L'elezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione Europea costituisce un fatto storico di notevole rilevanza. Espressione della nobiltà tedesca che già fu il nerbo del Reich bismarckiano, ricca, ordoliberista, guerrafondaia e vicinissima alla cancelliera Angela Merkel, von der Leyen rappresenta una summa della classe dirigente tedesca che si impone oggi alla guida della nuova fase della cosiddetta "costruzione europea", che si annuncia d'importanza decisiva per l'evoluzione degli equilibri mondiali del potere nel prossimo futuro.
Antecedenti storici
Malgrado il peso tedesco sia stato decisivo in tutte le fasi costitutive dell'attuale Unione Europea e all'influenza della Germania non si sia sottratto nessun capo del cosiddetto ‘esecutivo’ dell'UE, l'unico precedente di presidenza tedesca della Commissione offre una pietra di paragone utilissima per capire l'importanza del momento attuale. A ricoprire per primo, nel gennaio del 1958, la carica appena costituita, fu un altro tedesco: Walter Hallstein, uomo della CDU di Konrad Adenauer legatissimo agli USA, celebrato come uno dei padri dell'Unione Europea, ma anche artefice della cosiddetta ‘dottrina Hallstein’ la quale, fondandosi sulla rivendicazione per la Germania occidentale della “rappresentanza unica del popolo tedesco”, individuava qualunque apertura di relazioni con la DDR da parte di uno stato terzo come un atto ostile che avrebbe portato all'immediata interruzione delle relazioni diplomatiche con il governo di Bonn.
In sostanza, in quella fase storica la presidenza tedesca dell'allora Commissione della Comunità Economica Europea servì all'affermazione radicale della funzione della CEE all'interno del disegno antisovietico elaborato a Washington e fondato sulla complessa dialettica tra i principi del containment (contenimento) concettualizzato da George Kennan - cioè l'organizzazione di un vero e proprio assedio che conducesse il campo socialista alla stagnazione e al declino - e del roll back (far arretrare), il cui padre fu John Foster Dulles, che consisteva nel respingimento sistematico e brutale dell'avanzata del movimento operaio su scala planetaria con mezzi economici, politici, ideologici, terroristici o militari. Ben sappiamo come anche l'Italia abbia pagato un elevato tributo di sangue per la realizzazione di quel disegno.
Di quella, come di tutte le fasi successive della politica estera degli Stati Uniti durante la Guerra Fredda, la Germania di Bonn fu la più fedele esecutrice, ciò che ha storicamente permesso all'imperialismo tedesco uscito sconfitto dalla Seconda Guerra Mondiale di risorgere con la benedizione e il sostegno degli USA, ricostituire la propria potenza sul piano economico, finanziario e dunque politico, ma anche - in misura crescente nel corso dei decenni - sul piano militare, e riaffacciarsi sulla scena mondiale come protagonista, dopo la scomparsa del campo socialista e l'annessione della DDR.
L'affermarsi dell'egemonia tedesca in Europa
Oggi, dicevamo, la Storia d'Europa e del mondo è a una nuova svolta decisiva e l'imperialismo tedesco, più che mai solido nei suoi orientamenti strategici e aiutato dalle relative debolezze dei suoi concorrenti come dei suoi interlocutori privilegiati, si appresta ad essere principale interprete del cambiamento in atto, al quale da sempre si prepara e che da Maastricht in poi è andato progressivamente assumendo proprio la fisionomia che i monopoli tedeschi hanno assiduamente operato per determinare.
Nel valutare i passaggi che nel corso degli ultimi decenni hanno condotto a maturazione la fase attuale, viene certamente alla mente la nota reazione di Alessandro Natta alla notizia della caduta del Muro di Berlino: “Qui crolla un mondo, cambia la storia... ha vinto Hitler... Si realizza il suo disegno, dopo mezzo secolo”, ebbe a commentare l'ex segretario del PCI. I fatti gli hanno dato ragione. Dal 1989 ad oggi, l'imperialismo tedesco ha via via subordinato tutti gli altri imperialismi europei alla propria egemonia apparentemente irresistibile, ha progressivamente plasmato l'area economica europea, il più ricco mercato del mondo, fino a farle assumere la funzione del tanto ricercato ‘spazio vitale’ tedesco, ha avuto un impatto decisivo nel fare dell'unione monetaria una esatta trasposizione e uno strumento della propria ascesa, ha espanso la sua capacità finanziaria ma anche quella militare, ha approfittato nel modo più efficiente della ‘libera circolazione delle persone’ entro le frontiere dell'Unione - un principio apparentemente assai suggestivo e progressista - per praticare una politica scientifica di compressione dei salari all'interno dello stesso mercato del lavoro tedesco e ne ha tratto una incredibile vitalità come esportatore a livello internazionale, ha utilizzato i propri utili per divenire uno dei principali creditori internazionali degli Stati Uniti - sempre fortemente favoriti nella competizione globale, ma anche in qualche modo “inchiodati” alla loro funzione di architrave dell'economia finanziaria mondiale - e influenzarne il più possibile le politiche.
Tutto questo costituisce una straordinaria manifestazione della capacità della politica di organizzare e accompagnare il processo di centralizzazione e concentrazione del capitale e una conferma macroscopica della concezione gramsciana del blocco storico: nella dialettica odierna tra struttura e sovrastruttura, gli elementi sovrastrutturali rappresentati dall'ideologia, dalla politica e dall'organizzazione statale tedesca hanno contribuito in profondità a modificare le relazioni strutturali prima su scala continentale, poi a livello planetario.
Ma c'è di più: specularmente all'ascesa economica, politica e ideologica dell'imperialismo tedesco, gli altri imperialismi europei hanno politicamente accettato il destino del loro declino e della subordinazione al soggetto egemone.
Il caso dell'Italia, che malgrado tutto continua a essere il secondo maggiore esportatore europeo, è emblematico: la direzione politica del nostro imperialismo nazionale ha scientemente, sistematicamente e disciplinatamente rinunciato a ogni pretesa egemonica per favorire un inquadramento remunerativo della borghesia monopolistica italiana nel nuovo ordine continentale e mondiale. La regionalizzazione della nostra struttura amministrativa, che ancora una volta corrisponde al disegno della cosiddetta ‘Europa delle regioni’ al di là dei confini obsoleti delle nazioni, è forse la più notevole conseguenza politica di quella scelta: si abbandona la maggior parte del paese alla putrefazione economica, produttiva e sociale, per favorire le aree territoriali maggiormente competitive - in particolare la Lombardia, che da sola produce un quarto del PIL nazionale - nel nuovo sistema continentale.
Non stupisce l'incredibile consonanza di tutti, ma proprio tutti i partiti padronali italiani, dalla Lega al PD, nel sostenere le ragioni di fondo della cosiddetta "autonomia differenziata", e sia pure con sfumature diverse a beneficio del pubblico teatrino della finta opposizione tra ‘europeisti’ e ‘populisti’: mentre il settentrione a trazione lombarda si candida al ruolo di ‘perla del sud’ della nuova Europa, a tutto il resto del paese, naturalmente a cominciare dal meridione e dalle isole, viene assegnata di nuovo la funzione di serbatoio di manodopera migrante, utile a fornire l'esercito di riserva di manodopera disoccupata, ma competitiva in tutti i settori economici, per alimentare la spirale della compressione salariale nelle aree geografiche destinate a essere il motore della potenza europea e che corrispondono, naturalmente, a quella che fu la Germania occidentale durante la Guerra Fredda e alle sue immediate adiacenze, Italia settentrionale compresa.
Non si può dire, d'altra parte, che l'Italia sia il solo esempio di questo fenomeno, tra gli imperialismi declinanti dell'occidente europeo. Appena alcuni giorni fa si è avuta una manifestazione plastica del processo in atto a Parigi, in occasione della parata militare del 14 Luglio: le telecamere hanno potuto catturare e mostrare al mondo intero il presidente Macron, il più penoso fantoccio del capitale finanziario che si sia mai visto alla guida di una nazione a capitalismo avanzato, mostrare orgoglioso la potenza militare francese messa a disposizione della “costruzione europea” a una Angela Merkel assai compiaciuta, mentre la musica delle fanfare veniva coperta dai fischi e dalle grida di rabbia del ceto medio impoverito e dei lavoratori di Francia, che dall'autunno scorso ogni settimana sono scesi in piazza per le poderose manifestazioni di protesta dei gilet gialli. Una collera, quella espressa in occasione dell'anniversario della presa della Bastiglia, assai ben direzionata, ciò che mostra come, almeno nei fondamentali, le classi popolari francesi abbiano ben compreso quali siano le questioni all'ordine del giorno e i nemici contro cui battersi.
L'unico, ma macroscopico elemento di contraddizione rispetto alla scelta degli imperialismi declinanti europei di sottomettersi all'egemonia di Berlino, è il contrasto tra l'emersione di quest'ultimo alla guida dell'UE e gli interessi degli Stati Uniti, a cui ancora gran parte dei settori dominanti delle società europee sono fortemente legati: una questione su cui si tornerà nel corso della presente riflessione, ma che deve essere qui menzionata per non generare equivoci.
Emerge dunque in modo chiaro come il ruolo della Germania nel determinare l'evoluzione della ‘costruzione europea’ manifesti un salto qualitativo notevole dei monopoli tedeschi, che nel corso di un'intera fase storica sono stati capaci, dopo la dura lezione della disfatta hitleriana, di lasciarsi alle spalle un modello di emersione del loro primato fondato sulla dominazione e sulla conquista per abbracciarne un altro, centrato invece sulla più raffinata e multiforme capacità egemonica, e cioè di direzione intellettuale e morale (solidamente fondata sul primato economico) dei processi in atto. In tal senso, si può dire che questa sorta di Quarto Reich tedesco sia una rottura con il modello rovinoso e perdente, a tutti i livelli, rappresentato dall'esperienza hitleriana e un perfezionamento, viceversa, del modello di raffinato equilibrio tra diplomazia e brutalità rappresentato dagli anni in cui il Secondo Reich fu sotto la direzione di Bismarck.
Russia e Cina
Se, come riteniamo, il parallelo con l'era bismarckiana è il più indovinato per leggere le radici politiche dell'emersione della Germania, e quindi anche l'elezione di Ursula von der Leyen alla Commissione Europea, va allora ricordato come l'equilibrio bismarckiano si esercitasse in due direzioni, essendo lo ‘spazio vitale’ centroeuropeo minacciato a ovest dalle potenze concorrenti (la Francia, ma soprattutto il Regno Unito) e a est dalla mole, economicamente e socialmente arretrata ma resa protagonista della scena continentale per puro fattore quantitativo, della Russia. Si può dire che una situazione simile si produca anche oggi.
Nell'ambito della sinistra comunista, in gran parte orfana della Guerra Fredda al punto da arroccarsi su una lettura binaria della politica internazionale che vuole a tutti i costi contrapporre un presunto monolite atlantico composto principalmente da USA e UE a un altro blocco - in genere rappresentato dalle economie emergenti che vengono buttate tutte in un unico calderone indifferenziato (i BRICS) -, il ruolo della Russia nel mondo contemporaneo viene alquanto esagerato.
Sia che si consideri il gigante eurasiatico guidato da Vladimir Putin come una potenza imperialista, sia che giustamente si contesti una tale definizione, si tende a enfatizzarne la centralità negli equilibri planetari. Certamente l'estensione, la ricchezza di materie prime, la potenza militare ereditata dall'URSS e la florida industria degli armamenti conferiscono al paese una notevole importanza e un particolare risalto sulla scena diplomatica, ma ciò non corrisponde alle relazioni strutturali in cui l'economia russa è inserita. Sono queste ultime il fattore decisivo per determinare nell'insieme il ruolo internazionale della Russia. Ancora una volta, l'imperialismo tedesco è stato tra i più lucidi interpreti di come quel ruolo si sarebbe delineato, e ciò sin dagli ultimi anni dell'URSS di Gorbačëv.
Sin dagli anni '90, segnati dalla cosiddetta “amicizia strategica da sauna” inaugurata da Kohl e Eltsin, il capitale tedesco si è garantito un ruolo di primissimo piano nella nuova Russia strangolata dal capitalismo primitivo e predatorio degli oligarchi. Quel ruolo si è approfondito negli anni di governo della SPD di Schröder fino a creare commistioni tali tra capitale finanziario tedesco, colossi russi dell'energia, oligarchi e uomini di governo da generare i periodici scandali che hanno coinvolto alcuni dei principali dirigenti politici di Berlino. Simbolo di tali scandali è sicuramente lo stesso Schröder il quale, dopo aver perso le elezioni federali del 2005 che incoronarono Merkel come cancelliera, accetterà la nomina, sostenuta dal colosso russo dell'energia Gazprom, alla guida del consorzio multinazionale Nord Stream AG per la costruzione del gasdotto destinato a portare il gas russo direttamente in Germania, passando per il Baltico ed evitando il transito attraverso le esose o riottose repubbliche ex-sovietiche e i membri orientali dell'UE. Schröder è infine approdato nel settembre 2017, in piena campagna elettorale tedesca, alla guida del consiglio d'amministrazione di Rosneft, l'altro colosso russo dell'energia, nominato personalmente da Putin.
Viene da sé che la relazione tra l'ex cancelliere socialdemocratico di Berlino e il presidente russo, tra l'altro sfociata in una solida amicizia personale, sia ben più dello scandaloso sodalizio tra l'ex governante di una nazione ‘democratica’ e ‘occidentale’ e un ‘autocrate’, secondo la rappresentazione caricaturale che sono soliti offrirne gli organi della ‘stampa libera’ al servizio dell'ideologia atlantista. Si tratta invece di una manifestazione del profondissimo legame complementare che lega uno dei principali attori imperialisti del nostro tempo, avido di materie prime e di sbocchi per i propri investimenti e le proprie esportazioni, in particolare nel settore industriale, al suo perfetto opposto: un'economia basata sulla rendita dell'esportazione di gas e petrolio, instabile e alimentata da una moneta debole, con enormi aree di sottosviluppo e con una conseguente debolezza politica da sfruttare. Esattamente quello che la Germania si adopera a fare da decenni.
Tutto questo non significa, ovviamente, che l'imperialismo tedesco trascuri i pericoli derivanti dalla possibilità che la Russia approdi a più alti livelli di sviluppo economico. Ed ecco il perfetto dualismo: mentre coltiva con le oligarchie russe un partenariato strategico, l'imperialismo tedesco svolge un ruolo attivo nel ridimensionamento del ruolo internazionale della Russia, ora al fianco degli Stati Uniti, ora con un proprio ben definito profilo autonomo.
L'esempio più eclatante si è avuto certamente in Ucraina, dove proprio Ursula von der Leyen, da ministro della difesa, ha inviato personale militare e droni a sostenere la guerra del governo golpista insediatosi a Kiev nel 2014 contro le popolazioni russofone del Donbass. L'esempio ucraino non è tuttavia l'unico: agli attenti osservatori non sfugge come sia l'UE egemonizzata da Berlino il grande promotore internazionale dell'allontanamento da Mosca di paesi dell'area ex sovietica come Bielorussia e Kazakistan, con la conseguente accelerazione di processi di ‘de-russificazione’ ispirati al desiderio di entrare nell'orbita della ricchissima area economica europea. Un processo favorito dalla diffusione del risentimento antirusso in ampi settori di quelle popolazioni, che non cessa di progredire e minaccia d'intaccare la stessa Federazione Russa. Negli ultimi decenni dell'era colonialista, l'ambizione della Germania hitleriana era quella di fare dell'URSS le "Indie tedesche", superando in brutalità la sanguinosa colonizzazione britannica dell'India per recuperare il ritardo accumulato; oggi si può dire, secondo il paradigma neocolonialista, che il progetto per l'area ex sovietica sia in qualche modo lo stesso, ma con tutta la sottigliezza e il gradualismo imposti dalle condizioni del momento. Se non c'è dubbio che la direzione politica russa se ne sia resa conto, resta da domandarsi se e in che modo saprà bilanciare gli irrinunciabili interessi immediati rappresentati dal sodalizio economico con il vicino europeo con gli enormi pericoli di lungo periodo, ammesso che un tale bilanciamento sia possibile.
Naturalmente la proiezione verso oriente del capitale tedesco non si ferma all'Asia centrale: non stupisce che proprio la Germania sia l'unico paese europeo a poter vantare una bilancia commerciale in attivo con la Cina, la più grande manifattura del mondo impegnata nella difficile transizione a un modello economico capace di ‘armonizzare’ le enormi contraddizioni che le riforme di mercato hanno sviluppato in seno alla società, ma innanzitutto tra la struttura economica e la sovrastruttura statale, ma anche ideologica, di marca socialista. Le esportazioni tedesche in Cina, trainate dai settori meccanico e automobilistico, esprimono l'essenza dell'attuale divisione internazionale del lavoro, con i segmenti alti saldamente occupati dalle potenze occidentali e Pechino intenta, non senza successo in alcuni settori, tuttavia ancora insufficienti, a contendere quei segmenti strategici a rivali (USA e UE) che pure rappresentano il suo principale mercato: una contraddizione non di poco conto.
Come non citare, a questo punto, a conferma della scelta politica della subalternità all'egemonia tedesca in seno alla UE operata dalle classi dirigenti italiane (e alla permanente soggezione al primato statunitense, rispetto al quale l'emersione del Quarto Reich rappresenta una macroscopica contraddizione), la grottesca polemica sugli accordi economici firmati da Italia e Cina alcuni mesi fa? Pur nella loro limitatezza, i protocolli siglati a Roma nel corso della visita di Xi Jinping hanno indotto la Lega e il PD alla più squallida agitazione propagandistica anticinese. I due partiti hanno stigmatizzato all'unisono quelle collaborazioni, sulla carta piuttosto remunerative, contro le più elementari regole del ‘mercato’ in genere tanto care ai politicanti asserviti al padronato. Solo alla luce della scelta consapevole della subordinazione ai monopoli dominanti a livello internazionale e alle loro manifestazioni statali, l'apparente assurdità di quelle posizioni acquisisce contorni razionali.
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