Continua dalla settima parte
3.1.2. Le promesse non mantenute della transizione
Gli economisti hanno scritto ampiamente sulla cosiddetta “maledizione delle risorse”. Secondo questa teoria l’abbondanza di risorse non rinnovabili tenderebbe a non tradursi in maggior ricchezza distribuita tra la popolazione (Sachs e Warner 1995). La maledizione dell’Ucraina, tuttavia, non sta tanto nel tema delle risorse in sé, che pure il paese possiede in abbondanza. Si tratta, piuttosto, della cronica incapacità dei capitalisti ucraini di gestire le industrie tradizionali e ridurre la loro dipendenza da approvvigionamenti innaturalmente sottocosto, come sono quelli provenienti dalla Russia.
In effetti, l’accumulazione capitalistica in Ucraina s’è fondata prevalentemente sulla trasformazione delle materie prime russe – spesso quasi gratuite – in prodotti finiti da rivendere sul mercato mondiale. Questo modello, però, è divenuto ben presto insostenibile per diverse ragioni; e la principale è di politica economica. Questo processo è fondamentale sia per comprendere i rischi economici per il futuro dell’Ucraina sia per chiarire parte del retroterra politico-economico delle aspirazioni europee di Kiev.
Nei primi anni duemila la Russia adottò un modello di sviluppo basato sull’esportazione di materie prime ed idrocarburi. In poco tempo, però, la realtà dimostrò l’insostenibilità della scelta. Gli esperti giunsero alla conclusione, e la leadership si convinse, che così facendo nel migliore dei casi la ricchezza nazionale sarebbe cresciuta solo lentamente. La chiave per la salvezza del regime politico post-sovietico stava in un enorme trasformazione dell'economia e della società: un processo noto in Russia come modernizzazione. Parte della modernizzazione passa per l’aumento dei prezzi al consumo delle materie prime. Se i Russi avessero dovuto pagare di più, non c'era motivo per cui i Bielorussi e gli Ucraini dovessero continuare a godere di prezzi “politici” calmierati.
La mossa russa ebbe da subito conseguenze drammatiche per l'Ucraina. Alcuni leader politici ben pensarono che la decisione russa potesse essere aggirata o almeno rinviata giocando sulle carte della Unione slava o eurasiatica: gli ucraini continueranno a intrattenere prospettive di integrazione orientale se la Russia continuerà a rimandare inevitabili aumenti di prezzo. Questo argomento è direttamente collegato alla minaccia di entrare nell'UE e tutto ciò che ne è derivato.
Si possono individuare, molto schematicamente, tre ordini di cause della deindustrializzazione dell’Ucraina: (a) la cecità del paradigma della transizione; (b) la finanziarizzazione dell’economia; (c) la dipendenza dal commercio estero.
(A) La crisi degli anni ’90
Gli anni '90 sono stati per l’Ucraina, come ovunque nell’ex URSS, un decennio economicamente devastante. Non che la base di partenza fosse delle migliori: nel 1991 l'Ucraina era più vicina alle repubbliche sovietiche del Caucaso che non alla Russia. Le statistiche sulle economie del socialismo reale sono notoriamente incerte, ma le più attendibili stimano un PIL pro capite attorno ai $1.400, del 15% inferiore a quello bielorusso e pari al 43% di quello russo (World Bank 2019c). Va riconosciuto che parte di questa differenza è da ricondurre alla tradizionale vocazione agricola del paese. Le terre dell’attuale Ucraina sono state per secoli il granaio dell'Impero russo, prima di diventare il principale produttore di grano dell’URSS. Nel corso del Novecento l’introduzione delle più moderne tecniche russe permise all'Ucraina di modernizzare il settore primario (oltre all’agricoltura anche l’estrazione mineraria) e favorirono il sorgere dell’industria metallurgica. Ciò, però venne ad un prezzo. Nel corso del ventesimo secolo l’economia ucraina ha sofferto enormemente gli shock dovuti agli effetti della collettivizzazione forzata e dell'industrializzazione ad ogni costo. L'Ucraina sovietica dipendeva fortissimamente dalle importazioni comparativamente a buon mercato di petrolio e minerali dalla Russia. Quella ucraina si sviluppò come un’economia di trasformazione che, a partire da materie prime energetiche e minerarie di alta qualità ma quasi gratuite, produceva prodotti finali molto costosi sui mercati sovietici, ma di bassa qualità rispetto agli standard del mercato mondiale.
Con l’indipendenza l'Ucraina introdusse una nuova moneta, la grivna. Nel 1991–’92 l'introduzione della nuova valuta s’è accompagnata ad un aumento dell'inflazione di quasi 5 volte. Nel 1992–‘93 l'inflazione crebbe del 3.387% (World Bank 2019e). Per l'intero decennio prevalsero il baratto e l'uso di valute estere. Un'economia sommersa fiorente compensò un collasso economico non quantificabile. La corruzione dilagante incentivava la fuga verso l'economia “nera” e l’evasione. L'Ucraina finì in un circolo vizioso difficile da spezzare. L'instabilità politica impediva il consolidamento di istituzioni amministrative efficienti, su tutte le agenzie fiscali. Ciò riduceva la capacità dello Stato di estrarre risorse dalla società. Inoltre, la base imponibile andava restringendosi a causa della recessione. Ciò significò un'ulteriore riduzione delle entrate totali. Qualsiasi tentativo di aumentare il gettito fiscale in una situazione del genere significava che tutto il tassabile sarebbe stato tassato troppo pesantemente. In definitiva, molti cittadini e aziende furono costretti nell'economia sommersa.
Per un paese non devastato da una grande guerra la crisi economica dell’Ucraina fu di proporzioni imprevedibili. Il PIL del paese si contrasse annualmente nel periodo 1991-1996 a soli $872 pro-capite, un calo di oltre il 40% che mal si compara al calo del 25% registrato in Russia ed il 23% della Bielorussia nello stesso periodo (World Bank 2019c). Inoltre, il paese ha registrato un declino industriale eccezionalmente grave. Nel 1990 l'industria (compresa l'edilizia) stava ancora crescendo in termini assoluti e relativi rispetto al PIL. Alla fine del decennio il valore aggiunto del settore secondario in termini assoluti è passato da $42 miliardi a circa $9,5 miliardi. Il picco pre-indipendenza è stato superato nel 2008, ma con la Grande recessione l'industria si è contratta di nuovo ed è ancora molto lontana da dove si trovava nel 1991 (World Bank 2019d).
Tuttavia, il declino non è misurabile soltanto in valore assoluto ma, come le dinamiche della deindustrializzazione rendono prevedibile, anche relativamente ad altri settori dell'economia. Dall’oltre 54,5% sul totale del PIL nel 1991, l'industria passò a valere poco meno del 30% nel 2000 e poco più del 23% nel 2018 (World Bank 2018). Come percentuale dell'occupazione totale, il settore secondario è passato da oltre il 27% a meno di circa il 24%. Tenendo conto del fatto che la popolazione complessiva s’è anch’essa ridotta queste cifre sono ancora più allarmanti. La forza-lavoro ucraina è passata da oltre 24 milioni di lavoratori a 23 milioni nel 1999 e 20 milioni nel 2018, con un calo del 18% (World Bank 2019a). Allo stesso tempo, in Russia la forza-lavoro totale è diminuita solo del 3% – da quasi 76 milioni a poco più di 73,5 – mentre in Bielorussia è aumentata da 4,6 milioni a oltre 5 milioni (World Bank 2019b).
Persino Francis Fukuyama definisce l'Ucraina un esempio di come la “transizione” presunta naturale verso la democrazia ed il libero mercato arrivi al prezzo di «un processo di costruzione delle istituzioni lungo, costoso, laborioso e difficile» (Fukuyama 2011, cap. 30) senza ovviamente dirci chi ne paga il prezzo. La transizione dell'Ucraina verso un'economia di mercato seguì tutti i crismi del dogmatico Washington consensus: liberalizzazione, privatizzazione e mutamento istituzionale (Hurt 2015). Sia le attività economiche minori (e.g., negozi al dettaglio e simili) sia le grandi industrie sovietiche furono privatizzate, quest'ultime vennero di solito acquisite da chi le aveva sino ad allora dirette in nome del Partito.
Tuttavia, anche dopo il processo iniziale di privatizzazione, lo Stato non si dimostrò capace di proteggere la proprietà privata – specie quella piccola – anche per via della corruzione e dei superiori interessi della grande impresa. La strutturazione del potere, ed il modello comportamentale radicatasi in questo decennio sono prevalentemente ereditati dai meccanismi burocratico-amministrativi sovietici e permangono ancor oggi. All’etichetta della nomenklatura di partito s’è sostituita, quasi sempre appiccicandosi alle medesime persone, quella di “oligarca”: i pochi individui che controllavano le industrie chiave del paese. Spesse volte, la demarcazione tra capitalismo senza scrupoli e criminali comuni appare confusa. Il successo di Servitore del Popolo e la sua promessa di rinnovare totalmente la classe politica parlano chiaro a tal proposito. Gli Ucraini temono sempre che i politici eletti si rivelino poco più che portatori degli interessi particolari di questo o quel oligarca anziché della comunità.
(B) La finanziarizzazione dell’economia (Anni 2000)
La politica di Nation building avviata a Kiev ha contribuì a tenere i capitali stranieri – russi e occidentali – per lo più fuori dalla partita delle privatizzazioni. In Ucraina, come in Russia, i dirigenti passati erano ancora ai loro posti all’atto di nascita della proprietà privata dei mezzi di produzione ed hanno saputo sfruttare la transizione. Dopotutto, «rispetto ad altri proprietari gli oligarchi hanno maggiori probabilità di investire nel miglioramento della produttività» (Gorodnichenko e Grygorenko 2008, 30), il che ne faceva i migliori proprietari non stranieri disponibili in termini di incremento della produttività. Lo Stato, infatti, sarebbe stato un proprietario inetto; non emersero investitori istituzionali capaci di raccogliere la sfida della privatizzazione e nemmeno v’era una base sufficientemente ampia di piccoli investitori. Tuttavia, per ammodernare il sistema produttivo del paese persino le risorse degli oligarchi non bastavano. Essi necessitavano di una liquidità che il paese non possedeva. A questa necessità corrispose l’unica eccezione ad un nazionalismo economico altrimenti rigoroso: il sistema finanziario.
Diverse banche sia occidentali che asiatiche entrarono sul mercato ucraino nel corso della seconda metà degli anni ‘90. In meno di un decennio, l'Ucraina passò a possedere un settore bancario comparabile – per dimensioni relative – a quello di molte economie di mercato consolidate. Le banche controllate dallo Stato e altri istituti politicamente orientati rimasero in attività. La maggior parte del credito, però, veniva concesso da banche straniere che convogliavano la liquidità prodotta altrove dal capitalismo globale verso l'Ucraina ed altre economie emergenti. Il rapporto tra debiti del settore privato e PIL crebbe molto, forse troppo, rapidamente. Dal minimo storico del 15% nel 1995 si arrivò ad oltre il 33% nel 2005 con un picco del 103% nel 2009. Nel giro di pochi anni l'economia ucraina si è dematerializzata o, più correttamente, è andata finanziarizzandosi, ponendo le basi per l’ulteriore dipendenza dall’estero del settore industriale.
(C) Dipendenza dal commercio internazionale
L'economia ucraina e le sue prospettive di crescita alla fine hanno sofferto del suo incoerente nazionalismo aggravato dall'inefficienza amministrativa e la crescente integrazione nelle reti del capitalismo finanziario globale. Coi capitali presi a prestito dall’estero, infatti, gli oligarchi effettuarono investimenti miranti all’aumento della produttività. Va ricordato che questi sviluppi hanno effetti rilevanti sul modello economico se il tasso di crescita della produzione totale è, come nel caso in analisi, minore di quello della produttività. Difatti, fino a quando la produzione tende in ogni caso ad aumentare ci si può aspettare che l’occupazione diminuisca o cresca molto lentamente, mettendo in crisi un sistema economico prevalentemente manifatturiero. Tuttavia, se la produzione totale inizia addirittura a declinare, come poi accaduto in Ucraina, allora oltre ad un aumento della disoccupazione è inevitabile anche una riduzione del numero di impianti. In definitiva, l’enfasi del turbo-capitalismo oligarchico impiantato nell’ex URSS sull’innovazione tecnologica ha accelerato la deindustrializzazione del paese favorendo la riduzione dell’occupazione nel settore manifatturiero. Ciò rese l’economia nazionale meno autarchica e, soprattutto, ne legò le fortune al commercio internazionale e alla finanza globale.
Dopo la caduta dell’URSS, difatti, la dipendenza dell’Ucraina dalle materie prime e dalle esportazioni verso la Russia è continuata, pur cambiando forma. Se prima era il petrolio a giocare la parte del leone, negli anni novanta e duemila la Russia ha legato a sé l'Ucraina fornendole gas a basso costo. Soprattutto, la Russia re-importava i beni raffinati prodotti in Ucraina. a prezzi così esosi da risultare fuori mercato rispetto alle quotazioni internazionali. Ancora nel 2014 oltre il 70% del gas consumato nel paese era importato dalla Russia (Naftogaz 2016). Dal 2009 al 2014 ogni giga-joule di energia (pari a circa 278kWh) derivate da gas russo è costata all’Ucraina circa $7 (Pirani 2014, 7)— meno della metà dei $18 richiesti in media ai 28 Stati dell’UE (Statistical Office of the European Union 2019).
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