poneva al centro una nuova idea di autonomia scolastica , che sarà da quel momento in poi l’idea vincente. Il modello è NON l’autonomia del sistema scolastico dagli indirizzi prodotti dalle maggioranze governative del MIUR, ma una sorta di libertà dei singoli istituti di porsi in competizione sui livelli di efficienza offerti (servizi logistici, piani dell’offerta formativa, patto educativo).
L’aspetto più distruttivo è rappresentato proprio dai POF, altra cosa dall’ampliamento degli indirizzi degli Istituti scolastici sul territorio nazionale previsti nelle ultime riforme. Il POF è l’elemento cardine della privatizzazione della scuola, lo specchietto per le allodole, mutuato dalle scuole private, diverse l’una dall’altra, dove i genitori pagano e dettano legge. Dopo alcune resistenze fu accolto senza recriminazioni; i progetti sono divenuti il pane quotidiano, la gratificazione per molti insegnanti . Non dobbiamo stupirci se la logica conseguenza dei POF sono divenuti premi, valutazioni, e oggi, la chiamata diretta dei dirigenti. Ai POF ci si sarebbe dovuti opporre con ogni mezzo, in anni in cui un’idea di solidarietà nazionale, di pari opportunità dell’offerta formativa, esercitava una maggiore attrazione.
Qualcuno di noi aveva nutrito qualche speranza nell’affermazione contenuta nella Legge Bassanini n.59/ 1997 laddove si parla di «autonomia delle istituzioni scolastiche nel processo di realizzazione dell’autonomia e della riorganizzazione dell’intero sistema formativo», ma la SPERANZA ANDO’ BEN PRESTO DELUSA COL DECRETO SUCCESSIVO CHE VALORIZZAVA IL RUOLO DEL DIRIGENTE SCOLASTICO, DIMOSTRANDO CHIARAMENTE DI QUALE AUTONOMIA SCOLASTICA SI TRATTASSE. Di lì a pochi anni la Legge 62/ 2000 che poneva in un unico sistema nazionale le scuole private (paritarie) e le scuole statali tracciava ulteriori linee nel quadro già sufficientemente tratteggiato. Autonomia significava ormai senza equivoci , personalità giuridica dei singoli istituti, autogestione di progetti e risorse, disparità tra gli istituti, dirigenti onnipotenti espressione del MIUR, affiancati da organismi di pura consultazione.
Sarà possibile riascoltare i vagiti dell’autentica autonomia scolastica e portarla a vivere?
Per un’autonomia democratica
Credo sia giunto il momento, affacciati sul baratro, di renderci conto che quanto ci sovrasta è l’epilogo di un processo non adeguatamente contrastato. Avremmo dovuto opporci allo sfascio di Organi Collegiali decapitati, pretendendo che il processo di autonomia del sistema scolastico arrivasse al suo vertice: un Consiglio Nazionale per la Pubblica Istruzione aperto a tutte le componenti, tutto elettivo, comprendente esponenti autorevoli della società civile in grado di testimoniare il legame inscindibile tra istruzione, democrazia e società. Un Consiglio non semplice consulente del MIUR , ma promotore degli indirizzi formativi su tutto il territorio nazionale, punto di riferimento degli Organi Collegiali territoriali e scolastici. Un Consiglio autonomo dalle politiche delle maggioranze di Governo, fedele ai principi costituzionali, autonomo secondo il principio stabilito all’art.5 della Costituzione.
Qui sta la grande differenza tra l’autonomia degli istituti privati e l’autonomia scolastica della scuola dello Stato. I primi non costituiscono un sistema, ma un insieme di soggetti con finalità e tendenze diverse. L’autonomia scolastica della Scuola della Repubblica è invece l’orizzonte comune di una formazione ispirata ai principi costituzionali, gestita in istituzioni scolastiche dotate di propri Organi Collegiali che garantiscano un autentico autogoverno, istituzioni alle quali il MIUR garantisca pari opportunità su tutto il territorio nazionale. È questa funzione di garante dell’unitarietà del sistema e delle pari opportunità su tutto il territorio nazionale che la Scuola della Repubblica riconosce al MIUR, riconoscimento che la distingue inesorabilmente dalle scuole private.
Riusciremo a riguadagnare il tempo perduto?