Proveremo a unire in quest’articolo un’analisi del problema della fame in Brasile, con un’analisi dell’attuale fase politica. Innanzitutto va fatto osservare come il problema della mancanza di cibo sia strutturale nel paese amazzonico, visto che anche la Fao ha riconosciuto come tra il 2017 e il 2019 oltre 40 milioni di brasiliani hanno avuto una situazione di scarsa alimentazione. La situazione pandemica non ha fatto altro che aggravare la situazione e oggi secondo l’istituto statistico brasiliano oltre l’80% della popolazione che vive nelle favelas dipende da donazioni delle associazioni per poter vivere. È lecito chiedersi però come sia possibile questa situazione, visto che il Brasile è uno dei maggiori esportatori di prodotti primari nel mondo.
Spesso questa situazione viene interpretata in forma erronea, quando si dimentica il peso del latifondo nell’attuale situazione. La concentrazione della terra in Brasile rimette alla modalità con cui si è determinata la colonizzazione portoghese nel XVI secolo con la creazione di un’economia totalmente voltata all’esportazione di prodotti come caffè, zucchero e mais, basata su una concentrazione latifondistica delle terre e su relazioni di produzioni servili o feudali. All’interno del paese i grandi proprietari concedevano parte delle terre in cambio di una consistente percentuale del raccolto. La fame era già all’epoca un tema molto presente, visto che diversi missionari cattolici sottolineavano il problema, ed è una condizione che non muta nemmeno con la costituzione della repubblica brasiliana a fine XIX secolo, che determinò più che altro un cambio di persone e di potenza di riferimento, dal Portogallo si passò all’Inghilterra. La stessa abolizione della schiavitù, avvenuta nello stesso periodo storico, non cambiò nulla di sostanziale, avendo come principale obiettivo quello di evitare sanzioni internazionali e di favorire lo sviluppo del capitalismo nel paese.
Tale sviluppo, che soprattutto durante la dittatura vargista degli anni ’30 diede impulso all’industria, non alterò minimamente la struttura latifondistica, mantenendo il paese vincolato all’imperialismo statunitense e privandolo della possibilità di uno sviluppo realmente autonomo. La fame era già all’epoca di dibattito tra i sociologi e gli economisti più vicini al marxismo, che giustamente sottolineavano come essa fosse direttamente vincolata alla concentrazione delle terre, e non al clima arido del Nordest del paese o legata a un’astratta “diseguaglianza”.
Le politiche riformiste adottate negli ultimi decenni soprattutto dai governi del Pt non hanno risolto la questione perché non hanno mai promosso una vera e propria riforma agraria, limitandosi a un pur corretto assistenzialismo economico, che non crea però le condizioni per un’emancipazione dalle condizioni di miseria, concentrate soprattutto nella regione Nordest del paese. Lo sviluppo tecnologico del latifondo è servito invece a mascherare dietro una presunta modernizzazione il mantenimento della struttura latifondistica, rafforzato anzi dalla crisi in cui si trovano inseriti i piccoli produttori e i contadini senza terra, che vedono i loro margini di guadagno ridursi praticamente allo zero, e dalla crisi del capitalismo interno che azzera le pur minime politiche assistenzialiste presenti in precedenza. I dati 2020 del raccolto hanno mostrato un aumento record della produzione di soia, destinata soprattutto all’esportazione verso la Cina per alimentare i suoi allevamenti, mentre oltre la metà dei brasiliani ha dovuto fronteggiare l’anno scorso difficoltà nell’alimentarsi.
Per questo motivo il problema della fame in Brasile è soprattutto legato a una questione agraria: la concentrazione latifondistica delle terre, che non potrà essere risolta dentro le stesse istituzioni che sono sorte per perpetuarne il dominio.
Venendo alla questione interna già nelle ultime settimane avevamo evidenziato come la situazione si fosse fatta esplosiva, dopo l’annullamento della condanna di Lula e l’apertura di una crisi militare senza precedenti negli ultimi decenni, a ciò si è aggiunta questa settimana la creazione di una commissione d’inchiesta per verificare la gestione della pandemia da parte del governo. Bolsonaro in questa fase sembra essere capace solo di mentire e di minacciare un golpe, d’accordo con le forze armate, nel caso la situazione si complicasse ulteriormente. E non sarebbe la prima volta, visto quanto successo nello Stato di Rio de Janeiro nel 2018, senza che l’intervento dei militari risolvesse la situazione, anzi ha contribuito a peggiorarla.
Ma le dichiarazioni di generali ed ex membri militari del governo Bolsonaro non sembrano andare nella direzione voluta dal presidente, almeno per ora, visto che essi si premurano di invitare l’esercito all’unità ed ad evitare colpi di mano.
Se comparati tali discorsi con quelli di due anni fa, poco dopo l’insediamento di Bolsonaro, in cui i generali non mancavano di elogiare Bolsonaro per le sue capacità, dimostrano come oggi i militari vogliano liberarsi di Bolsonaro per non essere coinvolte nelle accuse di genocidio, corruzione e chi più ne ha più ne metta, ma sarebbero assolutissimamente in grado di intervenire contro qualsiasi protesta popolare. In ogni caso i discorsi degli anni scorsi non indicano che prima esistesse una totale convergenza tra generali e governo, né che il piano golpista di Bolsonaro sia destinato a fallire senza il supporto dell’alto comando delle forze armate. È possibile invece che Bolsonaro, se riuscirà a rimanere al governo, li coinvolga in un tentativo golpista, appoggiandosi sul suo consenso tra le truppe di basso grado e sulla instabilità crescente del sistema politico. In ogni caso l’apertura della commissione d’inchiesta e l’aumento delle indagini sulla relazione tra Bolsonaro e i miliziani coinvolti nell’omicidio di Marielle Franco a Rio aprono cammini di crisi del governo ancora più profonda; una crisi che non potrà in nessun modo risolta con semplici giochi di palazzo, ma solo con un cambiamento radicale di sistema.