Nelle ultime settimane Bolsonaro ha partecipato a diverse manifestazioni dal tenore fortemente antidemocratico. In esse i partecipanti sostenevano la necessità di: chiudere il supremo tribunale federale, quello che per intenderci giudica la costituzionalità delle leggi, chiudere il Parlamento, omaggiando ripetutamente la dittatura militare (presentando il golpe del 1964 come rivoluzione contro l'avanzata del “comunismo” nel paese) e sostenendo la necessità di costituire una dittatura militare con Bolsonaro a capo di essa, con l'appoggio, vero o presunto, dei militari. Nell'ultima di queste manifestazioni Bolsonaro ha affermato la volontà di non accettare nessuna interferenza nell'esercizio del suo mandato, dimostrando di disconoscere totalmente il sistema di divisione dei poteri delle cosiddette democrazie liberali. Nel frattempo si formano gruppi, per ora di ristrette dimensioni, che vorrebbero appoggiare un'operazione golpista, che fondano campi di addestramento.
È lecito però a nostro giudizio interrogarsi sulla reale condizione della democrazia in Brasile. Senza voler eccessivamente tornare indietro nel tempo (si vedano gli approfondimenti sul Brasile già pubblicati), la ridemocratizzazione in Brasile è cominciata nel 1989, dopo una transizione definita come “lenta, graduale e sicura”, che ha permesso ai militari, responsabili di crimini e della svolta autoritaria, di uscirne come coloro che riconsegnavano la democrazia nelle mani del popolo brasiliano, dopo averla così ben custodita per 25 anni... Bolsonaro all'epoca si stava affacciando alla politica, candidandosi come deputato federale, carica che avrebbe ricoperto per 7 mandati consecutivi, cambiando diversi partiti, sempre a seconda di come tirasse il vento.
In questi trent'anni poche cose sono cambiate e molte sono rimaste uguali. La prima che è rimasta uguale è il sistema elettorale, fondato sul voto obbligatorio, retaggio del sistema della prima repubblica quando i contadini in condizioni prossime alla servitù votavano alla presenza del loro latifondista, tanto per avere l'idea di quanto potesse essere libero il voto. Sono ancora previste, seppur ridotte a un valore pressoché simbolico, le sanzioni per chi non giustifichi l'assenza al seggio elettorale, ma fino a pochi decenni fa l'assenza al voto poteva comportare la perdita del passaporto e l'impossibilità di partecipare ai concorsi pubblici. Negli ultimi anni è stato imposto un registro elettronico di tutti gli elettori, ma il tribunale elettorale nel 2018 ha estromesso dal voto 3 milioni di elettori, colpevoli di non essersi registrati in tempo, o perché magari abitano a decine di chilometri dall'ufficio presso il quale dovevano registrarsi e ciò gli avrebbe comportato la perdita di una giornata di lavoro, o più semplicemente per mancanza di informazioni adeguate. Fatto sta che con un tratto di penna si è cancellato il diritto di voto di milioni di persone, probabilmente poveri o miserabili, ma evidentemente ciò non costituisce un fatto rilevante per la salvaguardia della “democrazia” brasiliana.
Un'altra cosa che si è perpetuata è sicuramente il grande ruolo avuto dai militari nella politica brasiliana. Per capire ciò, è necessario sapere che in Brasile non solo l'esercito, ma anche la polizia e addirittura i pompieri sono militari, ciò significa che hanno addestramenti simili e che non possono scioperare. I militari oggi sono qualcosa di molto prossimo a una casta, pieni di privilegi, e molto influenti. L'elezione di Bolsonaro, con vice Mourao, generale 4 stelle con 35 anni di carriera nell'esercito, ha in qualche modo tolto la maschera a una situazione nota già da tempo. In questi 30 anni i militari hanno avuto fasi alterne: in conflitto con Fernando Henrique Cardoso che aveva tagliato gli investimenti nel settore militare, più conciliante nell'epoca di Lula, che aveva cercato legittimamente di ingraziarseli, elargendo fondi al settore, in conflitto aperto con Dilma, soprattutto dopo la sua coraggiosa decisione di istituire una commissione della verità sui crimini della dittatura, che si è conclusa purtroppo con un nulla di fatto, un po' perché diversi torturatori erano morti o molto anziani, un po' perché realmente l'insofferenza dei militari era palese e continuare un conflitto aperto gli avrebbe creato davvero molti problemi.
E poi indubbiamente c'è il tema delle morti violente, strettamente legato alla struttura di diseguaglianza economica e sociale presente in Brasile. Attualmente muoiono di morte violenta in Brasile circa 60.000 persone ogni anno, numeri propri di un paese in guerra o con conflitti interni molto aspri, e non di un paese all'apparenza pacifico [1]. Il tema della violenza è strettamente legato alla figura di Bolsonaro, tra poco spiegheremo il perché.
Innanzitutto la polizia, che è militare, riceve un addestramento tipico di chi deve andare al fronte a combattere e non certo di chi dovrebbe occuparsi dell'ordine pubblico in contesti più o meno urbani; ciò comporta un uso spropositato della forza che porta molte persone, soprattutto neri e poveri, a morire durante banali controlli di polizia o in situazioni dove un semplice arresto sarebbe più che sufficiente [2]. Questo in un contesto di pressoché totale impunità, dove essere condannati è quasi impossibile e governatori come l'attuale dello Stato di San Paolo, Doria, propongono di pagare gli avvocati ai poliziotti che uccidono durante l'orario di servizio.
Alla violenza di Stato si somma quella della guerra tra trafficanti e milizie paramilitari per il controllo delle grandi periferie brasiliane, definite “favelas”, dove a farla da padrone è spesso la legge del più forte e a rimetterci sono quasi sempre i soggetti più deboli e vulnerabili, presi in mezzo ad una guerra dove capire, ammesso che sia possibile, chi è il buono e chi il cattivo è un’impresa più che mai ardua.
Veniamo dunque ai discorsi golpisti di Bolsonaro. Egli, e di questo gli va dato atto, non ha mai nascosto le sue nostalgie per il periodo della dittatura militare, presentato praticamente come l'età dell'oro, e il suo apprezzamento per i torturatori e gli assassini dell'epoca piuttosto che per i diversi presidenti che si sono succeduti a scadenza quinquennale durante il periodo che va dal 1964 al 1989. In particolar modo è nota la sua simpatia per il generale Ustra, omaggiato da lui durante l'impeachment di Dilma Rousseff, noto per aver torturato oltre l'ex presidentessa anche molti altri oppositori alla dittatura e autore di un libro revisionista della dittatura, da Bolsonaro considerato tra i migliori sull’argomento. In una celebre intervista rilasciata negli anni ‘90 Bolsonaro inoltre sosteneva la necessità, nel caso fosse stato eletto presidente, di fare un golpe, chiudere il Parlamento e uccidere almeno 30.000 persone, compresi innocenti. All'epoca forse, a torto o a ragione, era considerato semplicemente un estremista a cui non dare troppo spazio e nessuno, nemmeno quando nei decenni successivi tali dichiarazioni continuavano a piè sospinto, si è preoccupato troppo di avere un parlamentare di questo tipo.
Sul tema della violenza neanche il presidente brasiliano si è mai risparmiato, sostenendo in campagna elettorale l'esigenza di decorare con medaglie i poliziotti che uccidessero molto in servizio e presentando un progetto di riforma della giustizia nel 2019, emendato in parte dal Parlamento, in cui si introduceva un’eccezione per cui gli omicidi compiuti in servizio da poliziotti sotto shock emotivo (cosa che nessuno ha capito bene cosa significasse), in situazione di pericolo vero o presunto, non erano sottoposti a processo in nessun caso. Inoltre ha anche sostenuto l'utilizzo della violenza all'interno delle mura domestiche, per insegnare ai figli come comportarsi [3].
Con discorsi di questo tipo e con una campagna basata sull'anti-petismo e su una gigantesca onda di fake-news degna realmente di nota, Bolsonaro è stato eletto presidente nel 2018. E nella composizione del governo non sono mancate figure singolari: tra terrapiattisti, ultra-liberisti della scuola di Chicago e nostalgici dei tempi della dittatura, ce ne sarebbe da riempire i manuali. L'ultima in ordine di tempo è Regina Duarte, da poco nominata segretaria della Cultura, che proprio questa settimana in un'intervista alla CNN si è espressa a favore della dittatura, periodo che le ispirava tanta nostalgia [4], e a proposito delle torture e delle morti ha sostenuto che in ogni epoca sono morte persone, anche innocenti, e dunque non c'era da scandalizzarsi troppo.
Tutto questo per dire che, se davvero si vuole parlare di difendere la democrazia in Brasile bisogna chiedersi: quale democrazia? Quella che incarcera migliaia di persone senza processo? Quella che priva consapevolmente dal diritto di voto, dall'accesso all'istruzione milioni di persone? Quella che permette che la metà della popolazione brasiliana non abbia accesso alla rete fognaria? Perché è di questo che si tratta e non di fantasie sul senso delle istituzioni, il check and balances etc. Non si può nascondere la verità sulla reale situazione del Brasile, su un sistema elettorale che ha permesso l'elezione di un presidente da sempre golpista e con uno storico di pulsioni autoritarie. Se si ha realmente a cuore il paese Brasile, dobbiamo domandarci “Che paese è questo?” [5].
Note:
[1] Tanto per avere un'idea in Brasile ci sono più morti l'anno che in Siria, paese preda di una guerra ormai da diversi anni.
[2] Per fare solo alcuni esempi in Brasile si può morire perché un cecchino confonde il tuo ombrello per un fucile mitragliatore, perché il tuo sacco di pop-corn è scambiato per un sacco contenente droga o più semplicemente la tua auto è investita da 70 colpi di pistola per averla confusa con l'auto di un vero o presunto trafficante, ma gli esempi del genere potrebbero essere migliaia.
[3] Tra i motivi per cui varrebbe la pena picchiare un figlio ci sarebbero: evitare che sia un drogato o un gay, che lui attribuisce a compagnie errate o ad un insufficiente numero di cintate da piccolo.
[4] Ha anche cantato uno spezzone di una canzone sulla nazionale del 1970, all'epoca fiore all'occhiello della dittatura per via della vittoria ai Mondiali.
[5] Libera traduzione di una popolare canzone brasiliana di un gruppo chiamato Legiao Urbana, che scriveva musiche contro la dittatura.