Il Mes (Esm nell’acronimo inglese che abbrevia European Stability Mechanism) è un fondo finanziario europeo istituito con le modifiche al Trattato di Lisbona del marzo 2011 ed entrato in vigore a luglio 2012. Suo compito è quello di erogare prestiti ai Paesi dell’Unione Europea che si vengono a trovare in difficoltà economiche: dunque uno strumento che dovrebbe assicurare una gestione solidale delle eventuali crisi, garantendo l’Unione nel suo complesso e mantenendo rapporti equilibrati all’interno di essa.
In realtà, tale strumento ribadisce ed anzi inasprisce le contraddizioni che hanno sin qui caratterizzato la vita dell’Ue: contraddizioni che hanno legittimato la competizione tra capitali più forti e capitali più deboli e approfondito le differenze di status tra Paesi, con un’Europa sempre più “di serie A” e un’altra sempre più di “serie B”, ottenendo così, a dispetto del nome, il contrario di una “unione” o “integrazione” di Paesi e economie.
Non dovevamo certo aspettare la riforma del Mes per scoprire questo stato di cose. Da tempo analisi e ricerche, non sospettabili di antieuropeismo, hanno fornito impietosamente i numeri di un tale disastro. Emblematica è stata un’indagine condotta nel 2015 da Nomisma, società di studi economici patrocinata da Romano Prodi, che ha esposto i dati del potenziale manifatturiero dei Paesi dell’Eurozona a partire dall’introduzione della moneta unica: potenziale calcolato sia in intensità (relativo ad ogni singola impresa) sia in estensione (numero di imprese operative). L’indagine ha evidenziato un “processo di polarizzazione geografica centro-periferia”, registrando un netto calo del potenziale manifatturiero per i Paesi dell’area mediterranea contrapposto ad un suo aumento o consolidamento per i Paesi del Nord Europa, Germania in testa. In particolare, per quel che riguarda il nostro Paese, l’indagine sottolineava un “ridimensionamento di base produttiva senza precedenti nella storia italiana, se si fa eccezione per le distruzioni della Seconda guerra mondiale” (Nomisma, 2015).
Più di recente uno studio del Centre for European Policy (CEP), un think tank con sede a Friburgo, sin nel titolo (20 anni di euro: vincitori e vinti) ha confermato sul versante del Pil, pro capite e complessivo, la suddetta divaricazione. Dall’entrata in circolazione della moneta unica c’è infatti chi ha tratto profitto e chi no: nel periodo che va dal 1999 al 2017 ogni cittadino tedesco ha in media guadagnato 23 mila euro, mentre ciascun italiano ne ha persi 74 mila. I ricercatori del CEP hanno altresì calcolato che senza l’euro il Pil italiano avrebbe goduto di un incremento di 534 miliardi di euro.
Naturalmente, se si disaggregassero i dati concernenti il benessere di un Paese e la qualità della vita della sua popolazione, accanto alle differenze tra Paesi forti e deboli emergerebbero quelle relative alle interne appartenenze di classe. Come ben sapeva Antonio Gramsci, le contraddizioni sul terreno internazionale che definiscono la “potenza” di uno stato-nazione finiscono per pesare eminentemente sulle classi popolari. Nel corso del recente incontro di Davos, una ricerca di Oxfam Italia ha in proposito disegnato un quadro a tinte assai fosche per i lavoratori, i disoccupati, le donne e i giovani del nostro Paese. Nel 2019, il 20% di cittadini italiani più ricchi possiede il 70% della ricchezza nazionale. Ma, quel che è peggio, nel tempo si peggiora: dal 2001 al 2019 la ricchezza del 10% più ricco e quella della metà più povera divergono: fatta 100 la media annuale, la prima aumenta del 7,6%, mentre la seconda decresce del 36,6%. Dal medesimo studio risulta che il cosiddetto “ascensore sociale” è fermo e che il reddito dei giovani non cessa di precipitare: dal 76,3% nel 1975 al 60% nel 2010 e al 55,2 % nel 2017.
Su un Paese così ridotto continua a calare la mannaia dell’approccio ordoliberista: il sistema export-oriented imposto all’Ue, ispirato da Berlino e rigidamente applicato da Bruxelles a scapito di chi muore di austerity. La grave responsabilità dei governi italiani succedutisi in questi anni (tutti, indistintamente) è quella di aver accettato supinamente le regole, le compatibilità di questa Europa, anche davanti al loro più che evidente fallimento: nonostante le politiche di austerità, il debito pubblico non si è ridotto, la disoccupazione (specie quella giovanile) non è calata, la prospettiva resta quella di una tendenza deflazionistica che mortifica qualunque crescita socialmente e ambientalmente sostenibile.
La riforma del Mes giunge ad aggravare questo cosiddetto ordine. Dopo un periodo di sostanziale colpevole silenzio, nelle aule parlamentari come nell’informazione mediatica, due audizioni informali davanti alle commissioni Bilancio e Politiche Ue della Camera hanno fatto scattare l’allarme: nel novembre scorso, uno dopo l’altro, l’economista Giampaolo Galli e il presidente del Centro Europa Ricerche Vladimiro Giacché hanno espresso a chiare lettere tutta la loro preoccupazione, potendo tra l’altro richiamare una precedente, autorevolissima e altrettanto preoccupata, dichiarazione, quella del governatore della Banca d’Italia.
In sintesi, la riforma del Mes introduce la possibilità di fare ricorso a due linee di credito: l’una, detta “precauzionale”, viene riservata ai Paesi virtuosi, cioè ai Paesi che già rispettano le condizionalità imposte dal Patto fiscale, il famigerato Fiscal Compact (deficit non superiore al 3% del Pil, debito non superiore al 60%, percorso a tappe forzate di rientro dal debito in caso di sforamento). L’altra linea di credito, detta “a condizioni rafforzate”, è prevista per i Paesi indisciplinati (l’Italia è ovviamente tra questi) e comporta un rafforzamento delle condizionalità richieste e del relativo controllo.
In particolare, la suddivisione tra “buoni” e “cattivi” avviene sulla base di un’analisi concernente la sostenibilità del debito pubblico di ogni singolo Paese. Nel merito, va sottolineato il passaggio di potere dalla Commissione europea al Mes: cioè il fatto che il suddetto responso dovrà essere espresso da un organismo non più politico ma tecnico, che opera per così dire in automatico, incaricato meramente di soddisfare il punto di vista di chi eroga prestiti. Non sorprende il fatto che, in caso di responso negativo, aleggi quale estremo provvedimento l’ipotesi di una ristrutturazione del debito. Per la verità, una tale esplicita formulazione non è scritta da nessuna parte. Tuttavia, nella bozza in via di approvazione è presente l’espressione più generica “Private sector involvement”, coinvolgimento del settore privato, finanche troppo allusiva. Quel che significherebbe un tale esito è facile da immaginare. Per usare le parole di Galli, sarebbe “un’immensa calamità”, poiché vorrebbe dire fallimenti bancari, distruzione di risparmio, disoccupazione e impoverimento della popolazione.
Il tema sin qui è rimasto (colpevolmente) assente dal chiacchiericcio mediatico. La sinistra di classe, i comunisti hanno il compito di renderlo comprensibile ai più e di richiamare il governo alle sue responsabilità. La riforma del Mes va risolutamente respinta.