Il 25 maggio a Minneapolis un cittadino nero di 46 anni, George Floyd, è stato soffocato fino alla morte da parte di un ufficiale di polizia bianco, che gli ha premuto il suo ginocchio sul collo per quasi otto minuti mentre altri tre poliziotti assistevano alla scena coprendo il collega. Le immagini di questa atrocità sono state riprese da Darnella Frazier. Nel video, che è stato poi subito reso pubblico sui social media, si sente Floyd pronunciare chiaramente: “I can't breathe”(non posso respirare, ndr), riecheggiando le stesse parole pronunciate da Eric Garner, un altro afroamericano che nel 2014 a Staten Island, New York venne immobilizzato da un agente di polizia fino allo strangolamento e alla morte. George Floyd era stato fermato dalla polizia con l’accusa di aver tentato di utilizzare una banconota falsa di 20 dollari in un piccolo supermercato.
L’episodio di George Floyd è solo l’ennesimo di una lunga catena di uccisioni brutali e gratuite da parte della polizia nei confronti soprattutto di esponenti delle comunità afroamericane negli Stati Uniti, episodi che rappresentano manifestazioni evidenti di un sistema di dominio e oppressione che ha da sempre storicamente coniugato la violenza di classe con quella razziale.
Le rivolte che già da ormai diversi giorni interessano la città di Minneapolis e che si sono via via estese a decine di altre metropoli americane, dove la ghettizzazione delle comunità nere ha assunto le modalità più opprimenti, rappresentano quindi la giusta ribellione ad un sistema di dominio e di violenza organizzata e istituzionalizzata che partendo dal piano economico si estende poi a tutti gli aspetti della vita sociale. Gli afroamericani continuano a rappresentare, insieme ad altre minoranze razzialmente definite quali gli immigrati ispanici e i nativi (questi ultimi però numericamente molto inferiori e confinate prevalentemente in riserve lontane dalle aree metropolitane) la componente più sfruttata e oppressa del proletariato e del sottoproletariato negli Stati Uniti.
Il legame tra il fattore razziale e quello di classe continua ad essere molto forte e questo fa sì che da parte delle istituzioni, e soprattutto dagli apparati repressivi, si continui ad esercitare sistematicamente violenza e terrorismo imposti dall’alto, accettati, se non anche incoraggiati, dalle classi dominanti. Ripetutamente gli agenti di polizia protagonisti di questi brutali assassinii non sono stati accusati penalmente, anche quando prove dannose hanno mostrato la loro responsabilità per l'uccisione di una persona di colore. Questi episodi non vengono quasi mai sanciti come atti criminali e per impostazione predefinita finiscono quindi con l’assumere un crisma di sostanziale legalità.
Grazie a questa sostanziale impunità il razzismo continua a rimanere un elemento distintivo dell’azione della polizia nel pieno disconoscimento di quegli stessi diritti umani e costituzionali che vengono poi elevati a bandiera di superiorità civile degli Stati Uniti solo quando servono a giustificare il loro imperialismo oppressivo e la loro volontà di egemonia mondiale da parte delle classi dominanti che oggi rappresentano soprattutto il grande capitale transnazionale.
Il razzismo strisciante trova poi sponda e quindi affermazione nella stessa narrativa dei media mainstream, nonostante i tentativi sempre più sofisticati per dissimularlo. Emblematica è stata, ad esempio, la differenza nel linguaggio e nelle modalità con cui i media hanno riportato i cortei di protesta contro le misure restrittive per il COVID-19 che si sono svolte proprio a Minneapolis pochi giorni prima delle rivolte della popolazione nera causate dall’uccisione di George Floyd. In quel caso i media hanno evidenziato il carattere pacifico e quindi implicitamente “giusto” della protesta, dove gran parte dei partecipanti erano bianchi e dove era forte la presenza di organizzazioni e movimenti di estrema destra e della cosiddetta “supremazia bianca”.
In modo del tutto differente i media dominanti hanno da subito definito la protesta del 27 maggio a Minneapolis una “rivolta”, utilizzando il termine inglese “riot” che ha un’accezione negativa e ne stigmatizza la componente di violenza. Il Workers World in un articolo pubblicato sui fatti di Minneapolis richiama un discorso del 14 marzo 1968 di Martin Luther King Jr. che definì quel termine con queste parole: “La rivolta è il linguaggio degli inascoltati”. A seguito del suo assassinio, meno di un mese dopo quel discorso, le popolazione nere insorsero in centinaia di città in giusta protesta ed alla fine ottennero almeno l’obiettivo di essere ascoltati, che non fu da poco in quel contesto storico. Così sta succedendo oggi per la popolazione nera di Minneapolis. Durante l'azione del 27 maggio, i membri della comunità hanno rotto i finestrini e hanno tagliato le gomme di una lunga fila di auto della polizia mentre i poliziotti arroganti erano alla guida.
Un dato pubblicato (sorprendentemente) dal New York Times evidenzia che circa il 60 percento delle vittime di azioni violente della polizia a Minneapolis dalla fine del 2009 a maggio 2019 proveniva dalla comunità nera, che costituisce solo il 20 percento della popolazione totale. Simili statistiche sono riscontrabili in gran parte degli Stati Uniti.
Nella misura in cui adesso le proteste crescenti, e subito fronteggiate da un imponente dispiegamento di apparati repressivi, tra polizia, militari e altri corpi armati, danno luogo ad azioni di ribellione aperta, ecco che i media mainstream e gli esponenti delle istituzioni, nonostante alcune distinzioni nei toni tra democratici e repubblicani, non perdono occasione di etichettare subito le proteste come “violente” condannando apertamente i responsabili e fornendo subito la giustificazione per una repressione altrettanto violenta ottenendo il consenso di una parte maggioritaria dell’opinione pubblica, inclusi ampi settori delle classi subalterne di razza bianca. Il meccanismo perverso di oppressione sociale e razziale e di repressione poliziesca si ripete quindi all’infinito. In questo contesto il presidente Trump sta ovviamente mostrando il suo volto più reazionario con un linguaggio e dei toni di impronta prettamente fascista e con l’obiettivo di alzare ancora di più la tensione sociale nel tentativo di polarizzare il consenso a suo favore. Tecniche antiche in salsa moderna.
Naturalmente sappiamo tutti che il razzismo rimane un tratto tipico della società americana ed allo stesso tempo intrinseco al sistema di dominio di classe capitalista. Tutto questo è stato ampiamente trattato e analizzato nel corso dei decenni da molto più autorevoli studiosi e non è certo questa la sede per volerci ripetere in queste analisi.
Ciò che invece riteniamo interessante evidenziare è il fatto che il conflitto razziale torna ad emergere negli Stati Uniti proprio in questo momento, non a caso nella fase critica di transizione tra l’emergenza sanitaria del COVID-19 che sta lasciando il campo ad una profonda crisi economica già in atto, con una cifra record di 40 milioni di disoccupati nel giro di appena 3 mesi e dalle conseguenze sociali che possiamo prevedere come devastanti nel mettere nuovamente a nudo una struttura economica e sociale profondamente fondata sulle diseguaglianze e sullo sfruttamento.
Le proteste e gli atti di ribellione non possono quindi che trovare piena giustificazione in un’ottica marxista, come viene giustamente sottolineato dal Workers World che riporta in proposito delle citazioni da Sam Marcy, allora presidente del WWP in un suo opuscolo scritto nel 1992 in occasione delle rivolte dei neri di Los Angeles, dove dice: “[...] la visione marxista della violenza deriva da un concetto completamente diverso. Prima di tutto distingue tra la violenza degli oppressori e la violenza reattiva delle masse. Solo essere in grado di formularla in questo modo è un gigantesco passo avanti, lontano dal disgustoso elogio borghese per la non violenza [...]” e continua: "[...] nei momenti in cui la borghesia si sente messa con le spalle al muro, quando le masse si sollevano all'improvviso e inaspettatamente, essa diventa più lirica sulla retorica della non violenza [....]. Qualsiasi violenza spontanea o non organizzata da parte degli oppressi è autodifesa contro la forza armata organizzata dello Stato. Non esiste un segno uguale tra i due; rappresentano due classi sociali distinte e antagoniste [...]. In effetti, i marxisti preferiscono metodi non violenti se gli obiettivi perseguiti dalle masse - libertà dall'oppressione e dallo sfruttamento - possono essere ottenuti in questo modo. Ma il marxismo spiega l'evoluzione storica della lotta di classe e la lotta delle nazioni e delle classi oppresse contro gli oppressori [...]”.
Il richiamo al pacifismo suona assolutamente come ipocrita soprattutto quando proviene dai portavoce, media e politici, delle classi dominanti e del grande capitale, che in realtà temono che venga messa in discussione la loro supremazia economica e sociale.
Le mobilitazioni si stanno diffondendo e moltiplicando molto rapidamente proprio perché l’uccisione di George Floyd ha fatto divampare immediatamente un senso di ribellione e di rivalsa profondamente radicato in ampi strati delle classi subalterne, e, se rimane numericamente prevalente la mobilitazione delle comunità nere, questa è sempre di più affiancata da altri settori delle classi popolari con l’attivazione di diverse organizzazioni e movimenti, in un’ottica che in molti casi possiamo definire di solidarietà di classe.
Nel suo assumere un crescente carattere di massa la mobilitazione in atto rappresenta un fatto politico in grado di ottenere dei risultati immediati, in primo luogo quello di neutralizzare i tentativi di soffocamento della rivolta da parte delle classi dominanti attraverso la duplice azione della repressione poliziesca e della condanna mediatica. Inoltre una dimensione di massa della mobilitazione può consentire di tenere sotto controllo alcune degenerazioni violente, impedendo sia le infiltrazioni criminali sia, peggio, le infiltrazioni e le provocazioni degli apparati polizieschi, che in tal senso sanno essere molto sofisticate. Nella misura in cui questo avverrà la mobilitazione di massa potrà esercitare un’influenza più incisiva ed un consenso più allargato che potrebbero portare a delle condanne esemplari degli agenti di polizia responsabili e segnare così una vittoria ed un precedente importante nei confronti delle stesse forze dell’ordine.
Sul fronte invece più ampio e generale della lotta al razzismo e della rimozione delle cause dell’oppressione e della violenza di classe il cammino si presenta invece molto più complesso e difficile. L’attuale mobilitazione è caratterizzata prevalentemente dalla spontaneità e dell’autorganizzazione, che sono certo aspetti positivi ma che non garantiscono da soli lo sviluppo di un’azione politica rivoluzionaria vera e propria.
In questo senso non ci sentiamo in questo momento di coltivare illusioni, poiché bisogna constatare oggettivamente sia un livello ancora non elevato di coscienza politica e di classe, impedita nel suo emergere anche dal fattore razziale, sia una sostanziale insufficienza di forme di organizzazione della lotta politica ben strutturate e radicate capillarmente nel territorio e con una guida politica solida e preparata.
Di positivo però questa esperienza potrebbe lasciare un importante segnale verso il futuro, perché sappiamo bene che lo sviluppo della coscienza e dell’organizzazione di classe possono avvenire soltanto sul terreno delle lotte reali e di obiettivi concreti di lotta ce ne sono tanti in questa fase. Se questi sviluppi ci saranno allora la morte di George Floyd non sarà stata vana, altrimenti questa vicenda andrà soltanto ad allungare la lista di una catena di rivolte a sfondo razziale e brutali repressioni di cui è costellata la storia statunitense.
Fonti per ulteriori approfondimenti:
Want justice for George Floyd? Jail & convict killer cops! — a WW commentary
Against police violence and capitalism, to rebel is justified
‘I can’t breathe!’: Minneapolis erupts in protest after George Floyd murder
Alton Sterling and the state-sanctioned lynching of Black Americans