Se non riusciremo a rifondare nel mondo della scuola la distinzione tra le competenze dello Stato, l’ambito della partecipazione democratica e la sfera privata, si configura il rischio che interventi privati a livello educativo, a prescindere dagli esborsi economici, trasformino la Scuola della Repubblica in altrettante scuole di fatto private. Morirebbe cosi nell’indifferenza la sostanza della Scuola della Repubblica.
di Antonia Sani
L’onda lunga della scuola postfascista non fu prosciugata di colpo dalla scuola della Costituzione. Bisognava fare i conti, per la scuola come per altri settori dei pubblici apparati, sia con la ritrosia della classe dirigente democristiana ad attuare il mandato dei padri costituenti, sia con l’ossequio alle burocrazie statali insito in gran parte della popolazione.
Credo che da lì si debba partire per tentare di comprendere le fasi di un processo che ha investito la nostra società portandola dal rifiuto della scuola statalista, attraverso la scuola della partecipazione, all’approdo alla “scuolafaidate”.
Espressione della scuola postfascista sono i due pilastri che per tutti gli anni ’50 continuarono a connotare l’organizzazione di un sistema scolastico risalente al ventennio precedente: lo Stato provvede alla Scuola pubblica; le scuole private sono a carico dei privati che le istituiscono, (anche se lo Stato riconosce loro funzioni di supplenza). Non a caso questi due pilastri formano l’ossatura dell’Art. 33 della Costituzione. Essi corrispondevano all’effettivo sentire di una popolazione che sapeva distinguere nettamente il carattere di un sistema scolastico statale dalla libertà dei privati di istituire scuole di propria iniziativa.
Ma i fermenti che nel corso degli anni ’60 aprivano la strada a profondi rivolgimenti sociali non mancarono di manifestarsi precocemente come una ventata di risveglio nel mondo della scuola. Il progetto di scuola della Costituzione cominciava a prendere corpo, dall’elevamento dell’obbligo, alla Scuola Media Unica, all’affermazione della libertà di insegnamento, del pluralismo delle posizioni, all’uguaglianza dei diritti (col contributo di don Milani ed altri che nella rigidità della scuola statalista avevano stigmatizzato la non capacità/disponibilità a superare le discriminazioni di classe).
Furono anni di grande fervore, una sorta di spinta ad abbattere quel muro che aveva tenuto separata la scuola dalla società. Genitori, insegnanti, studenti si scoprivano e si riconoscevano nelle rispettive posizioni politiche, sulle quali per anni non si erano mai confrontati. La scuola diveniva improvvisamente una palestra di idee, di proposte, il luogo dove realizzare la scuola della Repubblica, nella quale tutti e tutte avrebbero dovuto godere di pari dignità su tutto il territorio nazionale. La scuola pubblica, dello Stato cessava di essere la scuola della burocrazia statalista per divenire la scuola della partecipazione democratica, nella visione unitaria di uno Stato garante del diritto all’istruzione su tutto il territorio nazionale. L’istituzione degli Organi Collegiali segnò nel 1974 l’attuazione e la regolamentazione del nuovo assetto organizzativo che dava forma alle nuove istanze di partecipazione di tutte le componenti della scuola.
A questo punto, guardando a ritroso quegli anni, non possiamo non scorgervi nel grande entusiasmo che ne attraversò il percorso, la larva di un germe in agguato: l’annebbiamento del confine, in precedenza così nitido, tra pubblico e privato. Ricordo i primi Consigli d’Istituto: la comparsa nel bilancio di previsione di “partite di giro” comprendenti contributi di genitori per attività integrative. Da liberi e occasionali, questi contributi – sia pure de definiti “volontari “ e non quantificati – cominciarono a essere richiesti all’atto dell’iscrizione. Insorsero i rappresentanti delle liste di sinistra: come si potevano accettare/chiedere contributi privati in una scuola pubblica? A Roma, il Provveditore agli Studi fece sapere che solo la pagella e il libretto delle giustificazioni avevano un costo, nessun’altra somma poteva essere richiesta.
Si aprì a questo punto la questione delle donazioni. Non potevano essere impedite, configurandosi come partite di giro, in quanto finalizzate a un premio, a una borsa di studio, a un particolare intervento, al pagamento di attività integrative. Non furono pochi gli istituti nel corso degli anni ’70-80 che si batterono contro l’istituzione di premi, di attività a pagamento durante l’orario scolastico, ritenendo tali interventi discriminanti e contrari al principio di uguaglianza su cui posa la scuola pubblica.
Ci rendemmo ben presto conto che la radice di questo stato di cose era determinata da un’interpretazione sempre più diffusa tra i genitori del termine partecipazione: rendere più efficiente e competitiva la scuola del proprio figlio/a. A Roma, alla fine degli anni ’70 , si formò una rete di genitori, studenti e insegnanti chiamata CIDEST (cittadini democratici scuola territorio). La rete si opponeva in una certo senso al Comitato Genitori Democratici e all’AGE che esaltavano – a nostro giudizio pericolosamente – la condizione di “genitori” nella scuola. I genitori erano entrati sì nella scuola in quanto genitori, ma la loro funzione non doveva essere quella di interferire sull’educazione del proprio figlio/a, come si farebbe in una scuola privata, bensì quella di agire come “cittadini” mettendo da parte le proprie istanze educative per cooperare all’affermazione nella scuola dei princìpi costituzionali. E’ quanto viene oggi riproposto nella LIP, La legge di Iniziativa Popolare già iscritta nei due rami del Parlamento.
Un esempio plateale di privatizzazione della scuola pubblica è rappresentato dai viaggi d’istruzione. Negli anni ’80, la democristiana Franca Falcucci, ministra per la Pubblica Istruzione, dimostrando in questo caso la percezione del significato di scuola dello Stato (percezione che le era totalmente mancata all’atto della firma dell’Intesa attuativa del Nuovo Concordato!), dispose che i viaggi di istruzione dovessero essere a carico totale del bilancio scolastico, in modo che tutti gli alunni e alunne potessero parteciparvi. Le mete dovevano essere conformi alla programmazione didattica, compatibili con le disponibilità del bilancio. Mai disposizione fu più disattesa! Scoppiò la frenesia dei viaggi all’estero, pagati interamente dai genitori. Cifre a volte da capogiro, soprattutto nel caso di famiglie con più di un figlio. Più la meta è ambiziosa, più è elevato il numero di alunni non partecipanti. Le Circolari Ministeriali raccomandano che il motivo della rinuncia non sia di carattere economico, motivazione che renderebbe impraticabile il viaggio. Così vengono inventate/sollecitate/accettate le bugie più disparate, dall’intolleranza all’aereo, a malattie improvvise, etc. Ma nessuno nei Consigli scolastici si è mai preoccupato più di tanto. L’importante è che chi può parta. Con buona pace della cooperazione.
Da oltre un decennio il “contributo volontario” all’atto dell’iscrizione è divenuto “contributo obbligatorio”, ogni anno più elevato. La cifra da richiedere ai genitori è fissata dal Consiglio di Istituto, come un normale adempimento. I genitori un po’ si lamentano, ma sono soddisfatti di poter contribuire “al miglioramento dell’offerta formativa”. Anzi, per alcuni è un vanto la richiesta di un contributo alto: significa scuola di élite, dove verranno offerte prestazioni eccezionali.
Siamo giunti così all’epilogo. In questi ultimi anni la crisi ha consentito di tutto: alle scuole di non ricevere i crediti loro dovuti dal MIUR, prima congelati, ora addirittura dichiarati inesigibili. I genitori non sono più chiamati solo a contribuire al miglioramento dell’offerta formativa, ma addirittura all’acquisto del materiale di cancelleria (come si diceva una volta), alla carta igienica, alla manutenzione dell’edificio. Ancora una volta, al di là di qualche mugugno, una vera visibile protesta non c’è stata. Siamo in piena crisi, non ci sono soldi, che si deve fare? Lasciare i nostri figli nel disagio? Proprio no. Abbiamo così assistito nel corso di questi due ultimi anni a frequenti episodi di “scuolafaidate”. Genitori, e in qualche caso studenti e insegnanti, provvedono direttamente alla manutenzione della scuola, coprendo a proprie spese i vuoti in organico, la pulizia dei locali e del giardino: una gara di solidarietà, ciascuno secondo le proprie attitudini.
Da varie testimonianze si apprende che tutto sommato è considerato un bene avere l’occasione di tinteggiare un’aula scegliendo il colore, di decidere come arredare l’interno , come sistemare il giardino. “E’ un sentire la scuola più propria”.
E’ il simbolo dell’ultimo guasto dell’autonomia scolastica promossa da Luigi Berlinguer: ogni scuola è una monade a sé; una rete di monadi fondata sulla competizione può realizzare la scuola della Costituzione fondata sulla cooperazione?
Se non riusciremo a rifondare nel mondo della scuola la distinzione tra le competenze dello Stato, l’ambito della partecipazione democratica e la sfera privata, e a riappassionarvi tutte le componenti, si configura addirittura il rischio che interventi privati a livello educativo, a prescindere dagli esborsi economici, trasformino la Scuola della Repubblica in altrettante scuole di fatto private, con premi a meriti non meglio identificati, interventi sostenuti da fondazioni esterne con l’obiettivo di valutare per selezionare. Morirebbe cosi nell’indifferenza la sostanza della Scuola della Repubblica, già avvilita dalla “buonascuola” di Renzi e, insieme, l’azione necessaria per mantenere la nostra Costituzione fedele ai suoi principi fondativi.