Il libro Nanchino 1937-1938. La strage dissotterrata (Meltemi editore) si spiega partendo dal sottotitolo “strage dissotterrata”. Nel formarsi delle cose storiche si hanno troppi accadimenti che mettono crudelmente in luce tutta la violenza di cui l’uomo è capace. Ve ne sono in ogni paese e in ogni tempo. Questa di Nanchino della fine del 1937 è una di quelle. Il fatto in sé: trecentomila cinesi sono stati brutalmente uccisi dall’esercito giapponese nella città del sud della Cina in quella fine di anno. Perché ritornare su tanta ferocia? Al di là degli interessi di studio per la Cina e quello che, soprattutto nel 1900, è accaduto in quel paese, parte della motivazione a esplorare fatti oscurati è dovuta alla professione che per decenni ho svolto. Insegnare storia e filosofia al liceo mi ha reso curioso, culturalmente, rispetto a ciò che nei manuali di storia sovente è taciuto e/o appena accennato. Ho cercato perciò di approfondire dimenticanze di diverso tipo per tentare di capire perché vi fossero state. La strage di Nanchino è una di quelle.
La questione è ritornata tragicamente “di moda” dopo che Iris Chang, alla fine del secolo scorso, ha scritto un libro nel quale ha ripercorso la strage, definendola stupro (The rape of Nanking, 1997). Il libro è stato poi tradotto in diverse lingue e anche nella nostra (Lo stupro di Nanchino, Corbaccio, 2000, ma fuori catalogo). Chang apparteneva a una famiglia che ha avuto a che fare con le mostruosità della Seconda guerra mondiale e che ha trasmesso alla figlia gli orrendi racconti attorno al periodo di guerra sino-giapponese degli anni Trenta. Le motivazioni psicologiche che hanno indotto Chang a intraprendere studi e ricerche su Nanchino ora non ci interessano direttamente, ma resta il fatto che lo fece e che ne venne talmente scossa da suicidarsi alcuni anni dopo la sua pubblicazione.
Ma lasciamo questo tragico destino sullo sfondo.
Il suo libro ha riaperto una ferita che si era in parte rimarginata ma non definitivamente chiusa. Difficile capire perché di tanta ferocia. L’uccisione di così troppe persone in un breve arco di tempo, circa sei settimane dalla metà di dicembre 1937, lascia stupefatti. Si possono trovare in rete foto e documenti di quella strage e la brutalità dei gesti, il gioco al massacro, allo stupro e alla violenza usata in ogni modo, ma poco si capisce. Se rimaniamo solo fermi ai numeri della strage possiamo già vedere come su quei numeri si attui un tentativo di riduzione che non può che insospettire. Trecentomila è il numero ufficiale, scritto anche sul muro del mausoleo eretto a Nanchino. Ma leggendo documenti recenti si è venuti a conoscenza che forse tale abnorme quantità potrebbe essere sottostimata. Alcune fonti statunitensi arrivano alla cifra di cinquecentomila. All’opposto si leggono, soprattutto da parte di storici giapponesi negazionisti o riduzionisti, cifre che arriverebbero a “soli” quarantamila morti.
In ogni caso già da questa altalena si capisce come la questione sia veramente importante. L’efferatezza nelle uccisioni è stata anche oggetto di romanzi e di film che potremmo definire di colore. I buoni da una parte, i cinesi repressi, i cattivi dall’altra, i giapponesi repressori. In mezzo la carneficina. A un livello appena superiore troviamo un titolo di Pearl S. Buck, Stirpe di drago del 1942. Insomma, un fatto tragico che ogni tanto riemerge anche nel mondo letterario e filmico.
Ma la questione che mi pareva più significativa, dopo avere spulciato i manuali di storia di vecchia e nuova edizione e trovare che in troppi di loro non viene neppure citato tale fatto, era: come mai tale tragedia non ha giocato un ruolo profondo, al suo livello di tragedia, nelle relazioni tra Cina e Giappone nei decenni successivi? Ho cercato di rispondere a questa domanda andando a fare riaffiorare parole, passaggi e riferimenti a volte solo accennati, quasi un soffio, in pubblicazioni di vario interesse. Alla fine, ho dato queste spiegazioni di fondo, che cerco di riassumere, ma che il lettore potrà meglio seguire nell’evoluzione della loro costruzione nel testo.
Nanchino era allora in potere di Chiang Kai-shek, capo del Guomindang, il Partito nazionalista. La guerra contro i giapponesi era contemporanea allo scontro, nel campo cinese, tra nazionalisti e comunisti guidati da Mao Zedong. Il caso di Nanchino si situa proprio nel mezzo di una momentanea ricomposizione di alleanza militare tra i due tronconi militari e politici cinesi. Perciò per i comunisti, vincitori finale nel 1949, quella tragedia era da addebitare totalmente alla fazione nazionalista.
Il mausoleo dovette aspettare decenni per la sua costruzione, in epoca Deng Xiaoping, e ancora altri anni per la sua ristrutturazione. In seguito, ora, è venuto a trovarsi nello scontro-alleanza della Cina e del Giappone, in versione geopolitica che si muove sul piano internazionale. È proprio di queste ultime settimane la firma di un trattato commerciale che vede la Cina e il Giappone, unitamente a diversi altri paesi dell’Estremo oriente, mettersi assieme per la costruzione di una zona di libero scambio, sempre più aperta, evidentemente in versione antistatunitense. A che pro richiedere, da parte di Pechino verso Tokyo, finalmente, scuse o ritrattazioni politiche per quello che successe circa ottant’anni fa? Perché mettere in crisi una concorrenza-alleanza che promette di arrivare a risultati eccezionali in campo commerciale, e probabilmente non solo, nei prossimi decenni?
Ecco perché dissotterrare quella strage vuole anche dire intervenire sulle questioni che ci vedono partecipi, di riflesso si capisce, ma che danno comunque qualche spiegazione su cosa voglia dire la sovranità della politica e dell’economia, che si accompagna ora alla costante ricerca del profitto e che è sempre più immersa in uno scenario di movimento a livello internazionale dal quale non può proprio prescindere.
Il libro riporta in appendice due interviste a due importanti sinologhe, Edoarda Masi (1927-2011) ed Enrica Collotti Pischel (1930-2003). Erano state da me fatte nel 1989, alla vigilia di un altro momento tragico della Cina. Si era nei mesi precedenti alla risoluzione degli scontri di piazza Tienanmen. Le due sinologhe, nelle loro parole, anticipano e spiegano la situazione poco prima della violenta definizione finale. Le aveva pubblicate “Il calendario del popolo”, gloriosa rivista che è morta con la scomparsa del suo magnetico direttore, Nicola Teti. La coda avviata successivamente non merita l’attenzione che invece si deve mantenere per la più longeva delle riviste popolari che l’Italia ha avuto. Interviste che servono, a mio parere, per capire come quando si parli di Cina non serve a nulla cercare scorciatoie analitiche, tanto quel paese è grande e complesso e che quindi deve sempre venire in aiuto grande circospezione di analisi per cercare di definire qualcosa che poi, in un arco di tempo non lungo, si dovrà necessariamente modificare.
Così come è accaduto per lo stupro di Nanchino, per la cui riconsiderazione dobbiamo ringraziare sempre Iris Chang che ha pagato con la sua vita questo immergersi in essa.