Non è neanche un paese per bimbi

A Roma, Firenze, Parma e in tantissime altre città d’Italia è in atto lo smantellamento e la privatizzazione dei servizi socio-educativi e scolastici che trova la propria ragion d’essere nella follia reazionaria di mantenere in vita un sistema di relazioni sociali insostenibile. 


Non è neanche un paese per bimbi

Con la crisi prende corpo l’offensiva al diritto alla formazione critica e al benessere dei lavoratori che non risparmia più neanche i bambini dei nidi e delle scuole dell’infanzia. In tantissime città d’Italia è in atto lo smantellamento e la privatizzazione dei servizi socio-educativi e scolastici che trova la propria ragion d’essere nella follia reazionaria di mantenere in vita un sistema di relazioni sociali insostenibile. Ma educatrici, funzionarie, genitori, associazioni e sindacati non ci stanno e hanno cominciato a dire NO!

di Alessandro Bartoloni

A Roma, Firenze, Parma e in tantissime altre città d’Italia è in atto lo smantellamento e la privatizzazione dei servizi socio-educativi e scolastici che trova la propria ragion d’essere nella follia reazionaria di mantenere in vita un sistema di relazioni sociali insostenibile. “Un ritorno al passato“ analogo a quanto previsto a livello nazionale. Nella capitale, l’ultimo atto ha inizio il primo agosto 2014 con l’amministrazione che, dopo mesi di trattative, sceglie di varare in via unilaterale (quindi senza la firma della controparte sindacale) il nuovo contratto collettivo per tutti i dipendenti capitolini. La deliberazione 236 è figlia del piano di rientro imposto attraverso il c.d. salva Roma [1] e adegua utilizzo e remunerazione della forza-lavoro ai dettami fino ad allora inevasi della legge Brunetta: valutazione della performance individuale e di gruppo e tutte le altre amenità tese a prevenire il conflitto e scaricare sui lavoratori il peso della crisi. 

Ma educatrici, funzionarie, genitori, associazioni e sindacati non ci stanno e hanno cominciato a dire NO! [2]. Perché nessuno viene risparmiato. Neanche 207 asili nido e 320 materne, per un totale, rispettivamente, di 13 mila e 35 mila bambini assistiti. E coinvolti, loro malgrado, in una riorganizzazione complessiva del settore non certo pensata per venire incontro all’improcrastinabile esigenza di universalizzazione del servizio (attualmente solo il 17% dei bambini ha diritto a frequentare un nido pubblico), o per diminuire gli oneri derivanti dalla precarietà di orari e di guadagni (che costringe i genitori a chiedere un servizio decente anche a luglio, la sera tardi, la mattina presto, il sabato), o per un diritto allo studio che oramai comincia a tre mesi. 

La riorganizzazione dei servizi socio-educativi e scolastici di Roma, al contrario, è pensata coerentemente all’esigenza di riannodare il filo dell’accumulazione perduta attraverso il taglio alle voci di bilancio dedicate ai nidi e alle materne; la riduzione salariale; gli incentivi all’estrazione e alla realizzazione di plusvalore da parte dei piccoli e grandi gruppi cooperativi ed imprenditoriali del settore. Questo malgrado sia ampiamente noto che le capacità, le conoscenze e le abilità proprie dell’età adulta si vanno scoprendo e formando fin dalla nascita e un ambiente adeguato e stimolante è fondamentale per promuovere la formazione dei comportamenti e delle abilità del futuro lavoratore. 

I bilanci annuale e pluriennale approvati dall’Assemblea Capitolina a fine marzo e duramente contestati perfino dai sindacati confederali con la manifestazione di sabato 23 maggio parlano chiaro. Per il 2015 la Giunta Marino prevede un taglio di oltre 11 milioni di euro sui nidi e oltre 13 milioni sulle materne. Se i tagli preventivati per i prossimi anni dovessero essere confermati ci troveremmo nel 2017 ad avere per nidi e materne complessivamente un taglio di spesa di 50 milioni di euro rispetto al 2013. Cifre modeste in valore assoluto, ma enormi se considerate relativamente alle dimensioni di questo mondo e dei suoi piccoli abitanti. Risparmi che non sono la diretta conseguenza dello sviluppo delle forze produttive che abbassa i costi a parità di prestazioni, ma di un depauperamento quali-quantitativo del servizio. 

Tagli quantitativi che contabilizzano il mancato rinnovo delle precarie e l’aumento dell’orario di lavoro e dei bambini da accudire per chi rimane (a busta paga invariata, ovviamente). Dequalificazione che si ritrova nella gerarchizzazione delle funzioni, nell’articolazione dell’orario e nell’erogazione del lavoro, pensate per ottenere risultati che poco hanno a che fare con il processo, ma molto con il prodotto. Ad esempio, definendo l’efficacia e l’efficienza attraverso il grado di saturazione e di fruizione delle strutture, il tasso di sostituzione del personale, il rapporto medio educatrice/bambini, ecc., si creano obiettivi estranei a quelli per cui nascono e si sviluppano i nidi e le materne: la cura e la formazione dei figli del proletariato. L’effetto di queste scelte è devastante, si svaluta la futura forza-lavoro e si torna ad una visione meccanicamente antropoplastica dell’educazione, con la conseguente incapacità di trattamento degli atteggiamenti devianti o anche solo originali. 

All’impoverimento del servizio e alla riduzione delle spese dedicate non corrisponde però un calo delle rette e delle imposte che servono a coprire le spese programmaticamente in via di diminuzione. Quindi è come se si comprasse a prezzo pieno cibo adulterato. Per tanto è il salario di tutti i genitori che diminuisce, non solo delle insegnanti. L’esistenza di nidi e materne pubbliche, infatti, consente la redistribuzione tra tutti i contribuenti dei costi inerenti la riproduzione dei lavoratori. Tagliare tali servizi senza un corrispettivo calo delle rette e della tassazione significa dunque diminuire il salario in quanto si riduce la quota parte fornita “in natura” dal comune (c.d. salario indiretto) senza che aumenti la quota parte che consente l’acquisto di tali servizi sul mercato (c.d. salario diretto). Se poi si considera che le rette e l’imposizione fiscale locale sono in aumento, la fregatura è ancora maggiore. 

Tuttavia il comune di Roma Capitale ha pensato bene di ovviare a questo inconveniente incentivando direttamente l’erogazione di servizi privati, in modo che diventino ancora più convenienti di quanto il depauperamento della qualità e l’aumento del prezzo del pubblico già non li renda. Dunque massima apertura al privato convenzionato e in concessione, al fine di arrivare a quel mix pubblico-privato [3] che tante gioie regala all’asinistra nostrana e alle sue cooperative [4] e che lascia “perplesso” l’ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli [5]. 

Una diversa e razionale riprogrammazione di questo servizio è, dunque, possibile solo accettando l’ampio sfasamento tra il momento in cui si impiegano le risorse e si lavora sui bimbi e il momento in cui questi, divenuti adulti, saranno in grado di mettere a frutto come cittadini e lavoratori le capacità, le conoscenze e le abilità scoperte, promosse e insegnate già a partire dai primi mesi di vita. In altre parole ciò significa uscire dalla dicotomia che valuta il finanziamento a nidi e materne come una spesa improduttiva da contenere o un investimento da remunerare, per arrivare a comprendere che le risorse impiegate oggi nella corretta e moderna cura ed educazione dei nostri figli, i figli dei lavoratori, saranno abbondantemente ripagate solo quando essi saranno cresciuti. Per farlo è necessario tener conto dalla lentezza e dell’incertezza nell’erogazione in età adulta delle capacità, delle conoscenze e delle abilità acquisite, che dipendono da quali saranno le capacità, conoscenze e abilità medie e le condizioni economiche del momento. Se queste non cambieranno, l’aspirazione ad universalizzare il benessere e i diritti dei bambini è destinato a infrangersi con la necessità di perpetrare e approfondire le attuali disuguaglianze. 

Note: 

[1] Con la deliberazione 194 del 3 Luglio 2014 la Giunta Capitolina approva il piano triennale per la riduzione del disavanzo e per il riequilibrio strutturale di bilancio di Roma Capitale ex art. 16 del Decreto Legge 6 marzo 2014, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 maggio 2014, n. 68.

[2] Per la cronaca delle mobilitazioni si veda “L'educazione interrotta. A chi giovano i tagli ai servizi dell'infanzia?” www.zeroviolenza.it  

[3] Si veda “The Role and Impact of Public-Private Partnerships in Education”, Banca Mondiale, 2009.

[4] Si veda “Le iniziative di partenariato pubblico-privato in Emilia-Romagna” a cura di Unioncamere Emilia- Romagna.  

[5] Nel suo libro “La lista della spesa”, riguardo i finanziamenti pubblici alla scuola privata scrive: un po’ più di 300 milioni li riceve l’istruzione privata. Questo trasferimento resta per me un mistero, tenendo conto dell’articolo 33 della Costituzione, che recita: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo stato”. Mi si dice che quel “senza oneri per lo stato” significa che lo stato non è obbligato a trasferire risorse a scuole e università private, ma che può farlo se vuole. Mah! Resto perplesso

30/05/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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