Le elezioni nazionali e statali tenutesi in Brasile lo scorso ottobre costituiscono una sconfitta politica e ideologica di dimensioni catastrofiche per la sinistra del paese e per il movimento popolare. In una certa misura ci si aspettava questa vittoria strategica dell'estrema destra. Dal ritiro delle Forze Armate dal centro del potere nel 1985, è stata proprio la destra ad escogitare una strategia capace di vincere. In effetti, negli ultimi 30 anni sono andati consolidandosi in Brasile l'ideologia neo-liberale/liberista delle classi dominanti, l'evangelismo pentecostale all'interno delle classi subalterne e il crimine organizzato, tutti elementi complementari nella struttura del dominio di classe. Questi elementi si integrano facilmente con gli interessi dell'imperialismo, in particolare quello del Nord America.
Tutti questi stessi elementi coesistettero e fruttificarono nei 13 anni dei governi PT (Partito dei Lavoratori), prodotto di una coalizione di partiti di centrosinistra con una coalizione di partiti di centrodestra. Questa vasta coalizione era funzionale nella misura in cui la relativa crescita economica permetteva alla classe dirigente nel suo insieme di essere favorita, particolarmente quella del grande capitale finanziario, ma rendeva anche possibili le cosiddette “politiche affermative” per migliorare le condizioni degli strati più poveri e più emarginati. Furono create le più svariate quote assistenziali e si consolidò la miserabile “borsa della famiglia”, come aiuto dello Stato. Nessuna riforma strutturale, comunque. Questi governi del PT (Lula e Dilma) si sono completamente allineati con la grande proprietà terriera. Né vi è stata alcuna iniziativa per stimolare l'organizzazione e l'educazione politica delle masse - al contrario, è stata richiesta ai sindacati e movimenti una pura e semplice adesione al governo.
Quando la gravissima crisi capitalistica del 2008 arrivò in Brasile – e poi più tardivamente nel 2014 – l'imperialismo stava già avanzando nella sua offensiva per sottoporre nuovamente l'America Latina ai suoi dettami: non sarebbe stato più tollerabile l'emergere di regimi politici che richiedevano una rinegoziazione delle relazioni con il nucleo imperiale, come il caso estremo del Venezuela di Chavez.
Quando il PT vinse le elezioni presidenziali del 2014, sempre con Dilma Rousseff, con un margine molto piccolo, il colpo di stato istituzionale fu subito messo in moto mettendo in discussione la legittimità del processo elettorale. Nel tentativo di difendersi, Dilma praticamente aderì al programma del candidato del PSDB (Il Partito della Social Democrazia Brasiliana), Aecio Neves, sconfitto al ballottaggio. Fu inutile, perché il suo governo fu sabotato dalla nuova maggioranza parlamentare fin dal primo giorno, aggravando di fatto la crisi economica.
L'operazione Lava Jato (che ha qualche analogia con l’operazione “mani pulite”) ha svolto un ruolo essenziale nella destabilizzazione del governo, in quanto ha iniziato a sollevare casi di corruzione nella gestione pubblica, coinvolgendo anche i sostenitori del PT. L’azione giudiziale era chiaramente diretta ad indebolire il governo e il PT, anche se uscivano fuori molti altri casi di corruzione. La presidenza fu messa sotto assedio, con il sostegno di una diffusa mobilitazione della piccola borghesia urbana stimolata dai mass media (giornali, TV, radio, internet). Accusata di fare una manovra fiscale (che non era illegale) ad agosto del 2016 la presidentessa fu allontanata e poi destituita. Il passo successivo fu quello di perseguire e condannare Lula, al fine di impedire la sua candidatura per la successione alla presidenza. Anche in questo caso, una ben pianificata farsa legale e mediatica ha avuto successo.
L'idea era di fare una travolgente riforma legislativa di carattere liberista, con attacchi diretti ai diritti dei lavoratori, ma il coinvolgimento del governo di Michel Temer del PMDB (Partito del Movimento Democratico Brasiliano) con scandalosi casi di corruzione, ha reso l'operazione difficile. Bisogna notare, tuttavia, come la resistenza popolare sia stata irrisoria. Anni di governo del PT erano serviti a ritirare tutta la militanza e la capacità di combattere del sindacalismo e dei movimenti sociali dei lavoratori!
Una volta iniziata la disputa elettorale, il PT ha investito tutto nella possibilità di ottenere la liberazione di Lula (imprigionato dal 7 aprile 2018), che emergeva come un chiaro favorito nei sondaggi delle intenzioni di voto. Questo tendeva a isolare il PT nella disputa elettorale. Ad agosto era stato in grado di ottenere supporto solo dal PCdoB (Partito Comunista del Brasile), alleato da molto tempo. Nel frattempo, un’altra candidatura compariva nel campo riformista, Ciro Gomes, del PDT (Partito Democratico Laburista). Il PSB (Partito Socialista Brasiliano) scelse invece di non lanciare la propria candidatura. La sinistra, che stava all’opposizione del PT, lanciò la candidatura di Guilherme Boulos (PSOL-PCB; Partido Socialismo e Liberdade e Partito Comunista Brasiliano).
Anche il centro liberale mise in campo diverse candidature, non riuscendo a riunificarsi o beneficiare degli effetti del colpo di stato del 2016, tra cui l'enorme logorio del PT massacrato dalla campagna mediatica. Il risultato di tutto ciò fu che la candidatura del mediocre capitano in pensione, Jair Bolsonaro, ottenne un’enorme linfa vitale. Con un tempo molto limitato di propaganda radio-televisiva e scarso supporto nella stampa, fece la campagna elettorale su internet, sui social network, in modo massiccio, con palese finanziamento occulto. Bolsonaro, vittima di un attentato nel mezzo della campagna elettorale, fu esonerato dall'esibire le sue credenziali autoritarie, razziste, misogine ed omofobiche e raggiunse il secondo turno con grande vantaggio, avendo già attratto i voti del centro liberale.
Il PT ha raggiunto il secondo turno con Fernando Haddad, ma ha dovuto rifiutare e superare possibili alleati, come Ciro Gomes, con manovre spurie, che hanno completamente compromesso la possibilità di bloccare Bolsonaro. L’enorme responsabilità storica del PT e di Lula in questa sconfitta non può essere ignorata se vogliamo iniziare il lavoro di resistenza e la costruzione di un'alternativa.
Il Brasile sta vivendo un processo di fascistizzazione, ma non è sicuro che questo possa approfondirsi e stabilizzarsi, per due ragioni principali. Bolsonaro e il gruppo politico che ha vinto le elezioni non sono in maggioranza e avranno problemi a governare, oltre a non esser riusciti ancora ad unificare la classe dominante. Si tratta di un gruppo di arrivisti che si sono arricchiti nella fase d’oro del governo di Lula. L’altra ragione è che ci sarà resistenza popolare, che dovrà costruire la sua unità nelle strade.