L’Avana: intervista a Isabel Monal

Isabel Monal, direttrice di Marx ahora, fa alcune considerazioni sulla situazione politica che si è venuta a creare in America Latina.


L’Avana: intervista a Isabel Monal

L’ottobre avanero è piovoso, pervaso da una calda afa e lumeggiato da momenti di sole bollente. Siamo nella cafetería dell’Hotel Habana Libre, dove Fidel Castro, dopo esser entrato da conquistatore nell’Avana nel gennaio 1959, stabilì per un certo periodo di tempo il suo quartier generale al 24° piano. Mi incontro ancora una volta con Isabel Monal, direttrice della rivista Marx ahora; oggi è professore emerito dell’Università dell’Avana e dell’Istituto di Relazioni internazionali di Cuba e ha diretto a lungo l’Istituto di Filosofia. Isabel ha studiato negli Stati Uniti, ad Harvard, dove seguendo il corso di Filosofia della storia giunse a scoprire il pensiero di Karl Marx, che ha sempre sviluppato, non ricadendo mai del dogmatismo e nello schematismo di certo marxismo-leninismo scaturito dall’influenza sovietica sull’isola caraibica.

Si unì alla lotta contro Fulgencio Batista e i suoi mallevadori statunitensi dal 1957; fu arrestata, ma riuscì a rifugiarsi negli Stati Uniti, da dove continuò ad appoggiare il Movimento 26 di luglio, una delle anime della Rivoluzione cubana. Dopo il trionfo della Rivoluzione tornò all’Avana, dove lavorò nella direzione provinciale del Movimento 26 di luglio, insegnò Filosofia dell’educazione all’università, per andare poi a dirigere il Teatro nazionale di Cuba. Successivamente si stabilì a Parigi per lavorare per molti anni nell’ufficio centrale dell’UNESCO, occupandosi sempre dell’educazione superiore. Ha pubblicato numerosissime opere, libri, articoli, ha fatto conferenze ovunque e continua instancabile a lavorare, recandosi anche all’estero.

Le ho chiesto la gentilezza di concedermi un’intervista sull’attuale situazione latino-americana (mancavano pochi giorni alla vittoria di Bolsonaro in Brasile) e lei con lucidità e concretezza ne ha delineato i caratteri principali.

In primo luogo, Isabel sottolinea lo stretto legame tra i vari paesi latino-americani, che avrebbero dovuto costituire dopo la fine della dominazione spagnola (1824) quella che si continua a chiamare la Patria grande e che costituisce l’asse di un progetto mai accantonato, resosi ancora più indispensabile in questa fase storica che sembra avviarsi verso il multipolarismo. Da questo punto di vista, tutto ciò che accade in un paese avrà certamente ripercussioni negli altri e pertanto la quasi scontata vittoria di Bolsonaro (poi avvenuta) avrà ripercussioni tremende su tutto il subcontinente, schiacciandolo sempre più su posizioni antipopolari e antidemocratiche, anche nel senso borghese del termine.

In secondo luogo, Isabel osserva (cosa che abbiamo cercato di sottolineare tante volte in queste pagine) che le cosiddette formazioni progressiste (Argentina, Ecuador, Brasile) erano delle coalizioni con ali di destra, le quali al momento opportuno si sono fatte sentire. Per esempio, Cristina Fernández, residuo del peronismo che ha sempre avuto due facce, definiva il suo governo popolare, e non certo di sinistra, con tutta l’ambiguità che il termine contiene in sé. L’Alleanza cittadina in Ecuador si trovava nelle stesse condizioni, per cui solo i male informati o gli ingenui si possono meravigliare del voltafaccia di Lenin Moreno, delle accuse di corruzione a Jorge Glas e a Rafael Correa, con i quali il primo ha condiviso per anni il potere, evidentemente non accorgendosi di quello che stava accadendo.

Quanto al Partido de los Trabajadores, Dilma Roussef ha inserito nel suo governo esponenti emblematici della destra come Michel Temer, Eduardo Cunha, quest’ultimo per di più pentecostale, anche perché, insieme alle politiche sociali (riduzione non poi così significativa della povertà), ha in gran parte privatizzato lo Stato sociale e ha utilizzato il 40% del bilancio statale per pagare il debito esterno, ossia il capitale finanziario internazionale. Inoltre, questo partito ha profondamente deluso il movimento dei Sem Terra, che negli anni 2000 accusava Lula di non aver redistribuito la terra e che addirittura le proprietà terriere delle transnazionali si erano incrementate. Queste informazioni le aggiungo io per comprendere per quale ragione non c’è stata una vera e propria reazione di massa all’imprigionamento illegale di Lula, il quale è stato messo fuori gioco perché quando i profitti capitalistici sono stati in pericolo per la crisi economica, si temeva non avrebbe applicato rapidamente quei programmi di ajuste che invece la borghesia interna ed esterna ritenevano indispensabili. Da questa preoccupazione scaturisce il golpe politico e costituzionale contro Dilma Roussef, la quale d’altra parte aveva cercato di stabilire buoni rapporti con gli evangelici, in massima misura pentecostali, recandosi all’inaugurazione del tempio di Salomone della Chiesa universale del Regno di Dio a San Paolo (una holding internazionale).

D’altra parte, aggiunge Isabel, per comprendere quello è accaduto in Brasile, bisogna tenere conto del fatto che sicuramente tali eventi erano stati pianificati da lungo tempo e che la stampa, estremamente potente in quel paese, ha preparato il terreno alla denigrazione di Lula e dei suoi seguaci.

Riprendendo un altro argomento, Isabel sottolinea che a suo tempo i governi progressisti avevano conquistato il governo e non il potere, cose estremamente differenti, e forse non ci si è adoperati adeguatamente per concretare il passaggio dal primo al secondo (errore in cui cadde anche Allende, aggiungo io). Per esempio, nel caso del Venezuela non era necessario nemmeno procedere a politiche di espropriazione contro la borghesia (auspicate invece dal Partito comunista del Venezuela), ma sarebbe stato opportuno fare con il denaro del petrolio nel periodo della bonanza, quello che si sta cercando di fare adesso, ossia costruire fabbriche, industrie, per impedire che la mancanza di prodotti indispensabili alla vita quotidiana dessero luogo a proteste per la scarsezza dei beni nei mercati.

Osserva anche con sconcerto che, dopo il primo colpo di Stato (2002), il grande leader rivoluzionario Hugo Chávez, al ritorno nel palazzo di Miraflores, chiese perdono dei suoi errori alla borghesia e alla destra, in particolare scusandosi con i massimi dirigenti della PDVSA (Petróleos de Venezuela), organizzatori di uno sciopero destabilizzatore, di averli licenziati [1]; atteggiamento che richiama certamente il tanto ricercato dialogo con l’opposizione sbandierato da Nicolás Maduro, fondato sempre sulla convinzione che sia possibile venire a patti con questi settori. Il che ci porta a registrare incertezze, oscillazioni e a farci una domanda cui non è facile rispondere: in cosa consiste il socialismo del XXI secolo? Le idee su di esso sono sufficientemente chiare? Naturalmente, per non gettare nella spazzatura tutta la nostra storia, Isabel preferisce l’espressione socialismo nel XXI secolo, che segnala al contempo diversità e continuità.

Inoltre, Isabel sottolinea la grande importanza del fattore “coscienza”, sempre trascurato in tutti i casi summenzionati, ricordando una serie di interviste messe in onda da Telesur dopo le elezioni del 2013, nelle quali gli intervistati, pur riconoscendo di esser stati beneficiati dalle riforme progressiste, dichiaravano di aver votato per la Mesa de Unidad Democrática, per il fatto che ormai non erano più sottoproletari o proletari ma appartenenti alla classe media. Giustamente avevano, dunque, scelto il loro partito, che molto probabilmente li farà ripiombare nella condizione precedente.

Nel corso della Rivoluzione cubana – ricorda Isabel – “tutti i giorni stavamo nella strada e reclamavamo quanto auspicavamo”, acquisendo così coscienza della nostra dignità di lavoratori e della nostra appartenenza di classe. Principio centrale nel pensiero del Che con il suo costante riferimento alla necessità di costruire “l’uomo nuovo”, assai diverso dall’individuo assuefatto al capitalismo e alle sue sirene, purtroppo è del tutto assente dalla mente delle nuove generazioni, in qualsiasi latitudine si trovino, conquistate dall’effimero consumismo e da un edonismo mai appagante.

Più positiva Isabel si mostra a proposito della Colombia, dopo la pace fatta tra il governo di Santos e i movimenti guerriglieri, nonostante il progetto sia stato sconfitto dal referendum del 2016, e ritiene che si sia aperto uno spazio politico, nel quale tendenze di sinistra e movimenti popolari potrebbero muoversi liberamente. Non accoglie il mio richiamo all’assassinio dei leader sociali, che continua spietato da molti mesi.

Quest’analisi, che evidenzia luci ed ombre dei governi progressisti latino-americani, mi spingerebbe ad appropriarmi di un’espressione di Louis Antoine de Saint Just, impiegata da Marx in una sua lettera, che forse Isabel non respingerebbe: “Chi fa una rivoluzione a metà si sta scavando la tomba”. Da ciò scaturisce la necessità di radicalizzarsi per conquistare veramente il potere, dopo aver messo per una serie di condizioni anche contingenti le mani sul governo. Cosa che, del resto, ricorda Isabel, fece Simón Bolívar, membro dell’aristocrazia creola e massone, che giunse a proclamare nelle regioni sotto il suo controllo l’abolizione della schiavitù non ben vista dai suoi pari.


Note:

[1] Questo evento è così descritto da un corrispondente della BBC: “Alla televisione, il presidente di nuovo al suo posto (Chávez), brandendo una croce, chiese perdono, apri alla riconciliazione e promise anche di correggere il suo progetto politico, che in quegli anni nessuno definiva socialista”.

10/11/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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