Più il capitalismo si sviluppa e maggiormente tende a cadere il suo scopo e motore interno, ovvero il tasso di profitto. In tal modo lo sviluppo delle forze produttive è sempre più intralciato da rapporti di produzione in cui una minoranza sempre più ristretta tende a controllare in modo monopolistico i mezzi di produzione e di sussistenza della forza-lavoro, mentre la grande maggioranza è in via di proletarizzazione dovendo sempre più spesso vendere come merce la propria forza-lavoro per poter sopravvivere. Tali rapporti di produzione da una parte tendono ad aumentare sempre più l’esercito industriale di riserva e di conseguenza la guerra fra poveri, dal momento che l’automazione della produzione riduce il lavoro vivo rispetto al lavoro morto. In tal modo, diminuendo progressivamente il saggio di profitto, aumenterà la sovrapproduzione di capitali, che dal settore produttivo tenderanno a spostarsi in settori sempre più antisociali, come il capitale improduttivo speculativo, che consente ai grandi investitori di arricchirsi alle spalle dei piccoli sino a che, con lo scoppio di sempre più grandi bolle speculative, la crisi non finisce con l’emergere. In tal modo, vi è una caduta altrettanto tendenziale dei profitti o dei sovraprofitti che il capitale tendeva a redistribuire per mantenere un dominio egemonico sulle classi sfruttate e subalterne.
Ciò tende a minare il consenso di cui gode la classe dominante portandola a sviluppare forme di dominio sempre più incentrate sul monopolio della violenza legalizzata, che porta a considerare, come notava già Max Weber, ogni forma di violenza che si sottrae a tale monopolio come terroristica o potenzialmente tale. In tal modo tendono a riaffermarsi forme tendenzialmente totalitarie di Stato, o meglio forme di cesarismo o bonapartismo regressivo. Tale deriva è favorita dalla crisi che porta a far crescere gli investimenti che tendono a rafforzare sempre di più il complesso militare-industriale da una parte e dall’altra l’economia sommersa del crimine, con il traffico di stupefacenti, prostituzione e pornografia. Così il crescere del potere degli apparati repressivi dello Stato tende ad andare di pari passo con il crescere della malavita organizzata, anch’essa utilizzata a fini repressivi.
D’altra parte, nonostante tutti gli sforzi del partito dell’ordine per mantenere l’egemonia soffiando e alimentando in ogni modo la guerra fra poveri, il razzismo, il fondamentalismo religioso e ogni altro strumento funzionale al divide et impera, come insegna la storia tali regimi finiscono per divenire giganti con i piedi di argilla, in quanto sempre meno in grado di dominare con l’egemonia. Tendono a creare un’opposizione sempre più radicale, per cui venendo meno l’imponente scudo costituito dall’egemonia sulla società civile – che ha nelle società moderne sostituito l’antico scudo della religione – basta un rovescio militare, una perdita del controllo monopolistico sulla violenza legale per mettere tali regimi in gravi difficoltà, sino spesso a farli crollare.
Proprio per questo il partito dell’ordine tende a favorire lo sviluppo di un neo-positivismo che consenta di porre le decisioni politiche sotto il controllo di tecnici, al di sopra del libero arbitrio del cittadino. A tale scopo, efficacissimo è il micidiale meccanismo del debito, che porta a spostare le decisioni da un piano almeno teoricamente controllato dalla sovranità popolare a piani tecnocratici-oligarchici di organismi sovranazionali, espressione diretta della tendenza sempre più transnazionale del capitale finanziario.
L’altro aspetto dell’ideologia neo-positivista – sempre più funzionale a mantenere l’egemonia, in una fase in cui non si può corrompere più di tanto l’aristocrazia operaia redistribuendo una parte dei sovraprofitti – è il mito che il continuo sviluppo tecnologico-scientifico finirà per risolvere, progressivamente, in modo indolore tutte le problematiche sociali. Alla base di questa ideologia vi è la convinzione che il progresso tecnologico-scientifico è sempre più in grado di produrre forme di intelligenza artificiali che renderanno sempre più superfluo il lavoro vivo. In tal modo si vuole dare a intendere ai subalterni che sono sempre più superflui, che sono sempre più sostituibili dal lavoro morto, ovvero dal capitale, dalle macchine e dal general intellect sempre più controllato dalla classe dominante. Quindi, il lavoro vivo non sarebbe più necessario al capitale per riprodursi su base allargata e, quindi, non ci sarebbe più sfruttamento, né possibilità di opporsi dal punto di vista del movimento operaio o, più in generale, del proletariato, dei lavoratori salariati. Anzi il posto di lavoro dovrebbe essere sempre più considerato un privilegio, un costo sociale tendenzialmente superfluo e utile tutt’al più a mantenere la pace sociale.
Perciò i lavoratori salariati da sfruttati indispensabili al capitale e, perciò, potenzialmente soggetto rivoluzionario, vengono declassati a garantiti, ovvero a privilegiati espressione dei sindacati sempre più neo-corporativi dinanzi alle crescenti masse di sottoccupati, precari e disoccupati. A declassare e dequalificare sempre più l’uomo provvedono le varie forme di ideologie dominanti, da quelle più irrazionaliste – che hanno quali principali punti di riferimento Heidegger e il postmoderno – complessivamente volte a contrastare ogni forma di umanismo su cui si fonda la stessa dignità e libertà dell’uomo e le ideologie neopositiviste volte a considerare l’uomo sempre più superato mediante lo sviluppo tecnologico-scientifico dall’intelligenza artificiale.
Mediante quest’ultima ideologia si tende a imporre una forma postmoderna di dispotismo, dove a dominare non ci sarà più un qualche despota sempre a rischio di essere abbattuto, ma lo stesso general intellect che esercita scientificamente il suo dominio mediante l’intelligenza artificiale e gli algoritmi su cui si fonda. Questi ultimi consentirebbero di prevedere in modo assolutamente scientificamente neutrale, su basi meramente statistiche, il modo di agire degli esseri umani. Per cui il potere di questi ultimi, affermatosi alle origini dell’epoca moderna con l’umanesimo, sarebbe ormai sostituito dal potere di tali agenti artificiali.
In realtà dietro a tutto questo fumo del nuovo che irresistibilmente avanzerebbe, si cela al solito il vecchissimo feticismo, per il quale l’uomo tende dall’alba dei tempi ad adorare e a pretendere di farsi guidare da degli artefatti, ovviamente da lui stesso prodotti, che tende ad assolutizzare, ovvero a divinizzare. Dietro gli algoritmi e l’intelligenza artificiale vi sono ovviamente, anche se tendono a scomparire, gli ingegneri e i programmatori che li hanno realizzati. Dietro questi ultimi, ancora più celati da questa rinnovata forma di reificazione, vi sono gli scienziati, ovvero il general intellect che è stato a sua volta sussunto dal capitalismo e reso funzionale al mantenimento di rapporti di produzione e proprietà sempre più ingiusti, irrazionali, antisociali, alienanti e disumanizzanti.
La principale attività che gli algoritmi, programmati dagli informatici, su un numero sempre più vasto di dati, caricati da una forza-lavoro sempre più dequalificata e alienata, o ottenuti con uno spionaggio informatico da far impallidire il Grande fratello di Orwell, consiste nella antichissima qualità degli esseri umani di astrarre regolarità da una enorme quantità di informazioni apparentemente disomogenee, per costruirvi sopra modelli o schemi classificatori. E anche questi ultimi non sono affatto, come credono gli adepti della nuova fede dell’intelligenza artificiale, prodotti neutrali delle macchine, ma prodotti umani.
Del resto anche la capacità di riconoscere regolarità sulla cui base costruire modelli o schemi, anche in assenza di diversi dettagli nei differenti dati che prendiamo in esame, è una capacità tipicamente umana che può essere solo in modo molto imperfetto riprodotta da una macchina, per quanto da noi a tal fine programmata. Così una scrittura a mano è interpretabile in modo corretto molto più da un essere umano piuttosto che da una macchina, per quanto intelligente la possiamo ideologicamente ribattezzare. Dal momento che anche le macchine, che sulla base del feticismo possono apparirci più intelligenti, non sono altro che il prodotto di uno sviluppo organico, privo di reali rotture epistemologiche, rispetto ai più primitivi ordinatori. Da questo punto di vista il termine francese è il meno soggetto alla reificazione, denominando ordinateur quello che noi definiamo, con il possente strumento ideologico dell’anglismo, computer.
D’altra parte, di contro alle ideologie neo-positiviste – dominanti solo in quanto corrispondenti agli interessi dei ceti dominanti – dobbiamo sempre tenere bene a mente che anche quando dall’analisi di dati disparati li ordiniamo, astraendo, in schemi e/o modelli non possiamo procedere in modo neutrale, ma dobbiamo sempre esercitare la nostra capacità ermeneutica, una qualità soggettiva che, per altro, non può mai essere portata a termine in modo puramente oggettivo, come pretenderebbero gli attuali nipotini di Max Weber. Nello stabilire identità e differenze tra i dati, nell’ordinarli secondo un modello o uno schema piuttosto che un altro, non possiamo che esercitare il nostro libero arbitrio, che necessariamente dovrà fondarsi su una scala di valori, anch’essa soggettiva. D’altra parte, come sappiamo la nostra coscienza soggettiva non può che essere fortemente condizionata dal proprio stato sociale, in sé e per sé considerato. In primo luogo, dunque, tanto i “tecnici”, gli ingegneri e informatici non sono affatto, in una società capitalista, ceto dominante – come pretenderebbe l’ideologia meritocratica e tecnocratica – ma sono al servizio del capitale che ne acquista e utilizza, ai propri scopi, la forza-lavoro. Discorso analogo, sebbene magari in forme meno dirette, vale per gli scienziati che operano in funzione di questi sviluppi tecnologici.
Inoltre, come quando si opera alle dirette dipendenze si mantiene, comunque, un margine di libertà, che ci fa eseguire in modo unico i compiti che ci sono affidati, anche quando pensiamo di operare in modo libero e indipendente siamo in realtà condizionati dal posto e dalla funzione sociale che svolgiamo e dalla coscienza che più o meno ne abbiamo. Del resto un contesto sociale non è mai qualcosa di completamente dato o determinato, ma è in continuo sviluppo storico, non naturale, né lineare, in quanto fondato sul conflitto necessario fra le classi sociali. Il ruolo che noi giochiamo in tale conflitto dipende anche molto dalla coscienza che ne abbiamo e dal sistema di valori che ci può permettere di schierarci con una classe diversa da quella di provenienza.
Così, per quanto possa sembrarci che tendiamo naturalmente a categorizzare e a modellare i dati, anche perché tale modo di operare è ormai divenuta una nostra dote specifica, in realtà questo nostro operare è sempre condizionato dal nostro essere sociale, dalla consapevolezza che ne abbiamo e dal sistema di valori su cui si basa il nostro prender parte alla storia mediante i conflitti sociali. Quindi, per quanto possiamo tendere “naturalmente” a definire categorizzazioni, l’organizzazione di classi mediante cui ordinare individui necessariamente differenti gli uni dagli altri è sempre fortemente influenzato da un contesto sociale in divenire sulla base dei rapporti di forza fra le classi sociali. Ciò non toglie che ogni epoca sia generalmente determinata da un blocco sociale dominante e da i subalterni, che rappresentano i vincitori e vinti di conflitti sociali di lunga durata.