Gli spaventosi particolari del caso Regeni rappresentano, purtroppo, soltanto un’ennesima tragica testimonianza del bonapartismo che domina in Egitto a seguito di un colpo di Stato militare. Con il pieno appoggio della potenza più reazionaria del mondo e la copertura delle potenze occidentali, il governo egiziano schiaccia nel sangue qualsiasi reale dissenso, collabora con Israele nell’imprigionamento di un intero popolo e prepara con le potenze imperialiste la nuova fase dell’aggressione alla Libia.
di Renato Caputo
Circa cinque anni fa si portava a compimento in Egitto la fase più significativa della Primavera araba, apertasi con la rivolta tunisina. Ancora una volta la sollevazione popolare spazzava in modo incredibilmente rapido uno dei regimi più longevi e potenti dell’area, nonostante fosse sostenuto da tutti i poteri forti e reazionari internazionali, dalle tirannie del Golfo, a Israele, ai paesi imperialisti. Sebbene da anni si affermasse, anche a sinistra, che l’epoca delle rivoluzioni si era definitivamente conclusa, che ogni forma di guerra di movimento nella guerra civile era ormai un residuo del passato, che l’unica strada percorribile era quella elettorale – nel rispetto dell’unica democrazia possibile, quella formale borghese – lo scendere in campo delle masse ha dimostrato il contrario. Ancora una volta è emerso il corso dialettico che segna lo sviluppo storico in cui, a lunghe fasi di lento e impercettibile sviluppo quantitativo delle contraddizioni, seguono degli apparentemente improvvisi – tanto che gli apocalittici parlano di Evento – salti qualitativi mediante rotture rivoluzionarie. Anche in questo caso la storia dimostrava, di contro ai cultori della non violenza dei subalterni, che la violenza rivoluzionaria è solo una violenza seconda resa necessaria soltanto per porre fine alla violenza enormemente più ampia e sistematica degli apparati dello Stato, funzionali alla salvaguardia, mediante il monopolio della violenza legale, dei privilegi fondati sullo sfruttamento.
Allo stesso tempo, però, i tragici eventi successivi – in primis in Egitto e in forma ancora più radicale in Libia e in Siria – hanno mostrato ancora una volta, di contro alle tesi degli anarchici, che l’elemento spontaneo della rivolta costituisce una condizione necessaria, ma non sufficiente al compimento di un rivolgimento rivoluzionario. Senza l’intervento di una direzione consapevole, che sia in grado di egemonizzare il processo e guidarlo nella direzione di un assetto sociale, di un modo di produzione in grado di superare le contraddizioni oggettive del modo di produzione precedente, si viene a creare la situazione così ben descritta da Gramsci: “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.
Una volta rovesciato il governo con una imponente rivolta popolare, se non si procede a spezzare la macchina dello Stato e a trasformare radicalmente il modo di produzione, espropriando gli espropriatori, il “Partito dell’ordine” riprenderà in tempi altrettanto rapidi il controllo della situazione. Anche perché il non aver preparato consapevolmente – nei lunghi anni precedenti dell’accumulazione quantitativa delle contraddizioni – il momento della rottura rivoluzionaria, compito che solo un partito rivoluzionario può portare a termine, ha fatto sì che la forza militare è rimasta in modo sostanzialmente compatto a fare da scudo al Partito dell’ordine, pesantemente sconfitto politicamente.
In tal modo le masse, prive di direzione consapevole e con una molto superficiale coscienza di classe, ulteriore segno della scarsa efficacia del partito della rivoluzione in Egitto, hanno finito per lasciare di nuovo le piazze sotto il controllo dei militari, che si sono presentati, secondo la rovinosa concezione idealista dello Stato, non come forze al servizio delle classi dominanti, ma come arbitri super partes e garanti del rispetto di regole uguali per tutti.
In tal modo la rivolta dal basso, invece di compiersi passando dal piano sovrastrutturale della rappresentazione politica in quello fondamentale delle strutture, del mondo di produzione, divenendo una rivoluzione sociale, si è arrestata ed è stata incanalata – via via che la partecipazione popolare, democratica, veniva scemando, e si affermava il principio liberale e oligarchico della delega – in una rivoluzione dall’alto che trovava il suo necessario compimento nelle elezioni parlamentari. In questa situazione le elezioni, come del resto anche in Tunisia, non potevano che essere vinte dall’unica forza di opposizione in grado di avere un certo consenso e radicamento di massa, che aveva svolto negli anni precedenti in modo coerente il ruolo di opposizione, dotata di una organizzazione internazionale e del sostegno di Stati stranieri: la Fratellanza musulmana. Per il suo programma termidoriano, di passivizzazione della rivoluzione, sostituendosi paternalisticamente al protagonismo popolare, tale governo è stato in primo luogo tollerato dalle potenze imperialiste che, impaurite dalla mobilitazione popolare e democratica, hanno preferito in un primo tempo non sostenere le forze della contro-rivoluzione ancora troppo deboli e poco radicate nella masse.
Tuttavia, per quanto conservatore e rappresentante a tutti gli effetti del Partito dell’ordine il nuovo governo – per mantenere il consenso popolare indispensabile a farlo tenere in piedi dinanzi alle forze della reazione, sconfitte, ma non certo vinte – ha dovuto portare avanti comunque una rivoluzione senza rivoluzione, ossia ha dovuto fare proprie alcune rivendicazioni popolari e delle classi subalterne che, pur non mettendo in discussione i rapporti di proprietà, disarmavano e indebolivano il fronte rivoluzionario, isolando le avanguardie.
Così il nuovo governo ha dovuto lasciare un certo spazio ai lavoratori per organizzarsi autonomamente dai sindacati di regime, riprendendo la lotta di classe per troppi anni condotta in modo sostanzialmente unilaterale dalle classi dominanti. Persino alle avanguardie rivoluzionarie, anche perché molto deboli, è stata lasciata la possibilità di riorganizzarsi e di operare non in forma clandestina e senza eccessive repressioni. A livello internazionale il governo, sviluppando a livello sovranazionale la sua vocazione a farsi interprete della rivoluzione passiva – che chiudesse le primavere arabe, ma impedisse un mero ritorno all’ancien régime – ha sostenuto le forze della Fratellanza che sembravano prendere in modo analogo il controllo della situazione in Tunisia, Libia, Palestina e Siria, con il supporto di Turchia e Qatar.
Tale sviluppo, sebbene garantisse la passivizzazione della rivoluzione rischiava di mettere in discussione le due grandi potenze reazionarie dell’area: Israele e le monarchie dispotiche del Golfo, il cui potere, fondandosi principalmente sulla violenza, rischiava di rivelarsi una “tigre di carta”. Tuttavia un’azione diretta della prima potenza avrebbe rischiato di rilanciare la rivoluzione attiva, per cui la parte del leone è stato fatto dalle seconde. Queste ultime hanno scatenato le forze dell’integralismo islamico, che avevano radicato e fatto crescere anche in Egitto finanziandole e ideologizzandole da moltissimi anni, come un po’ in tutti i paesi arabi e più in generale nei paesi con minoranze islamiche, come ha dimostrato drammaticamente il caso del Belgio. D’altra parte hanno sostenuto, corrotto, finanziato e fomentato le forze bonapartiste all’interno dell’esercito che, sfruttando abilmente il malcontento delle classi elevate, preoccupate per i proprio privilegi, della minoranza cristiana, dei ceti medi laici, hanno rovesciato con un colpo di Stato il governo “democraticamente” eletto.
Le grandi potenze imperialiste e la stessa Russia si sono mantenute almeno formalmente neutrali, preoccupate di dover spartire potere e influenza nell’area con un soggetto politico transnazionale che rischiava di rafforzarsi troppo. Le masse popolari, in larga parte passivizzate e deluse per gli esiti della grande rivolta popolare, sono rimaste fondamentalmente neutrali o almeno non si sono schierate in modo significativo con nessuna delle due forze in campo. La sinistra, già molto debole, si è spaccata ulteriormente, fra chi considerando un cesarismo laico meno pericoloso di un islamismo moderato, hanno finito con schierarsi con al-Sisi – dando credito alle illusioni che potesse essere un nuovo Nasser – altre si sono schierate, in maniera certamente più coraggiosa e coerente, contro questo nuovo 18 Brumaio.
Dalla repubblica termidoriana, sotto la guida della versione islamista del Partito popolare di ispirazione cristiana, si è passati a un bonapartismo regressivo che, con il pieno appoggio prima delle monarchie dispotiche del Golfo, poi della potenze imperialiste e sostanzialmente della stessa Israele, ha proceduto sulla strada di una progressiva liquidazione della stessa rivoluzione passiva. Gli spazi di democrazia formale, che consentivano un terreno indubbiamente più favorevole per lo sviluppo della lotta di classe da parte dei subalterni, sono stati progressivamente ristretti in senso plebiscitario. Le opposizioni, a partire dalla Fratellanza islamica al governo, sono state spazzate via con una violenza inusitata. Chi ha provato ha resistere è stato ucciso o condannato a morte e gli stessi dirigenti religiosi e politici sono stati arrestati e, dopo processi sommari, condannati a morte.
Ogni forma di organizzazione autonoma di classe dei ceti subalterni è stata o bandita o è pesantemente sotto attacco. Anche perché il colpo di Stato militare e il cesarismo regressivo hanno lasciato campo libero alle forze repressive dello Stato, trasformando sostanzialmente il paese in uno Stato di polizia in cui gli arresti e le detenzioni arbitrarie, le sparizioni e la tortura dei sospetti ha finito per divenire più la regola che l’eccezione.
Tale spaventosa violenza nei confronti delle opposizioni e dei subalterni, che ricorda almeno in parte il Cile di Pinochet, è sostanzialmente tollerata dalle classi sociali dominanti in Egitto e dalle grandi potenze a livello internazionale, perché è presentata come necessaria al ristabilimento dell’ordine, necessario al rilancio del business as usual e al contenimento del radicalismo islamico. Se nel primo caso la scusa può avere un fondo di verità, anche se significa tornare a una dittatura della classe dominante a difesa di un ordine economico sempre più inefficiente e fondato su rapporti di proprietà sempre più in contraddizione con il necessario sviluppo delle forze produttive, nel secondo caso si tratta palesemente di una menzogna.
Come abbiamo visto il bonapartismo egiziano si fonda, dal punto di vista economico, sul sostegno indispensabile delle tirannie del golfo Persico che pretendono, come necessario contraccambio, il sostegno incondizionato dell’Egitto – paese determinante nel mondo arabo – alle loro politiche di diffusione fra tutti i musulmani del Wahhabismo, ossia di una versione ultra reazionaria, integralista e fondamentalista della religione, parente strettissimo del salafismo, ossia della visione del mondo del terrorismo islamista internazionale da Al Quaida all’Isis.