Segue dalla seconda parte.
MILANO. Secondo i dati ISTAT ricavati dall’indagine “La violenza contro le donne – Indagine multiscopo sulle famiglie e sicurezza delle donne anno 2006” le violenze economiche vengono subite dal 30,7% delle vittime di violenza. Nel 34,2% sono imputabili all’attuale marito/convivente e nel 13,7% dall’attuale partner affettivo/fidanzato. Impedisce alla donna di utilizzare il denaro per il 2,4% il fidanzato e il 4,9% il marito/convivente, le impedisce di lavorare per 7,6% il fidanzato e il 21,4% il marito/convivente, controlla quanto e come spende per il 13,1% il fidanzato e per il 27,7% il marito/convivente.
EIGE - Istituto europeo per l'uguaglianza di genere, istituita dal Consiglio dell’Unione Europea nel 2006, ha definito violenza economica ogni atto volto a sindacare e controllare il comportamento di un individuo relativamente all’uso e alla distribuzione del denaro, ma anche l’essere privati di risorse economiche spettanti per legge, o impediti nell’accesso alle cure sanitarie e all’impiego.
Il concetto di “violenza economica” è venuto in prima istanza definendosi nell’ultimo decennio del XX secolo all’interno dei Centri Anti Violenza (CAV), dove le operatrici volontarie, come le avvocate e le psicologhe operative nei centri, constatavano continuamente che solo una minoranza delle donne – circa un quinto del totale – che si rivolgevano a loro erano coscienti di subire, accanto alle forme maggiori di violenza e maltrattamento fisico e psicologico, anche forme subdole e meno evidenti di subalternità e vessazione economica. Tutt’al più questa particolare forma di violenza veniva considerata un correlato minore all’interno di una relazione già violenta e soprattutto da parte della donna non era mai di per sé il motivo che le aveva spinte a denunciare la violenza, o un motivo sufficiente per richiedere di essere sostenuta e avviata a un percorso di fuoriuscita dalla violenza e da situazioni di convivenza che le vedevano subalterne e ricattabili sotto il profilo economico da parte di mariti e partner.
Mentre affonda le proprie radici nella peculiare dinamica affettiva e psicologica delle relazioni familiari, sotto l’aspetto sociologico e anche storico la violenza economica e la deprivazione dei diritti economici della donna è stata sempre appannaggio delle culture patriarcali, dall’antichità fino a oggi, tanto che l’habitus “culturale” della subalternità economica femminile continua da millenni a essere percepito come una condizione tutto sommato “naturale” e dunque sopportabile.
Ciò è evidente anche oggi nelle situazioni che fotografano la donna nel mondo del lavoro in Italia dove il tasso di inattività femminile nel 2017 (Istat) è ancora del 44% e quello di disoccupazione al 12,5%, mentre il differenziale salariale di genere complessivo in Italia, duro a morire, era nel 2014 al 43,7% (Eurostat).
E tutto aggravato dalla crisi e dalla precarizzazione lavorativa generata dalla riorganizzazione finanziaria del capitalismo e dall’assenza di politiche attive a sostegno delle donne e madri lavoratrici nel nostro Paese: mentre sempre più donne devono sobbarcare il ruolo di uniche bread-winner della famiglia, la forza lavoro femminile continua a mostrare tassi di occupazione minori e a essere pagata meno degli uomini, nonostante per esempio l’alta o altissima scolarizzazione delle donne nelle professioni e negli impieghi pubblici anche di fascia alta, dove il differenziale salariale resta superiore al 20%.
Le donne hanno più contratti part-time, spesso per la volontà patriarcale del coniuge e all’assenza di servizi sociali e genitoriali devono rinunciare al lavoro quando sopraggiungono dei figli nella famiglia o devono accontentarsi di lavori precari o in nero e nelle fasi di contrazione economica sono colpite in misura maggiore dalla disoccupazione, perché devono di fatto “lasciare il posto agli uomini”. Per lavorare devono accettare la precarietà e ogni tipo di ricatto, anche sessuale. Tra le mura domestiche poi la discriminazione economica permette all’uomo di mantenere saldo il potere, di esercitare il controllo e di assoggettare la donna. In un costrutto culturale dove il potere è stato “cifrato” dal denaro, anche nella relazione a due il denaro viene utilizzato, consapevolmente o inconsapevolmente, per tenere la donna ancorata alla relazione, dal momento che essa teme di cadere in povertà o di perdere il suo status sociale. Dunque ancora oggi la violenza economica è accettata dalla società come un delitto minore e la dipendenza economica dal partner è riferita dalle donne come uno dei motivi principali per cui la donna non si separa e non osa denunciare l’uomo per abusi e violenze. Negli ultimi anni si sono meglio precisate le dinamiche e l’ampio ventaglio di situazioni in cui si configurano le condotte di violenza economica esercitate dai partner affettivi sulle donne: può essere utile classificarle in quattro gradi di violenza crescente e notare con quale frequenza le varie fattispecie siano state riscontrate dalle donne intervistate nel campione testato nei Centri Antiviolenza della Toscana durante la Ricerca “Violenza Economica – L’espressione meno nota della violenza domestica”, promossa dai centri antiviolenza Liberetutte e Aiutodonna di Pistoia.
- Violenza ordinaria (11,8 %): “Con il tuo partner hai un conto corrente con firma congiunta, ma lui si occupa in via esclusiva della gestione dello stesso”.
- Violenza Controllante (30,9%) Il marito o convivente controlla in esclusiva la gestione della vita quotidiana, privando la donna del diritto di decidere e di agire autonomamente e liberamente, rispetto ai propri desideri e scelte di vita. “Non ti tiene informata di quanto ammonta l’entrata e i mezzi finanziari della famiglia oppure ti sequestra lo stipendio e ti riconosce solo un appannaggio mensile ed esercita il controllo di gestione del patrimonio familiare”.
- Violenza Limitante (45,7%) “Il tuo convivente/marito/partner ti vieta o ti impedisce di cercare o boicotta o impedisce di mantenere un lavoro/ Ti da solo i soldi per la spesa quotidiana o settimanale, magari anche in misura insufficiente. / Si occupa lui direttamente di acquistare le cose di cui hai bisogno tu o i tuoi figli”. E ancora: lui manca nell’assolvimento degli impegni economici assunti con il matrimonio, a esempio non contribuisce o provvede nemmeno a farti la spesa e ti nega i soldi per le cure e per le medicine. Gioca d’azzardo, sperpera denaro e di conseguenza non provvede ai doveri economici verso la famiglia. Non adempie ai doveri di mantenimento stabiliti da leggi e sentenze.
- Violenza Delinquenziale (33,7%) E’ una forma vessatoria particolarmente odiosa, ma tutt’altro che rara, ed è spesso volta da parte dell’uomo a indebitare la donna per far fronte alle proprie inadempienze: “Ti obbliga a firmare documenti “in fiducia” (spesso trappole economiche: ipoteche, mutui, crediti personale, impegni con strozzini, ecc.) / Ti fa firmare assegni scoperti / Ti fa fare da prestanome/ Dilapida il tuo patrimonio/ Dilapida il patrimonio familiare a tua insaputa/ Fornisce a te e ai tuoi figli i mezzi di sostentamento dietro ricatto sessuale/ Ti svuota il conto corrente in previsione della separazione/ Si fa intestare immobili o attività produttive/ Ti costringe a lavorare e a mantenerlo, appropriandosi dei proventi del tuo lavoro e usandoli a proprio vantaggio Ti fa lavorare sfruttandoti come forza lavoro nell’azienda familiare (contadina, turistica, artigiana, ecc.) priva di contratto e/o stipendio adeguato e regolare. Omette il versamento dei Contributi previdenziali a tuo vantaggio.
A chi si occupa di accompagnare le donne nel percorso di fuoriuscita dalla violenza è ben chiaro come, soprattutto in questi anni di crisi, servono strumenti e misure potenziate per garantire l’autodeterminazione e l’autonomia delle donne, che funzionino come degli antidoti della violenza prodotta dalla dipendenza economica, dallo sfruttamento e dalla precarietà.
A garantire la vita delle famiglie, tanto più di quelle devastate dalla violenza serve il lavoro e poi un salario minimo europeo, sul modello di quasi tutti gli altri Paesi della UE (eccetto solo Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Svezia e appunto Italia); peraltro ciò sarebbe già dettato per il principio dell’equità salariale anche dall’articolo 36 della Costituzione Italiana vigente.
La retribuzione oraria minima prevista nei vari Paesi UE è massima in Lussemburgo con 11,12 euro/ora, ma in Paesi europei con economia comparabile a quella dell’Italia siamo comunque sopra i 9 euro (Francia, Germania, Olanda e Belgio) e Regno Unito con 8,06 euro/ora. Valori ben lontani dalle paghe orarie percepite da vaste fasce di lavoratori italiani.
Nelle situazioni di disoccupazione serve un reddito di base incondizionato e universale come strumento che tuteli anche la donna dalla violenza, dalle molestie e dalla precarietà. Il Piano Femminista ribadisce che il welfare deve essere universale, garantito come un diritto e accessibile a tutte nel Paese, con l’implementazione di politiche strutturali a sostegno della maternità e della genitorialità che sono fin qui sempre mancate da parte dei Governi, insieme con politiche che favoriscano la crescita di reti solidali e di mutuo soccorso anche fra le donne contro individualismo e la solitudine.
Nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza il problema della casa assume un valore primario: dopo la permanenza temporanea nelle case-rifugio la donna e i figli vittime di violenza si ritrovano soli, più poveri e sradicati spesso dai contesti e dai luoghi dove vivevano e in certe situazioni estreme devono anche affrontare cambi di identità o vivere nell’anonimato per sottrarsi definitivamente ai loro aguzzini e persecutori.
Per proiettarsi nuovamente nella vita dopo la violenza subita non ci si può affidare a una logica episodica ed emergenziale: la donna deve potere affidarsi a risposte certe, stabili e adeguate, ritrovare i tempi fisiologici che le consentano di lavorare, vivere e ripristinare l’atmosfera domestica delle relazioni con i figli.
Per questo NUDM propone di prolungare l’ospitalità nelle Case-rifugio/segrete dagli attuali 3/6 mesi a 12 mesi, conferendo sempre al tempo di permanenza nella struttura protetta una natura più flessibile, che tenga conto della specificità e delle criticità che si manifestano nel percorso di autonomizzazione della donna.
È utile anche integrare l’ospitalità, l’accoglienza e il trasferimento in altra località in capo ai Servizi Sociali con altri dispositivi di politiche attive del lavoro, formazione e reddito minimo garantito. Occorre prevedere l’istituzione di un fondo di garanzia che permetta la stipula di contratti agevolati da parte delle donne, in cui anche i Centri Anti Violenza e le Associazioni antiviolenza potrebbero avere un ruolo come garanti.
Le donne avviate nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza devono disporre di corsie preferenziali per l’assegnazione degli alloggi. Anche a titolo di risarcimento sociale le donne e i figli vittime della violenza devono disporre dei massimi punteggi nella assegnazione degli alloggi popolari di edilizia residenziale pubblica. Oggi non è così anche a causa della latitanza di iniziative di edilizia residenziale pubblica e della logica sempre più risicata, competitiva ed esternalizzata al privato assunta da chi deve gestire le politiche residenziali sociali, in un frangente che vede i servizi sociali dei comuni affidati a bilanci sempre più poveri di risorse.
In una logica di ripresa improrogabile degli interventi per la residenzialità pubblica e del dato strutturale della violenza nella nostra società, deve essere possibile mettere a disposizione il 10% del patrimonio pubblico per l’allestimento di case di semi-autonomia gestite dai Centri Anti Violenza, e di case con affitti calmierati per i nuclei familiari e le donne vittime di violenza, sia da sole sia in co-housing e per una durata minimo quadriennale.
Come modello si potrebbe ampliare ed estendere a tutto il territorio nazionale l’esperienza della delibera 163 del Comune di Roma, già attuata in diversi Municipi della capitale, che estende il contributo quadriennale per l’affitto anche alle donne in uscita dalla violenza e l’equiparazione della fattispecie della necessità della fuga dalla casa di convivenza con il maltrattante a quella dell’ingiunzione di sfratto, ai fini del punteggio nella assegnazione della casa.
Sul versante del Lavoro, al di là delle impellenti e ancor più gravose necessità economiche della donna fuoriuscita da una situazione di violenza domestica, è evidente come l’inserimento, il mantenimento o il reinserimento in un ruolo lavorativo sia fondamentale per l’autostima, la riappropriazione delle proprie competenze e l’autodeterminazione della donna, consentendo la rottura dell’isolamento e il reinserimento sociale e una reale indipendenza economica. Per garantire percorsi efficaci di autonomia lavorativa alle donne che spesso cambiando luogo di residenza o contesto domestico dopo la violenza perdono il lavoro, o non avevano un lavoro in precedenza, vanno messe in atto tutte le politiche attive di valorizzazione e di formazione di nuove competenze favorendo l’accesso e la frequenza da parte della donna a corsi e percorsi dedicati, stage retribuiti e quant’altro favorisca un nuovo empowerment di competenze spendibili nel mercato del lavoro.
Nella fase di fuoriuscita dalla violenza va previsto un reddito di autodeterminazione che ancori la donna a sicurezze sociali e ne prevenga la precarizzazione e lo sfruttamento lavorativo. In questa fase deve essere naturalmente vietato il licenziamento della donna ed eventualmente va previsto il suo trasferimento con ricollocazione lavorativa – cosa particolarmente agevole per le lavoratrici pubbliche. Va anche garantita flessibilità di orario e il diritto di fruizione di un periodo di aspettativa retribuita e nel caso delle lavoratrici autonome e delle partite IVA la sospensione della tassazione.
Riguardo al Congedo lavorativo per violenza, esso va ricompreso nella disciplina prevista col Decreto Legislativo n.80 del 2015, che riguarda la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e stabilisce le regole per il Congedo parentale. È necessario promuovere e far conoscere meglio questo nuovo strumento anche presso le sedi territoriali INPS e naturalmente presso i Datori di lavoro e le loro associazioni di categoria. Della stessa norma va però modificato l’articolo 24 perché esclude le lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari e non garantisce l’anonimato.
Come previsto dalla legge 109/1996 sulla confisca dei beni e sul loro riutilizzo a fini sociali e sul modello di quanto già fatto negli ultimi anni con i beni confiscati alle Mafie attraverso cooperative e start-up di imprenditoria giovanile e progetti sociali, il piano Femminista contro la Violenza NUDM propone anche di mettere a disposizione per attività di nuova imprenditoria femminile una percentuale dei beni commerciali e patrimoniali confiscati alla criminalità.